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società

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 SOCIETà

La natura socioculturale della violenza

DI SALVATORE ROMEO (*)

 

 

 

 

 

(relazione al convegno in occasione del ventennale di Helios Magazine, 19-3-2016)

 

In una società nella quale la crisi investe non solo gli aspetti più concreti del vivere quotidiano, come il lavoro e l’economia, ma anche dimensioni più astratte, ma non per questo meno importanti, come i valori di civiltà e di giustizia sociale, è abbastanza comune che emerga la fragilità dell’individuo e una delle manifestazioni più pericolose e paradossali della debolezza umana è senza dubbio l’agire violento.

Il fenomeno della violenza è stato studiato da tutte quelle discipline che si occupano dell’Uomo, dalla psicodinamica alla psicologia sperimentale, dalla sociologia alla filosofia politica, dall’etologia all’antropologia, finanche alla neurobiologia, nel tentativo di fornirne una spiegazione univoca.

Il fatto, poi, che ognuna di esse, all’interno del proprio ambito di competenza, sia riuscita a trovare delle motivazioni plausibili per i comportamenti violenti, ci induce necessariamente a concludere che il fenomeno della violenza abbia delle dimensioni molteplici, ed altrettanto molteplici e diversificate cause e dinamiche.

Tutti questi diversi approcci scaturiscono dall’osservazione delle diverse espressività delle condotte violente, che si possono manifestare sia a livello globale che a livello individuale: nelle guerre, nel terrorismo, sia a sfondo religioso che politico, nelle dittature; nei confronti delle donne, degli anziani, dei bambini, in varie e aberranti forme, a partire dal bullismo a scuola per finire agli abusi di pedofilia, nei posti di lavoro (mobbing), nelle relazioni cosiddette sentimentali (stalking).

Io sono uno psichiatra, per cui cercherò di limitare questa mia breve riflessione solo ad alcuni aspetti di questo fenomeno, senza operare, mi auguro, alcuna invasione di campo.

In quest’ottica mi sembra opportuno prima di tutto fare un po’ di chiarezza su un concetto fondamentale, distinguendo la violenza dall’aggressività, termini che non sono affatto sinonimi.

L’aggressività è una delle due pulsioni fondamentali dell’essere umano, insieme alla libido, e rappresenta una delle due forme con cui si manifesta e agisce l’energia psichica.

E’fondamentalmente un istinto antico e comune a tutte le specie e ha svolto un ruolo determinante nel corso dell’evoluzione, conferendo agli uomini, e agli animali in generale, gli strumenti necessari per difendersi dai pericoli dell’ambiente, dagli animali feroci e dai predatori, e consentendo alla specie di conservarsi e di sopravvivere.

Essa nasce originariamente, quindi, come reazione ad una minaccia e rappresenta un’abilità naturale, insita e connaturata nell’organismo biologico, senza alcuna connotazione negativa: nessun animale, d’altra parte, aggredisce per puro piacere o per un interesse che non sia di sopravvivenza (difendersi o cibarsi).

La violenza, invece, è un comportamento teso a fare del male indipendentemente da queste motivazioni, puramente istintuali e naturali.

Quando l’aggressività è volta a distruggere e non a difendersi, quando viene perpetrata con l’esclusiva e semplice intenzione di fare del male, allora diventa aggressione e, successivamente, violenza. 

Da questa premessa deriva la considerazione che la violenza non è in assoluto un fenomeno naturale e biologico, come invece è l’aggressività, ma costituisce un prodotto dell’evoluzione socioculturale in senso lato, dove per cultura intendiamo in questo caso il prodotto dell’evoluzione biologica e sociale della specie, e particolarmente l’acquisizione del primato della corteccia cerebrale e dei circuiti nervosi che sottendono la volontà e la capacità di autodeterminarsi al di là dei puri bisogni istintuali, caratteristiche che sono esclusive solo della specie umana.

L’etimologia del termine “aggressività”, dopotutto, indica un senso alquanto indefinito. Esso deriva dal latino e vuol dire fondamentalmente “camminare verso”, il che come si vede non significa necessariamente avvicinarsi con intenzioni violente o cattive.

Nella nostra mente tutto è investito in parte da energia buona e in parte da energia cattiva ed ogni pensiero può avere un significato e uno sbocco sia positivo che negativo. La via verso cui si indirizzeranno le nostre pulsioni nel corso della vita dipenderà dalle convenzioni sociali e culturali, dal sentimento della morale che ognuno di noi possiede e che ogni società coltiva, e dai meccanismi di difesa dell’Io. Così, per esempio, attraverso la sublimazione, istinti inconsci fondamentalmente aggressivi possono venire incanalati verso comportamenti utili e condivisi, accettati e apprezzati dalla società e dal senso della morale vigente, come avviene nel caso di certe dedizioni all’altruismo, in certe manifestazioni filantropiche oppure in alcuni slanci eroici.

