Società
Il revisionismo non è ricerca è una riscrittura della storia
"simbolicamente è una scelta ideologica"
Dodici anni fa, accettammo l’invito a partecipare a Napoli ad un convegno organizzato dall’ISSES un istituto di ricerca storica di chiara matrice neofascista. Il convegno in sé fu più che altro una adunata di vecchi e nostalgici reduci della Repubblica di Salò, qualche notizia storica (vedi Benedetta Falco, su Helios Magazine nr. 6/1998) e moltissima retorica propagandistica. Non ho indulgenze sul fascismo, ma, da studioso, quell’evento svoltosi alla luce del sole, senza contestazioni o polemiche, che sarebbero state più che prevedibili solo pochi anni prima, era un caso da osservare e cercare di capire. Mentre giustamente si condannavano tutti i regimi comunisti, cominciava l’epoca italiana del revisionismo storico, accolto da destra e da sinistra come elemento di base per una pacificazione nazionale. I simboli e le parole d’ordine del fascismo e del nazismo cominciarono a riapparire per le strade e soprattutto negli stadi. Secondo Ernst Cassirer il simbolo non serve solo a comunicare un concetto preesistente ma è uno strumento tramite il quale un contenuto si costituisce in una determinata e nuova forma. Quando si vedono le svastiche e i saluti romani inondare gli stadi o le manifestazione dei movimenti neonazisti è necessario quindi porsi due tipi di interrogativi: quale attinenza hanno con i passati regimi che devastarono il mondo nella prima metà del 1900? Il processo di globalizzazione e la conseguente crisi economica hanno alimentato un senso di estraneamento ed un bisogno di identità da recuperare? Circa il rapporto di derivazione tra i passati regimi neonazisti e gli attuali movimenti e partiti (nazionali o regionali) presenti in molti paesi europei, in particolare del centro e nord Europa, è utile richiamare l’assunto di Cassirer per chiarire che i movimenti che oggi recuperano quella simbologia sono formati prevalentemente da giovani che non hanno conosciuto né il fascismo nè il nazismo e che in quei simboli cercano un’espressione di supremazia identitaria ispirandosi a stereotipi riapparsi proprio con la legittimazione revisionistica operata in questi ultimi 30 anni. Ecco che la svastica non suscita più orrore ma è il simbolo che recupera e reinventa un sentimento di appartenenza, di identità riferita a presunti territori, a razze e cosiddette radici. Tutto ciò è conseguenza della globalizzazione che in questi anni ha impoverito l’Occidente e piegato, nella logica dell’egoismo per la sopravvivenza, i diritti dello stato sociale creato con l’abbattimento del nazifascismo, creando il fertile humus dell’incertezza e della paura. Non è un fenomeno nuovo nella storia, Erich Fromm, in Fuga dalla Libertà, sostiene che l’individuo è propenso a rinunciare alla libertà in cambio della sicurezza. Quindi si generano paure, magari amplificate e rese collettive mediaticamente per fini politici, la tendenza a rifugiarsi in modelli forti, autoritari e che si emotivamente si percepiscono adeguati ai bisogni di sicurezza e identità, prende facilmente il campo e, pur rimanendo minoritaria, questa parte della società diventa l’alibi per politiche improntate alla forza, al militarismo e ad un contraddittorio concetto di patriottismo. Non è nuovo nella storia eppure si ripete senza che si riesca a porre un freno a quelli che i rappresentanti della "cultura alta" giudicano fenomeni pericolosi ed inaccettabili. E nel concetto di "cultura alta" e "cultura bassa" probabilmente va ricercato il motivo di questa incapacità di reagire con strumenti democratici a difesa dei valori propri della democrazia e della libertà individuale. Il revisionismo, quando viene utilizzato in ambienti accademici, in ambito di ricerca storica, da chi è attrezzato a indagare (questo è il concetto di cultura alta) allora può essere utile a capire, a mettere in relazioni fatti, eventi, personaggi e responsabilità, fermo restando il fatto che un regime che ha tolto all’Europa la libertà e causato milioni di morti non può trovare nessuna giustificazione nè storica nè politica. In questi ultimi trenta anni invece si è operato a livello più o meno globale per cancellarla la memoria storica, la capacità di giudizio critico, perché si è reso socialmente ed economicamente risibile il valore dello studio e dell’approfondimento, facendo diventare quella che era fino agli anni sessanta una società, prima una massa e poi un pubblico (concetto di cultura bassa). Come pubblico partecipiamo immobili agli eventi di cui non riusciamo ad essere protagonisti e ci sentiamo atomi smarriti. Allora alcuni cercano di diventare "visibili" con l’uso della violenza, con lo sfoggio di simboli dal presunto potere magico di rigenerare di ciò che non esiste più. L’emulazione è il primo passo per l’accettazione sociale del fenomeno. E quando questi fenomeni rischiano di fa tremare il "quieto vivere" basta rinchiuderli dentro gli stadi di calcio, nuove arene per i nuovi gladiatori, dove hanno il tacito permesso anche di ammazzarsi, ma sotto controllo e in spazi circoscritti. Finchè da minoranza non diventeranno molti più….
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