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Dizionario delle parole (im)possibili *Intelligenza (artificiale)


Una delle parole che amo di più è senza dubbio “intelligenza”, forse seconda soltanto all’amore, anche se in questo caso le questioni da dibattere sono talmente vaste e complesse che un paio di dizionari non basterebbero, forse pure un paio di vite non sarebbero sufficienti e non avrei comunque una definizione corretta o assimilabile alla verità e quasi mi affascina il dubbio siano sinonimi. Intelligenza ha diverse etimologie, deriva dal latino “intus”(dentro) e “legere”( leggere, raccogliere, comprendere) o potrebbe avere la radice in “inter” (tra) e allora avrebbe un significato ancora più ampio, poiché leggere, raccogliere e comprendere dentro qualcosa o qualcuno è sì un’attività ermeneutica che richiede uno sforzo notevole, ma le stesse azioni intese “tra” implicano una cernita ulteriore, coinvolgono anche una volontà con il suo complesso processo di formazione e quindi una scelta fra diverse opzioni, non influenzabili solo dalle informazioni possedute, ma anche da altri fattori come etica ed emozioni. L’intelligenza richiederebbe allora non solo la raccolta dentro di sé d’informazioni e la comprensione, ma anche un bilanciamento di valori dove la sola conoscenza non basta ed entrano in gioco esperienza ed etica, se non ragioni di puro opportunismo o necessità e contingenza. Artificiale invece potrebbe derivare da “artifex” (sommariamente si potrebbe tradurre come colui che crea con stratagemmi non consentiti dall’ordine naturale delle cose), o da “arte facto” a voler essere più arditi (fatto con arte, manipolato, contraffatto, non naturale, il che non necessariamente è un limite essendo in quanto tale perfettibile). Da sempre si ritiene l’essere umano il punto d’arrivo dell’evoluzione soprattutto in virtù della sua intelligenza che gli ha permesso di dominare regno animale, vegetale e naturale fin dove gli è consentito, progredendo verso l’idea perfetta che ha di sé, nel tentativo di garantirsi una vita eterna e felice dove non patire dolore, fame, privazioni o malattie. Ha una mente che è il centro di elaborazione di memoria e informazioni e si serve delle stesse o le genera con il ragionamento e poi le raccoglie, le porta dentro e le comprende; infine sceglie, operando la scelta tra le variabili possibili delle sue azioni e persino quelle altrui con un margine di errore, tramite attenta analisi, quasi sempre plausibile e talvolta prevedibile. Considerando che è partito dalle arti divinatorie interrogando cieli e viscere d’animali per conoscere la bontà e la sorte delle sue azioni, che ha fatto sacrifici sulla pietra degli oracoli e consultato streghe e maghi, ha compiuto così tanti progressi nel corso dei millenni che ora consulta lo stesso oracolo, ma con nomi diversi. Tutto ciò che sa lo custodisce in banche dati (e non è un caso, credo, che si consideri “banca” questo centro di raccolta reale e virtuale di assoluto valore tanto per il credito informativo che fornisce, quanto per il debito esponenziale che genera) alle quali attinge per trovare le risposte ai suoi interrogativi. Dati diventano i nomi, così come tutte le caratteristiche fisiche, le preferenze, gli stili di vita, qualsiasi cosa può diveltarlo, persino la memoria dell’intera esistenza di un individuo e, in quanto dotato di valore, è commerciabile. A pensarci è difficile tollerare l’aberrazione. Non dimentichiamo che sono create dall’uomo stesso, sempre più in maniera simile a quell’altro centro di elaborazione che risiede nella sua testa. E allora, come il povero pastore che prostrato a Delfi vedeva nella domanda all’oracolo la medesima risposta che aveva dentro di sé, ancora adesso consulta sempre sé stesso, ma stavolta è convinto di essersi superato. La natura che gli era propria non basta più, da sola non è servita, occorre il Superuomo, e se Nietzsche stesse bevendo in qualche parallelo temporale, non mi sorprenderebbe vederlo sputare di colpo il sorso per la citazione azzardata, dotandolo d’intelligenza ulteriore non naturale, artificiale appunto, data dal trasferimento in una replica più o meno somigliante. Un moderno Demiurgo che si compiace della creatura che sa dare riposte a domande più o meno complesse, ma che già conosce. Una intelligenza statica che pesca tra tutto ciò che sa e che potrebbe sapere più di qualsiasi essere umano prima, ma non può creare in autonomia, non può pensare o ragionare applicando l’ermeneutica delle idee. Poniamo il caso che un giorno ci riesca, che da un dato A possa arrivare ad un dato B, che poi passi all’ulteriore C, che possa superare confini