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Intervista a Emanuele Stolfi «La scena della giustizia tragica»


Emanuele Stolfi, La giustizia in scena, Il Mulino, 2022.

«Perché le opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide vengono tutt’oggi rappresentate e continuano ad appassionarci? Perché la loro messa in scena suscita sempre emozioni viscerali, che ci fanno inabissare nel profondo di noi stessi? In questo libro la tragedia greca viene letta come un inquieto laboratorio della coscienza civile – quindi anche giuridica e politica – dell’Occidente, ove l’intreccio fra mito e attualità del V secolo a.C. solleva questioni con cui ancora dobbiamo misurarci, come uomini e cittadini: dalla natura ambivalente del potere, sempre sul punto di degenerare in tirannide o di dar corpo all’incubo della guerra civile, alle irrisolte criticità della democrazia e dell’uso della parola – in grado di persuadere e conciliare, ma anche soverchiare e irretire – ; dal fondo cupo di violenza e terrore in cui talvolta si specchiano gli assetti istituzionali, alla ricerca di criteri che definiscano la responsabilità dell’individuo.» Emanuele Stolfi insegna Diritti greci e Diritto e letteratura nell’Università di Siena. Tra i suoi volumi: «Gli attrezzi del giurista. Introduzione alle pratiche discorsive del diritto» (Giappichelli, 2018); «La cultura giuridica dell’antica Grecia. Legge, politica, giustizia» (2020) e «Come si racconta un’epidemia. Tucidide e altre storie» (2021), editi da Carocci; per il Mulino, «Il diritto, laemanuele.stolfi@unisi.ithttps://youtu.be/pJ2LOz091Ko genealogia, la storia. Itinerari» (2010). Emanuele Stolfi spalanca il cantiere del teatro greco, in cui si scrive la novella della giustizia, del diritto, della colpa, della pena, della penitenza. La linguistica greca

