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Il giorno della Calabria e le foto di Life a cura di Raffaele Montepaone


“Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione. La parola Calabria dice alla maggioranza cose assai vaghe, paese e gente difficile”. Così scriveva Corrado Alvaro poco meno di un secolo fa (era il 1931 quando le sue riflessioni vennero pubblicate nella collana “Visioni spirituali d’Italia”).

Continuava, lo scrittore d’Aspromonte: “In fondo all’anim

o del Calabrese c’è una aspirazione ai concetti assoluti e alla metafisica; filosofare è ancora la sua occupazione preferita, essere paladino dell’autorità il suo orgoglio. La contemplazione dei concetti assoluti e delle cose passate fa del Calabrese l’uomo meno capace di infatuazioni, uno dei più tradizionali”.

Stereotipi? Verità? Capacità di indagare l’animo umano – e ancora più quello calabrese – più a fondo di quanto ciascuno di noi sia capace di scavare? Ho letto e riletto i grandi scrittori della Calabria mentre iniziavo la mia ricerca antropologica. Il testo di Leonida Repaci tra i più citati, ad esempio.

 

“Quando fu il giorno della Calabria, Dio si trovò in pugno quindicimila chilometri di argilla verde con riflessi viola. Pensò che con quella creta si potesse modellare un paese per due milioni di abitanti al massimo. Era teso in un vigore creativo, il Signore, e promise a sé stesso di fare un capolavoro. Si mise all’opera, e la Calabria uscì dalle sue mani più bella della California e delle Hawaii, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi. Diede alla Sila il pino, all’Aspromonte l’ulivo, a Reggio il bergamotto, allo Stretto il pescespada, a Scilla le sirene, a Bagnara i pergolati, a Palmi il fico, alla Pietrosa la rondine marina, a Gioia l’olio, a Cirò il vino, a Nicotera il fico d’India e a Pizzo il tonno. Diede al Crati l’acqua lunga, allo scoglio il lichene, alle montagne il canto del pastore, alle spiagge la solitudine e all’onda il riflesso del sole. Assegnò Pitagora, Alcmeone e Filolao a Crotone, Gioacchino da Fiore a Celico, San Francesco a Paola, Telesio a Cosenza, Campanella a Stilo, Mattia Preti a Taverna, Manfroce e Cilea a Palmi, Alvaro a San Luca e Calogero a Melicuccà. Poi distribuì i mesi e le stagioni alla Calabria. Per l’inverno concesse il sole, per la primavera il sole, per l’estate il sole, per l’autunno il sole. A gennaio diede la castagna, a febbraio la pignolata, a marzo la ricotta, ad aprile la focaccia, a maggio il pescespada, a giugno la ciliegia, a luglio il fico melanzano, ad agosto lo zibibbo, a settembre il fico d’India, a ottobre la mostarda, a novembre la noce, a dicembre l’arancia. Volle che le madri fossero tenere e le mogli coraggiose, gli uomini autorevoli e i vecchi rispettati; i mendicanti protetti, gli infelici aiutati, le persone fiere, leali, socievoli e ospitali. Volle il mare sempre viola, la rosa sbocciante a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, l’acqua abbondante, il clima mite, il profumo delle erbe inebriante.

Operate tutte queste cose nel presente e nel futuro il Signore fu preso da una dolce sonnolenza in cui entrava la compiacenza del Creatore verso il capolavoro raggiunto. Del breve sonno divino approfittò il diavolo per assegnare alla Calabria le calamità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, il feudalesimo, le alluvioni, la peronospora, la siccità, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’Onorata società, la vendetta, l’omertà, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione. Dopo le calamità, le necessità: la casa, la scuola, la strada, l’acqua, la luce, l’ospedale, il cimitero. Ad essa aggiunse il bisogno della giustizia, il bisogno della libertà, il bisogno della grandezza, il bisogno del nuovo, il bisogno del meglio. E, a questo punto, il diavolo si ritenne soddisfatto del suo lavoro: toccò a lui prender sonno, mentre si svegliava il Signore. Quando, aperti gli occhi, poté abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla creatura prediletta, Dio scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi, lentamente, rasserenandosi disse: “Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e devono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l’ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più dolore: ecco tutto. “Utta a fa jornu c’a notti è fatta”. Si sbrighi a far giorno che la notte è passata. Una notte che contiene già l’albore del giorno.

