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RECENSIONE
Gerard Haddad, dans la main droit de dieu,
psycanalyse du fanastisme
(Gerard Haddad, Nella mano destra di die,
psicanalisi del fanatismo, Premiere Parallele, 2015)
di
PINO ROTTA
Era
attesa l’uscita di questo saggio di Gerard Haddad, sia negli ambienti accademici
che tra i lettori di tutti i paesi del nord Africa (in particolare la Tunisia),
oltre che ovviamente in Francia dove Haddad, discepolo di Lacan, svolge la sua
attività di psicanalista e saggista.
Questo saggio mette in luce, con non poche
sincere ammissioni di limitatezza “del mestiere”, la figura del fanatismo
religioso tentando di porre la questione: il fanatico è inquadrabile in una
categoria psichiatrica? Può essere curato?
Cominciando con dare una interessantissima
definizione di Verità che, a parere di Haddad, è unica e non relativistica, la
lettura ci introduce subito nella molteplicità delle manifestazioni della
Verità, che non può essere conosciuta ne posseduta da nessuno. Essa esiste, è
una, ma ognuno ne ha una percezione propria a secondo dell’angolo di visuale con
cui viene affrontata: come la realtà guardata attraverso un cristallo a sei
facciate.
La differenza tra una persona che accetta
questa visione molteplice della Verità e il fanatico è la molteplicità è negata
dal fanatico il quale è fermamente convinto di possedere l’unica Verità e la
Sola Verità.
Nell’incipit, la prima citazione che
Haddad riporta è di G. E. Lessing: “Se Dio tiene nella sua mano destra tutte le
vitità e nella sua mano
sinistra
lo sforzo infaticabile verso la verità e mi dicesse: “Scegli!” io mi inchinerei
disperato verso la sua mano sinistra dicendo: “Padre! Dona! La pura veità non è
che per te solo!”. Insomma se esiste la verità essa non può essere posseduta e
conosciuta da altri che da dio stesso.
Haddad ritiene improbabile che con gli
strumenti della psicoanalisi si possa curare il fanatico, esso è inserito in un
contesto sociale e culturale che, anche a causa delle condizioni economiche di
sfruttamento e di povertà, da supporto e soddisfa la sua identificazione con la
negazione della condizione umana se non dedicata all’affermazione della sua
unica verità. L’uomo è sacrificabile, lui stesso è strumento di questa fatalità
ineluttabile che lo porta al martirio. Dove la condizione umana è troppo pesante
per essere sopportata l’uomo perde la sua qualità, il suo statuto di umanità e
diventa strumento, oggetto al servizio della causa. Sia esso colui che si fa
saltare in aria per compiere una strage, sia la vittima degli atroci sgozzamenti
messi in mostra ad ammonimento per tutti gli “infedeli”.
Eppure per Haddad il fatto di non poter
sperare nella riuscita della via terapeutica non significa affatto che non valga
la pena tentare: “… il n’est pas necessaire d’esperer pour entreprender…”. Non è
necessario sperare per tentare… Ed il suo impegno continua nel tempo sia in
Francia che nel paesi del Nord Africa, dove porta le sue tesi e la sua visione
del fanatismo come patalogia sociale e, con i suoi saggi e le sue lezioni e le
sue conferenze, tenta di far capire l’importanza della comprensione del fenomeno
fuori dagli schemi della visione monoteistica, prettamente religiosa. Il
fanatismo vive di quotidianità e le sue manifestazioni esistenziali si esprimono
in una normalità che trasforma in Tempio tutto ciò che oggetto dell’attenzione
del soggetto soggiogato dalla convinzione fanatica ed estremista. Questo sua
idealizzazione della realtà, vissuta con la cecità del fanatismo, religioso, fa
diventare la sua vita normalmente patologica, maniacale ed ossessiva fino al
momento in cui può manifestarsi con il gesto eclatante, violento, orribile e
disumano. Questo dice Haddad è ciò che intendeva
Hannah Arendt
con l’espressione: “La banalità del male”. |