antica non è la linguistica odierna dell’occidente, eppure è essenziale per intendere quel che si stenta ancora a intendere: lo statuto della giustizia, del diritto, della colpa, della pena, della penitenza. Il viaggio nelle costellazioni linguistiche è inanellato nel mito di Edipo, che non è originale e criptato nella notte dei tempi, ma ciascuna volta si scrive. Ecco l’interesse per il mito di Edipo di Emanuele Stolfi, in cui emerge l’androgino, l’uomo doppio (schiavo e re, re e schiavo), l’uomo in cui il trionfo con la Sfinge è la sua disfatta. L’uomo che lancia un proclama per trovare l’assassino che è lui stesso. La miniera in cui si trovano le “terre rare” del “diritto” greco sono le tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide.  La scena originaria non si pluralizza nelle scene delle tragedie, e così il corpo originario non si pluralizza nei corpi di Edipo, di Laio, di Giocasta, di Creonte, di Antigone… Quel che è dato quasi fuori corpo della tragedia e quasi fuori scena della tragedia non si direbbero “corpo e scena”. Il corpo: da dove vengono le cose. La scena: dove vanno le cose. Ebbene e come se le cose venissero con la peste e andassero con Apollo. La città di Tebe è devastata dalla peste, e la sua ”lettura” è demandata all’oracolo di Apollo, che risponde, ossia individua il veleno e propone il rimedio. Trovate il seminatore di peste. Il capro espiatorio. Il trágos.  Ecco la nostra pista di lettura in margine al ricco libro di Emanuele Stolfi, rispetto alla figura acclarata e conclamata di Edipo in tutta la sua duplicità. Da Apollo a Tiresia da Giocasta a Creonte: tutti sanno e solo Edipo non sa. E non anticipa Socrate, nemmeno sa di non sapere. Su questo sapere si fonda una fenomenologia della tragedia, che diviene il giuridismo greco e una colonna del diritto penale che verrà. Eppure c’è anche nell’elaborazione di Emanuele Stolfi la breccia per un diritto senza pena, un diritto senza più carcere. E oggi persino a un’analisi sociologica, statistica e probabilistica, fatta da burocrati al servizio dell’oligarchia, il diritto penale non regge, è fatuo. Edipo non smette di sbandierare la sua innocenza; è potrebbe smetterla di prendersi per un capro, non solo espiatorio, ma anche premiato. La giustizia in scena è la giustizia liturgica, algebrale. La giustizia in corpo è la giustizia cerimoniale, geometrale. La giustizia dettata e la giustizia eseguita. La scena della giustizia è la scena del male e della pena. Il corpo della giustizia è il corpo del male e della penitenza. Malattie mentali e malattie somatiche. Per questo il discorso giuridico greco talvolta scorre parallelo a quello medico. La tragedia greca è la scena impossibile della giustizia e del diritto.  La tragedia è il canto del capro, quale animale di fantasia dell’uomo e per l’uomo. È fatuo come fantasma, ma non c’è nessun perché ci sia chi imbocca la falsa via. La retta via è stata smarrita anche da Dante Alighieri: la sua analisi e la sua saga sono la Commedia. Il tragico dell’ironia è che l’angelo re e il demone schiavo si saldano nel capro, nella pena, nell’abbattimento, nel macello. La giustizia in scena e in corpo è la giustizia cannibale, autofagica e allofagica.La vita giuridica è misterica (284)? La giustizia e il diritto misterici sono ideali, convenzionali, irrappresentabili. La scena della giustizia è la scena penale, posta al centro dell’attenzione, fra la colonna infame e il panottico. Il mistero è l’indice che la convenzione non riesce: mai il fantasma soppianta l’originario. Dalla lettura di Edipo, del mito di Edipo quale palinsesto della tragedia, emerge dall’elaborazione di Stolfi e dalla trama delle letture di altri ricercatori: l’homo duplex. l’Edipo doppio, l’Edipo re e capro. C’è già qui l’interrogazione mancata di Jacques Derrida nei suoi due ultimi seminari sul sovrano/bestia. La questione intellettuale non ha nulla di misterico: è come bestia che interviene il sovrano nello stato di emergenza e è come sovrano che interviene quando terminato lo stato d’eccezione pascola i suoi sudditi. L’Eccedenza sovrana di Francescomaria Tedesco è quasi il potere animale come forza bruta del potere. Nell’ironia tragica tutti sono sudditi, a partire dal re, obbligato a proclamare il processo penale contro la metà del doppio. La parte buona dichiara guerra alla parte cattiva. Edipo come in guerra fra sé e sé, come se l’individuo fosse divisibile. Il doppio non è il sosia, che non è il doppio dell’uno, non è il suo duplicato, la sua copia: è l’idea impossibile del fratello morto (ucciso), che torna come indice estremo che il figlio incerto non troverà mai certezza, se non nel nulla e nella morte. Chi sono il padre-fratello e la madre-moglie per Edipo? Sono il padre ideale, morto e la madre ideale, morta. Padre certo e madre certa e figlio sempre incerto, e per questo inviato dal padre per evangelizzare le moltitudini di incerti. L’ironia in Grecia non sarà mai senza tragedia, come il diritto a Roma non sarà mai senza pena. Occorre lo zero, sfiorato da Freud con la rimozione, mancato da Lacan con la forclusione e che non è mai giunto a Atene. Se “dopo” la filosofia non c’è più stato un rilancio, né l’ombra del rinascimento, è per la mancata lettura dello zero. Sono duemila e più anni di ontologia per una imprecisione linguistica. Il trivio in cui i destini s’incrociano è il luogo in cui s’impone a due uomini simmetrici e opposti che uno dei due soccomba: il parricidio veste fratricidio e viceversa. Il parricidio è fratricidio è infanticidio è matricidio è sororicidio. Due in uno. Molti in uno e uno in molti: Edipo. “Occorre due per fare uno” (Jean-Michel Vappereau). Occorre Abele per fare Caino, l’altra metà del doppio. Caino e Abele sono le due facce dell’homo duplex: sono la doppia faccia dello stesso daímon o della stessa daímon. Il daímon è un altro nome dell’ingranaggio: altri sono la macchina del potere, il fato, la sovradeterminazione, la necessità… Deposta la cittadinanza, l’Edipo tiranno e l’Edipo schiavo si dissolvono nella trivialità e nella ternarietà richiesta allora da Apollo, ieri dalla volonté générale, e oggi dall’oligarchia mondialista (pleonasmo). Stolfi si chiede perché l’antico misfatto sia posto in relazione con la peste che devasta la città (325). Come il regicidio (non ancora parricidio e incesto) devasta la città, come la peste? L’oligarchia lo chiede all’oracolo del gerarca dei gerarchi che non contiene se stesso, Apollo, dio, tra gli dei. Dio padre, madre, figlio, figlia. Famiglia doppia, divina e bestiale. Il doppio corpo non è solo del re, come per Ernst Kantorowicz, e così la doppia scena non è solo del re. Ognuno è homo duplex. Il padre certo è il padre morto. La madre certa è la madre morta. Il figlio certo è il figlio morto. La figlia certa è la figlia morta. E si tratta del padre inverso o nel rovesciamento, della madre inversa o nel rovesciamento, del figlio inverso o nel rovesciamento, della figlia inversa o del rovesciamento. Il padre inverso? Edipo alla ricerca del sintomo inverso, certo. La peste è il male? L’approccio alla peste, la sua analisi, la sua lettura, il suo film non possono che essere demonologici. E se la peste fosse l’indice della scarsa igiene, intollerabile per la cittadinanza? Perché rivolgersi al super esperto (Apollo quale suo delegato superiore), che ci campa e stracampa e non lascia scampo agli altri, con la mano sulla città? La mano che cancella la cittadinanza? Chi legge Edipo senza più la tragedia? Chi legge Caino e Abele senza più il fratricidio? Freud? Lacan? Nessun miasma nella parola, nessun contagio, poiché la peste è la parola: la peste senza contagio. La comunicazione sociale raggiunge i suoi vertici come “virale”. La comunicazione rimedio/veleno, come la gestione della pandemia di Wuhan. La gestione tragica e senza ironia da Tebe a Wuhan. Più nessuna ballata del capro omicida/suicida. L’uomo dio/bestia è un fantasma e quindi fatuo: non sgombererà mai il cittadino. Senza la peste la tragedia di Edipo non potrebbe esistere (Stolfi, 325). Esatto.


