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UNDICI, videoracconto di Saul Ferrara (a cura di Helios Magazine


NUMERO 11 – (Racconto tratto dalla raccolta “Sul Morbido Guanciale della Follia”)

 

Allargare il passo… devo allargare il passo… senza perdere la frequenza… il respiro si rompe tra le tempie… li ho alle calcagna… sono vicini…sono maledettamente vicini.

Avevo appena due anni quando mia madre mi portò in collegio, affidandomi alle mani nodose di quattro suore ed alle loro storielle del cazzo fatte di angeli invisibili, tutti presi a spiare e a denunciare le mie cattive azioni, e naturalmente c’era anche il lupo malvagio, sporco e con gli occhi gialli, che veniva di notte a prendere i bambini disubbidienti per mangiarseli. Quando serravo forte la bocca, rifiutandomi di ingurgitare le porcherie che ci passavano, le suore si facevano più serie del solito e minacciavano “Se non mangi tutto stanotte verrà il lupo a prenderti”. Poverine, erano convinte che mi cagassi addosso! Se solo avessero sospettato che la cosa che più desideravo allora era proprio quella di essere rapito dal lupo, per sparire con lui nel suo regno di zolfo! Nel collegio rimasi fino all’età di dodici anni e durante tutto questo periodo, di mia madre conobbi soltanto il suo profumo tenue, quasi privo di carattere, e quelle odiose caramelle che s’incollavano sempre al palato, dono immancabile delle sfuggenti e rare visite che mi faceva, durante le quali mi prometteva senza convinzione che sarei tornato a casa. Casa? Ma se non sapevo neanche cosa fosse una casa! Ero cresciuto in quel cazzo di collegio fatto di lunghi corridoi pregni dell’odore inconfondibile del disinfettante e da enormi camere bianche, bianche come il latte e senza un disegno, dove le suore con la loro tonaca nera spiccavano come ombre di avvoltoi. Poi, prima di andarsene, mi carezzava la testa rasata ed io speravo che non tornasse più.

Più veloce, sempre più veloce… non posso farmi raggiungere, non ora, non questa volta…Il sudore cola dalla fronte, la gola è arsa, e queste gambe dure come se fossero di legno… ma io ho imparato ad ignorare, so ignorare tutto.

Durante l’intera permanenza nel collegio mi fu assegnato un numero, l’undici. Lo trovavo ovunque, dominava, scritto con un pennarello rosso, sopra la testiera del letto su cui dormivo; era ricamato sulle mutande, sui calzini, in tutti i miei indumenti ed era perfino rozzamente inciso sulle mie posate, e col tempo questo numero diventò per me un secondo nome. Gli altri bambini erano tutti più grandi di me e questo mi creò molti problemi, non tanto durante le ore di lezione in aula quanto nelle ore ricreative: ero considerato il moccioso che puzzava ancora di latte e non mi lasciavano giocare con loro. Così, da solo, iniziai a correre intorno al collegio. Lo facevo senza fermarmi, finché non mi chiamavano per rientrare in classe. In poco tempo imparai tutto di quel piccolo percorso, il dislivello delle mattonelle, le pietre insidiose che affioravano dal terreno e le crepe delle aiuole. Correvo, correvo sempre di più ed intanto le mie gambe si irrobustivano.

Sto correndo come non ho mai fatto prima… Vincerò. L’ho capito quando alla partenza mi hanno dato il pettorale con il numero undici.

Uscito dal collegio le cose per me peggiorarono. Non potevo più correre. I parenti sostenevano che se lo avessi fatto la gente del paese avrebbe sicuramente pensato che ero un po’ svitato. In quel cesso di provincia il pensiero della gente era ovunque, come la merda di cane, e per non lordarti dovevi stare immobile. Lavoravo nell’officina di mio cognato, un uomo rozzo dai baffi setolosi che lo facevano rassomigliare ad un cinghiale. Ovviamente non ricevevo nessuna retribuzione, ma lui, in cambio mi avrebbe offerto la sua esperienza ed insegnato a vivere una vita normale, fatta di feste di piazza, partite al biliardo e tante, tante schedine. Mio cognato sapeva tutto del mondo; riusciva a posteggiare senza nessuna difficoltà nel piccolo spazio del garage e prima di chiunque altro ad individuare un fuorigioco.

Un giorno una giornalista mi domandò a che cosa penso durante una maratona. << A correre.>> risposi, ma in verità avrei dovuto risponderle che penso solo a scappare dal mio passato.

Poi vennero loro, gli aghi, le medicine, le mani forti per trattenermi. L’ignoranza e la cattiveria mi hanno rubato una parte della mia vita. Quei giorni, nei miei ricordi, sono come tanti fotogrammi di una pellicola non impressionata.

Mentre corro le persone mi incitano, urlano che sono il primo. Davanti a me è rimasto solo il tappeto blu che segna gli ultimi metri dall’arrivo. Gli spettatori si stanno preparando ad accogliermi con uno scroscio di applausi. Quando taglierò il traguardo aprirò le braccia, le alzerò al cielo affinché  tutti dicano che oggi ha vinto il numero undici.

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