Allorchè, però, l’aggressività non riesce a trovare questa sublimazione, e se si verificano alcune condizioni esterne o interne all’organismo tali da favorire il passaggio dalla semplice aggressività all’aggressione, si può pervenire ad agiti violenti.

A livello psicodinamico, queste azioni violente si manifestano in genere come il prodotto di due meccanismi di difesa in se stessi patologici, che sono la scissione e la proiezione e che hanno il compito di individuare, inconsciamente, gli elementi negativi e inaccettati di sé, separarli dalla propria immagine di sé (scissione), di addebitarli ad altri (proiezione) e infine di aggredirli.

Si tratta di immagini interiori che ineriscono tanto la debolezza quanto la forza violenta, ossia espressioni della nostra “ombra”, degli aspetti più repellenti, aggressivi e vergognosi del nostro inconscio, dei nostri demoni interiori.

E’ così, per esempio, che si può spiegare la violenza omofoba (omosessualità latente o inaccettabilità della naturale bisessualità umana?), o la violenza nei confronti degli inermi e dei più deboli (paura inconscia della propria fragilità).

Ma quali sono le condizioni che possono favorire il viraggio dalla semplice aggressività verso una condotta francamente violenta?

Le condizioni interne possono comprendere sia alcune reazioni abnormi e transitorie in persone peraltro esenti da qualsiasi psicopatologia, come avviene nel caso di litigi per interesse o per banali malintesi, sia alcune patologie francamente psichiatriche, come i disturbi di personalità antisociale, esplosivo, borderline, narcisistico, il discontrollo degli impulsi, il sadismo o alcune psicosi.

In quest’ultimo ambito possiamo anche far rientrare alcune forme di aggressività rivolta verso se stessi e che si manifestano nelle condotte autolesive, nei suicidi mascherati (sport estremi, bulimia, anoressia, tossicomania, alcoolismo).

Le condizioni esterne, invece, ineriscono all’ambiente socioculturale in cui l’individuo si ritrova a vivere la propria vita quotidiana.

A questo punto possiamo chiederci se il fenomeno della violenza sia esclusivamente una istanza innata e controllata dentro ognuno di noi, una particolare eredità biologica e genetica presente indistintamente in ognuno di noi, oppure se sia una condotta che derivi fondamentalmente dagli stimoli, dalle contingenze o dalle situazioni esterne ed ambientali. E possiamo forse anche sbilanciarci a fornirne una certa risposta.

Noi sentiamo il bisogno di motivare i comportamenti violenti perché li riteniamo come una contraddizione in rapporto ai valori della civiltà e della cultura.

Hobbes affermava che Homo homini lupus, un assioma latino che riconduce la violenza e molti comportamenti che contrastano con una certa nozione di civiltà a una presunta disposizione naturale dell’essere umano.

Il senso comune può oggi farci considerare la violenza come un residuo di questa originaria “belva che alberga dentro di noi” e che talvolta riemerge alla superficie.

L’espressione violenta dell’aggressività non è tuttavia un evento automatico, ma deriva dall’interazione tra le caratteristiche di una personalità potenzialmente violenta e l’ambiente in cui si ritrova a vivere la propria esistenza, compresi i modelli che gli vengono proposti, nei quali, spesso, l’aggressività e l’esuberanza dei comportamenti vengono fatte passare come accettate, efficaci e premiate.

La violenza, come accennato, è stata una strategia vincente per milioni di anni, ed era, evidentemente, una strategia usuale in un contesto ambientale e sociale anomico, privo di regole e di giustizia, dove vinceva e sopravviveva chi era più forte.

In questa cornice, l’aumento dei comportamenti violenti in una società significa sempre una sconfitta morale della società stessa, la quale non è riuscita a strutturare delle relazioni basate sulla condivisione di valori fondamentali e nella quale i rapporti interpersonali vengono basati su un conflitto di interessi, su uno scontro di potere dove l’altro viene spesso percepito non come un eguale bensì come un minus da vincere e da sopraffare in un contesto, quasi, di lotta per la sopravvivenza.

In una società anomica e dominata dalla crisi della legalità e dell’economia affiora prepotentemente il senso della precarietà, dell’inadeguatezza e della fragilità dell’individuo, il quale potrà sentirsi inevitabilmente debole, vulnerabile, insicuro, facile preda del più forte. Tutto questo potrà a sua volta elicitare, come pulsione di sopravvivenza, magari anche comportamenti violenti, comportamenti che nascondono sotto la loro apparenza, come avviene in genere per le aggressioni agite dagli schizofrenici, una intensa paura dell’altro che può sfociare in violenza fondamentalmente difensiva.

Da qui l’importanza fondamentale, in conclusione, di un contesto generale capace di costruire attorno all’individuo una salda rete di protezione e di conferirgli una adeguata percezione di giustizia sociale, attraverso la valorizzazione delle regole del gioco.

 

(*) psichiatra

 

 

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