EMANUELE STOLFI, nato a Firenze il 25.10.1973, si laurea il 18.10.1996, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze, con la votazione di 110 e lode/110. Dal 2001 è ricercatore universitario nel settore scientifico-disciplinare “diritto romano e diritti dell’antichità”. Consegue poi l’idoneità di professore associato nel 2003 e di professore ordinario nel 2005, anno in cui è chiamato nell’Università di Siena. Qui è stato presidente del Comitato per la didattica e coordinatore della Scuola di dottorato. Attualmente vi insegna Fondamenti romanistici del diritto europeoDiritti greci e Diritto e letteratura. Fa parte del Comitato scientifico di varie riviste storico-giuridiche. Nel 2013-2019 è stato membro del Consiglio di Presidenza della Società Italiana di Storia del Diritto. Ha tenuto conferenze e seminari presso molteplici Università, italiane e straniere (Berkeley, Trier, Paris, Münster), nonché al Festival della Filosofia (2019). Fra i suoi libri, Introduzione allo studio dei diritti greci (Giappichelli 2006), Il diritto, la genealogia, la storia. Itinerari (Il Mulino 2010); Gli attrezzi del giurista. Introduzione alle pratiche discorsive del diritto (Giappichelli 2018); La cultura giuridica dell’antica Grecia. Legge, politica, giustizia (Carocci 2020); Come si racconta un’epidemia. Tucidide e altre storie (Carocci 2021); La giustizia in scena. Diritto e potere in Eschilo e Sofocle (Il Mulino, 2022).

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