PICCOLI PACIFISTI CRESCONO
Si trova sempre un motivo più o meno giusto per usare le armi ma è sempre meno facile trovarne uno per farle tacere. Perché siamo sempre più disposti ad accettare l'idea della guerra giusta? Nella società della comunicazione e dell'immagine i simboli contano. Ma perché contano tanto e come agiscono? Un'immagine può evocare un ricordo, più spesso suscita un'emozione, ma nel turbinoso susseguirsi di immagini, soprattutto televisive, la singola immagine, i singoli gesti, parole, vengono rapidamente coperti da altre immagini, gesti e parole e relegate nel dimenticatoio delle coscienze. Quello che viene fermato, che scava in fondo, che traccia percorsi emotivi e predispone a modi di pensare strutturati in un determinato modo sono le riproposizioni, le ripetute forme di significati collaterali: è un processo che a lungo andare costituisce il substrato culturale di massa, una specie di coscienza collettiva, emotiva, spesso inconsapevole. La guerra e la pace sono concetti che non solo non sfuggono a questo meccanismo ma anzi sono "territori" estremamente fertili in cui attecchiscono questi stati d'animo radicali, che hanno una perduranza lunga che passa da una generazione all'altra con effetti che si manifestano più lentamente ma con maggiore intensità. Questa premessa è necessaria per capire perché in questo momento storico lo scontro culturale tra due modi di pensare radicalmente opposti si stanno presentando in maniera tanto evidente ed in forme tanto inconciliabili. Si deve tornare indietro di una ventina d'anni per capire come lo stereotipo del "guerriero" si sia legittimato nella cultura occidentale, compresa quella italiana naturalmente. Gli anni del rampantismo sociale, dell'individualismo radicale si ripresenta negli anni '80 ed ha bisogno dei suoi simboli, delle sue icone, e queste si sono fatte avanti non attraverso "segnali di guerra" ma in forme apparentemente più innocue e suadenti. I primi a proporli sono stati i messaggi pubblicitari che hanno plasmato l'idea dell'uomo forte "che non deve chiedere mai", tradotto sul piano della competizione sociale nello yuppismo, l'uomo-squalo, quello che nella giungla degli interessi economici si fa strada senza scrupoli e senza preoccuparsi di fare prigionieri nella guerra per la conquista della posizione sociale. Uno stereotipo tutto al maschile che ha con il tempo fatto riemergere, e non sempre in maniera soft, la mai sopita tendenza alla misoginia, presentata, nei ripetuti messaggi mediatici, in maniera tanto persuasiva che ha finito per fare proseliti anche in grandissima parte del mondo femminile (basta guardare alcuni format televisivi di grande ascolto in cui il maschio viene pubblicamente conteso dalle aspiranti gheishe adolescenti!). In questo stereotipo si è inserito con tutta naturalezza "il fascino della divisa" che per essere più persuasivo è stato calato anche addosso alle donne. Non più parità nella sostanza delle funzioni sociali ma parità formale e solo nel terreno storicamente maschile quello del militare, del soldato, del poliziotto, del carabiniere a cui ha fatto da controcanto il riemergere della figura della donna casalinga, madre, fidanzata da sposare. Va da sé che questa cultura della società guerriera si è radicata in un periodo storico in cui la crisi economica ha drasticamente ridotto la possibilità di scelte alternative che in condizioni di crescita economica si offrono nell'ambito delle scelte lavorative. In questo contesto culturale non solo non suscita più scandalo che si faccia una guerra, ma addirittura sono già pronte ad uso delle coscienze collettive le giustificazioni etiche all'uso degli strumenti di morte. Negli anni sessanta milioni di giovani con i loro segni floreali e i visi dipinti di arcobaleno fermarono la guerra nel Vietnam, oggi ci sono tanti giovani in Italia e nel resto dell'Occidente che si offrono volontari per la guerra ed assistiamo in televisione alle partenze di questi giovani salutati coi fazzoletti in mano, le lacrime sincere ma anche un macabro orgoglio dalle loro madri che li salutano dal molo dei porti o nelle dirette televisive. Ma come sempre questa cultura, oggi dominante, ha prodotto i suoi anticorpi ed in piazza ricominciano a scendere giovani che lanciano slogan di pace, pace incondizionata, pace senza contropartita, pace come contrario di guerra, pace e basta. E' evidente che nella cultura della società guerriera questi giovani (che ogni giorno diventano sempre più numerosi) sono additati come irresponsabili, fanatici e addirittura "disfattisti". Nell'assordante frastuono delle armi e delle oratorie bellicose le voci dei pacifisti sono ancora flebili e stanno ai margini dei media televisivi che invece continuano a martellare con la persuasione collettiva per la guerra giusta, ma i loro simboli, i loro colori, i loro tam-tam continuano a crescere e nonostante tutto vanno avanti.
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