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Turetta e le 75 coltellate: quando la crudeltà non è (ancora) giuridica di Francesco De Rosa


Lettera al direttore

«Scrivo da studente di Giurisprudenza, ma soprattutto da cittadino: perché il diritto non resti solo confinato nelle aule dei tribunali, ma arrivi alle coscienze»

Una sentenza che fa discutere La recente sentenza nel caso dell’omicidio di Giulia Cecchettin ha sollevato una domanda difficile: quando il numero dei colpi smette di essere solo un dato e diventa una misura del male? La decisione della Corte d’Assise di Venezia ha suscitato un ampio dibattito giuridico e sociale. La Corte ha condannato Turetta all’ergastolo, riconoscendo l’aggravante della premeditazione, ma escludendo quelle della crudeltà e dello stalking. Una scelta che, soprattutto sul piano emotivo, ha colpito l’opinione pubblica: è possibile infliggere 75 coltellate e non essere considerati “crudeli” secondo la legge? Premeditazione sì, crudeltà no. La Corte ha riconosciuto l’aggravante della premeditazione, indicando che Turetta avrebbe pianificato l’omicidio con anticipo. Secondo la giurisprudenza, la premeditazione richiede un intervallo di tempo sufficiente tra l’ideazione e l’esecuzione del delitto, durante il quale l’autore mantiene ferma la decisione criminosa. (Art. 577, comma 1, n. 3 c.p. – che prevede l’ergastolo per l’omicidio aggravato da premeditazione.) Diversa è la valutazione sull’aggravante della crudeltà. Secondo la Corte di Cassazione (sent. n. 44989/2018), questa sussiste solo quando il reo infligge alla vittima sofferenze gratuite e non necessarie, eccedendo ciò che serve per causare la morte. L’esclusione dell’aggravante della crudeltà, nonostante le 75 coltellate inferte alla vittima, può apparire controintuitiva. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha stabilito che il numero di colpi non è di per sé determinante per configurare tale aggravante. L’art. 61, n. 1 c.p. configura una circostanza aggravante comune quando il reato è stato commesso “con crudeltà verso le persone”. La giurisprudenza di legittimità – in particolare Cass. pen., sez. I, sent. n. 44989/2018 – ha chiarito che la crudeltà consiste nell’infliggere alla vittima sofferenze gratuite e non necessarie alla realizzazione dell’evento lesivo. Secondo la Cassazione, l’aggravante della crudeltà sussiste ‘’quando l’autore del reato infligge sofferenze aggiuntive e gratuite alla vittima, eccedendo ciò che è necessario per causarne la morte.’’ In altre parole, è necessaria la volontà di infliggere un dolore superfluo e non strettamente funzionale all’omicidio. Se i colpi sono stati inferti con l’unico scopo di causare la morte, senza un intento aggiuntivo di crudeltà, l’aggravante non sussiste. Nel caso Turetta, la Corte ha escluso l’aggravante, ritenendo – con riferimento a precedenti conformi – che le 75 coltellate non fossero manifestazione di un intento sadico, ma strumentali all’omicidio, e dunque non qualificabili come “crudeltà giuridica”. La quantità dei colpi non basta: ciò che rileva è la volontà aggiuntiva di far soffrire, di trasformare l’esecuzione in tortura. In termini giuridici, quindi, la crudeltà non è configurabile. È una decisione tecnicamente corretta e coerente con l’attuale assetto normativo. Tuttavia, ciò non significa che non sia discutibile sul piano etico e simbolico. Questa interpretazione, seppur tecnicamente fondata, si presta a critiche sul piano assiologico: la reiterazione dell’offesa può costituire un indicatore di disumanizzazione dell’altro, che – pur non configurando ex se l’aggravante – merita forse un ripensamento in chiave evolutiva del dato normativo, questo sì, posso essere d’accordo. La legge parla, ma ascolta? “Dov’è giustizia, se non nella verità?”, direbbe Manzoni. Ma la verità, per essere giusta, deve saper parlare anche alla coscienza, non solo al Codice. E quando le coltellate diventano numeri, forse è il momento per il diritto di tornare a farsi anche linguaggio morale. Pur condividendo la fondatezza giuridica della decisione, ritengo legittimo chiedersi se il diritto penale non debba iniziare a recepire, con maggiore sensibilità, le forme più intense e reiterate di violenza. Pur riconoscendo la forza emotiva che certi casi suscitano nell’opinione pubblica, da giurista non posso che condividere l’impostazione della Corte: la decisione è tecnicamente corretta, coerente con una nozione consolidata di crudeltà giuridica, che esige un quid pluris intenzionale, una volontà sadica di far soffrire. Le 75 coltellate, per quanto scioccanti, non bastano da sole a integrare l’aggravante, se sono strumentali alla realizzazione dell’omicidio.

Uno sguardo oltre il Codice

Tuttavia, resta legittimo – e forse necessario – interrogarsi sul piano sociale e culturale: perché la reiterazione dell’offesa tocca corde profonde nella coscienza collettiva, e spinge a chiederci se il diritto debba o meno evolvere nel suo modo di riconoscere e nominare la violenza. In fondo, come ricordava Dostoevskij, il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Ma forse, oggi, si misura anche da quanto il diritto riesce a farsi linguaggio morale, senza smarrire la sua coerenza logico-giuridica. Perché – direbbe Hannah Arendt – restituirgli il suo vero nome”. quando il male si fa banale, è al diritto che spetta È tempo di chiederci se il diritto penale, pur restando fedele alla sua logica, debba iniziare a riconoscere anche quei segni della violenza che parlano alla coscienza prima ancora che al Codice.

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