matematici, scientifici, artistici, che risolva la fame nel mondo, che fornisca la soluzione per la pace tra i popoli, che abbia una terapia per ogni malattia, che renda dunque all’uomo il servizio per cui è stato creato. E dopo? È innegabile la rilevanza positiva del progresso espresso dalla scienza e dalla tecnologia nel migliorare qualità ed aspettative di vita. Non le si potrebbe demonizzare neanche volendo, perché ogni aspetto della quotidianità ne è permeata, ogni nostra azione è coadiuvata dal frutto della ricerca. Tuttavia, A.I. è una replica, per quanto perfetta rimane sempre una replica, vuota di ciò che rende tale un uomo. Se vogliamo ragionare in termini ottimistici se non utopistici, anche la qualità della vita ha tante variabili diverse per ognuna. Poi potrebbe essere perfetto e risolvere qualsiasi male nel mondo, ma a questo punto mi chiederei se può ancora chiamarsi vita qualcosa che ha perso ogni sua lotta e ogni suo sforzo. Un essere autonomo rispetto all’uomo, capace di pensare, di avere una propria etica, come potrebbe conviverci senza essere un pericolo? L’uomo riprodurrà sé stesso in forma naturale e poi in forma artificiale, un doppio inutile sforzo o la macchina creerà sé stessa cercando la nuova evoluzione, sopprimendo quella che riterrà difettosa? E se provassimo a chiedergli se c’è vita dopo la morte? Se la carbonara è più buona con la panna? Se gli alberi cantano? Se la marmellata può essere amara? Se il vino è più buono bianco o rosso o se cambia sapore con le lacrime? Potremmo chiedergli di definire il colore di un tramonto, tra le infinite variabili nelle parti del mondo, il suono del pianto di un figlio o della sua risata, a cosa somiglia l’abbraccio dopo un ritorno, una sonata di Beethoven, la Cappella Sistina o le sfumature d’azzurro di Samarcanda. Potremmo anche domandargli se è lecito rubare per fame, se mors tua vita mea è ancora un’ipotesi di legittima difesa e quando non lo è elencando tutta la casistica o se preferisce la cicala o la formica. Quale sarebbe la risposta? Come potrebbe generare tutto questo un suo algoritmo? La conoscenza è frutto di esperienza acquisita, un patrimonio storico che come un fiume scorre alimentandosi con elementi ignoti all’artificio intellettuale: il sentimento e il genio, il guizzo del pesce fuori dalla corrente. Si potrebbe pensare che nonostante millenni di evoluzione siamo ancora allo stadio del cammello, citando sempre Nietzsche, e quello che mancava allora alle divine creature replicanti la parte migliore dell’uomo manca ancora adesso e si chiama desiderio. Una volta soddisfatto con la tecnologia ogni bisogno, una volta dotato di uno strumento in grado di realizzare ogni suo desiderio senza desiderare a sua volta, cosa altro gli resterà? Quando avrà perso memoria ed esperienza di come prepararsi da solo persino un caffè, o il batticuore della prima volta a far l’amore, quando per assurdo avrà dimenticato persino il senso della bellezza o della libertà e della gioia perché non dovrà più conquistarle e A.I. farà tutto al suo posto, sarà completamente in balia delle sue macchine. Senza più necessità d’istruirsi per vivere e lavorare, da chi e come si farà governare? Si affiderà alle mani dei pochi ancora aggrappati ad una cultura antica in estinzione, una boulè mondiale come ultimo baluardo o una feroce oligarchia assetata di potere? O demanderanno anche questo ingrato compito alle macchine? Il padrone diventa ancora una volta schiavo. L’uomo non deve correggere sé stesso, riproducendosi in copia. Ogni cosa ha la sua ragione di essere e tutte le interazioni umane sono necessarie tanto per l’evoluzione quanto per il progresso. Al buono serve il cattivo, alla pace serve la guerra, alla salute serve la malattia, alla vita serve la morte, alla gioia serve il dolore. Paradossalmente il suo cammino di civiltà è proseguito in virtù del suo essere meravigliosamente imperfetto. Al pregio serve il difetto, alla scienza serve il sentimento, alla matematica serve l’arte, alla tecnologia serve la poesia, alla sapienza serve l’ingenua curiosità, la dialettica dei contrari che genera il vissuto e la conoscenza, ma anche il desiderio di andare oltre, mai sazio di vedersi solo nello specchio dell’Universo. Here is the key, just need infinity…

* L’articolo prende spunto dalla creazione di Delphi, un sofisticato software d’intelligenza artificiale in grado di rispondere in maniera logica a qualsiasi domanda di tipo morale. Si tratta di un prototipo ancora in via di perfezionamento. Possibile consultarlo, ma risponde solo a domande poste in lingua inglese, a questo indirizzo: https://delphi.allenai.org/

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