 

“Più che alla realtà, la Calabria appartiene per me alla geografia dell’anima” scriveva ancora Répaci nel suo Taccuino segreto. E poi, in Calabria grande e amara: “Esser nato in Calabria costituisce per me un privilegio. Come artista e come uomo debbo il meglio di me alla culla: per me la Calabria significa categoria morale, prima che espressione geografica. Calabrese, nella sua migliore accezione metaforica, vuol dire Rupe, cioè carattere. Nei momenti gravi della vita, quando, nella tempesta dell’avversità, l’uomo si rivela, ho sentito in me qualcosa di molto somigliante a quegli scogli della Pietrosa dove il mare torna all’innocenza primordiale in uno scenario gigantesco di rupi che salgono la montagna, ripetendo il mito dei Titani lanciati a scalare il cielo”.

 

Non so se per me la Calabria è realtà o sogno, disincanto o speranza, resa o lotta. Certo è che rimane una geografia – inesplorata – dell’anima, quasi sempre affogata dai troppi stereotipi negativi di cui si è caricata (è stata caricata?) nel tempo. Cerco. Ancora e sempre.

Osservo. Scruto. Cerco di andare oltre. Ogni scatto di LIFE è il segnaposto della mia ricerca. Il tributo che sento urgente per dare voce alla bellezza della mia regione. Perché mi è davvero difficile spiegarla, la Calabria. Ma mi viene facile – direi obbligatorio – fermare nel tempo le sue istantanee di vita e di sentimenti per farla vedere come la vedo io. E allora sì, che verrà il giorno della Calabria.

 

Life comprende due serie di opere, Faces ed Hands. Volti e mani solcate dal tempo e dalla fatica, vecchi abitanti di paesi abbandonati che sembrano immersi in un passato immemorabile, sono i centenari calabresi i protagonisti, figure mitologiche, lontane dalla storia e lontane dall’osservatore e la visione monocromatica ne aumenta la distanza “Attestano la sopravvivenza di un mondo contadino, magico, fermo da millenni. Le ossa dei volti paiono pietre, la pelle cortecce. Sono elementi della natura essi stessi, si confondono con essa, dimostrano la capacità dell’uomo di resistere alle avversità.”

Life è un intimo documento storico, un segno di quella Calabria che è sopravvissuta all’apocalisse culturale della società consumistica. È al contempo un mondo crudo e romantico, pregno di simbologia, un mondo che vive in un tempo sospeso, i cui ritmi sono scanditi solo dalla natura.

Life è un monito alle nuove generazioni, un invito a fermarsi, a ritrovare il valore e la grandezza delle piccole cose, ad ascoltare ed osservare lontano da rumori e colori.

Life vuole trasmettere un messaggio di resilienza, tramite una fotografia non urlata ma potente marca un netto contrasto con il caos di valori della società moderna che genera giovani belli, patinati e robusti nel corpo ma fragili nell’animo.

Life ritrae “una verità altra che sopravvive alla modernità e forse la beffeggia.”

 

 

English version ab.

Life consists of two series of works – Faces and Hands. Faces and hands wrinkled by time and hard work, old inhabitants of abandoned villages, that seem immersed in an immemorial past, are the protagonists of the project. They are a hundred-year old Calabrians, mythical figures, remote from today and remote from the onlooker, and the authors monochromatic vision only increases this distance. They celebrate the viability and tenacity of the rural world, which has been full of magic, sameness and inalterability for thousands of years. Their facial bones seem to be made of stone and their skin looks like a shell. They themselves are part of nature, they blend with it, they show the ability of man to face and resist the worlds animosity and hostility.

Life is a personal historic record, a symbol of the Calabria that has survived the cultural apocalypse of the consumerist society. It is at the same time a severe and romantic world, full of symbolism, a world that lives in a time standing still, and where the pace of life is determined by nature alone.

Life is a warning to the new generations, an invitation to make a pause and rediscover the value and the grandness of little things, to listen and observe sounds and colours from far away. By means of a photograph.

Life delivers a quiet but powerful message of resilience and spirit; it clearly opposes the chaotic values of the modern society that generates beautiful and glamorous youth, strong in their bodies but so fragile in their spirits.

Life portrays an “alternate reality, which will outlast modernism and maybe even ridicule it.”

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