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CURDI: Un popolo senza patria (a cura di Nurgul Cokgezici)


Mi chiamo Nurgul Cokgezici, sono Curda, e sono nata del Kurdistan turco. Non ho mai avuto una patria; né quando vivevo in Turchia, né quando sono arrivata, a soli nove anni, in Italia. Il sociologo franco algerino Abdelmalek Sayad, ha scritto che i migranti vivono una doppia assenza: non appartengono più alla terra da cui provengono, e non gli viene consentito di appartenere a quella dove approdano. Vivono per difetto la prima cittadinanza, e per eccesso la seconda. Sono strappati dalla propria terra, e non trovano che pietre e cemento quando provano a mettere radici in quella di adozione.

Ci sono ma è come se non ci fossero. Nessuno li vede, nessuno li ascolta. A queste due assenze io, in quanto Curda, ne ho dovuta aggiungere una terza. Perché non c’è mai stata una terra che potessi chiamare, o sentire, come mia. Ero apolide, invisibile, prima che salissi sulla nave che, ancora bambina, mi avrebbe portato in Europa. Sono un’immigrata di prima generazione. Perciò ho dovuto scoprire sulla mia pelle la difficoltà legate a una terra nuova e una lingua sconosciuta, ho vissuto tutta la complessità dell’adattamento a un nuovo paese, e a portare a compimento un percorso scolastico regolare. Oggi ho 38 anni, sono madre di tre bellissime ragazze, e mi prendo cura di loro da sola. Ma il mio percorso è stato – ora lo comprendo – molto, molto difficile. Quando  mi ha chiesto la organizzatrice dell’evento se mi sarebbe piaciuto intervenire al parlamento europeo per sostenere la causa degli studenti in Turchia, ho accettato subito. Perché ho conosciuto sulla mia pelle i danni che può procurare una mancanza di istruzione. Niente come una formazione scolastica e universitaria, può rappresentare una leva fondamentale nel processo di emancipazione, di crescita democratica e di consapevolizzazione di un popolo. E nulla lo può compromettere come un regime che decida chi può accedere a questa fondamentale risorsa, e chi costringere a rimanerne fuori. Sono figlia di una donna che ha appena 18 anni più di me, non è mai andata scuola, non sa né leggere né scrivere. Fin da bambina vedevo le difficoltà in cui rimaneva incagliata. Vivevamo in una zona rurale della Turchia, dove a noi Curdi veniva imposta la lingua turca, il cambio dei nomi delle località, piccole e grandi deportazioni, e ovviamente veniva censurata ogni forma di autocoscienza collettiva, un “noi” che fosse differente da quello imposto dal potere politico. Di accedere alla formazione non se ne parlava. Ricordo le angherie subite dagli insegnanti della scuola elementare, perché curda. Sostanzialmente la scoperta di “essere curda”, di cosa avrebbe potuto comportare, di cosa eravamo stati costretti a subire, avvenne una volta arrivata in Europa. Non potevano seppellire tutti noi, avevano seppellito la consapevolezza di ciò che eravamo. Una volta arrivata in Italia abbiamo dovuto subire altre forme di esclusione, o di inclusione forzosa; come in molte altre famiglie di migranti, mia madre, spaventata da un mondo talmente diverso – come poteva comprendere la complessità del mondo, dal pavimento di una casa poverissima sulle colline bruciate intorno a Gaziantep, non avendo mai avuto accesso a un canale formativo? – si è avviluppata in un silenzio reticente. Non poteva capire il mondo, il mondo non la doveva più capire. Così sono diventata io l’adulta della mia famiglia, fin dall’infanzia più precoce. Dovevo occuparmi io di tutto, tradurre qualsiasi testo, fare le cose per i documenti e quelle per ottenere un servizio. Anche io fui costretta a trovarmi in un matrimonio combinato quando ancora facevo la quarta superiore, perché per uscire dalla rappresentazione del mondo entro la quale sei stata compressa dalla tua nascita, occorre fare un grande sforzo di emancipazione. E questo può avvenire esclusivamente attraverso lo studio. Allora cominciai a studiare, a studiare davvero. Dovevo uscire da quella catena di imposizioni – interne ed esterne – e costruire un avvenire diverso per me, e specialmente per le mie figlie. Non è stato facile. Ho dovuto sopportare il crollo del mio primo matrimonio, da sola con due figlie, di essermi legata per necessità con un altro uomo, ancora una volta facendo la scelta sbagliata, dettata dalla necessità e non da altro. Con lui ho avuto la mia terza figlia. Ma dovevo mettere fine a quella catena delle forzature, dei debiti, delle estraneità. Per me e per le mie ragazze. Così arrivò la laurea. E’ stato il momento in cui ho capito che non ero io a “essere sbagliata”, ma l’ignoranza entro la quale avevo galleggiato, come un tappo di sughero in un torrente, fino a quel momento. Il mio secondo marito, che ha reagito in modo brutale alla separazione, sosteneva che la colpa di questa fosse dovuta proprio allo studio, che mi aveva reso una persona diversa, meno succube ed emancipata. E, dal suo particolare punto di vista, non si può dargli torto. L’accesso allo studio mi ha reso una persona più consapevole, dandomi gli strumenti per diventare protagonista della mia esistenza, imparando a dire anche alcuni “no”. Devo molto, in questo senso, alla Comunità Europea che, anche attraverso la regione Lombardia, in un momento molto difficile, mi ha consentito di completare un master post universitario, il cui tema erano propri le dinamiche migratorie. Oggi, grazie a tutto il lavoro che ho potuto svolgere su me stessa, da quella ragazza fragile che ero, sono diventata una donna più forte, e un riferimento per la comunità curda in Italia. Ecco perché oggi sono qui, per testimoniare in favore degli studenti universitari che protestano per un vero diritto allo studio, la loro rivolta è la voce di chi rischia di non avere una voce. La loro ribellione contro un sistema connivente al potere, in Turchia, ma anche in Iran e in molti altri paesi, è il luogo dove si sta lottando per la libertà e il futuro di tutti.

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