Prossemica - Lo spazio vitale: Che fine ha fatto Doxiadis ?
di Pino Rotta
Attraversando a piedi, le vie della nostra città in un momento di tempo libero (cosa che ormai ci accade sempre più raramente), ci accorgiamo che, posando la nostra attenzione su vecchi edifici, botteghe di artigiani, spazi verdi, ci ritornano alla mente momenti della nostra esistenza passata, della nostra adolescenza, che, forse per un'illusoria idealizzazione del passato, hanno la capacità di rallentare anche il fluire dei nostri pensieri, di riportare in noi delle sensazioni piacevoli spesso, nostalgiche a volte.
La familiarità dei colori, degli odori, o anche dei suoni, ci creano quella sensazione di identità, di appartenenza ad un luogo che ci fa sentire "a casa".
Questa dimensione psichica è ormai sempre più rarefatta, la città, come noi stessi, cambia ogni giorno, si arricchisce di nuovi elementi urbanistici e di nuove situazioni comunicative. La velocità con cui questi cambiamenti avvengono ormai è tale che ci provoca sempre più stati di estraneità che hanno delle immediate ripercussioni sul nostro stato d'animo e sulla nostra capacità di interazione comunicativa non solo con le persone, ma anche con i luoghi, con gli oggetti.
La velocità, è forse questo l'elemento che caratterizza più di altri il nostro secolo e la nostra società occidentale.
La velocità e la crescita della concentrazione demografica portano con sè effetti del tutto nuovi per noi che viviamo in dimensioni sdoppiate della coscienza: quella della nostra memoria che vuole l'azione comprensibile e sequenziale, adeguata alla nostra formazione psichica elaborata in una dimensione spazio-temporale in cui le relazioni e le appartenenze erano di natura semplice ed immediata, e quella del nostro vissuto immediato che invece deve fare i conti con tutte quelle trasformazioni avvenute in tempo relativamente breve, sia nei sistemi di produzione che in quelli della comunicazione e che richiedono intuizione, azione rapida e complessa.
Attraversiamo cos" quotidianamente le nostre città, sulle nostre automobili, metropolitane, treni, e con l'ambiente circostante non abbiamo quasi alcun rapporto comunicativo. Certi luoghi sono dei non-luoghi, solo spazi di transito, spazi di fruizione funzionale, non ricordiamo neanche la faccia della persona che ci stacca il biglietto della metropolitana, o del ragazzo che porge la tazzina del caffè di un bar. Spazi atopici, non-luoghi, che ci trasformano, a lungo andare, in non-persone.
Se un urbanista fosse chiamato un giorno a progettare una città ideale del Terzo millennio, che racchiudesse in sè non solo gli elementi necessari ad ottimizzare l'organizzazione delle attività produttive ma anche quelli che riescono a dar senso di appartenenza e sicurezza alle singole persone che ci dovessero andare a vivere cosa ne verrebbe fuori? Quali materiali dovrebbe utilizzare? Che tipologia sceglierebbe di adottare o di creare per le abitazioni, le strade, le piazze, i parchi, i servizi?
Che tipo di organizzazione del lavoro dovrebbero progettare gli imprenditori del prossimo secolo?
Le scelte da fare di certo non avrebbero solo conseguenze sul piano dell'efficienza e della funzionalità, ma risulterebbero fondamentali anche per il tipo di relazioni umane che "dentro" la città si andrebbero a sviluppare.
Gli odori, i colori, i suoni, ad esempio, sarebbero fattori decisivi non solo per il livello di vivibilità intrinseca della città, ma anche per il tipo di sensibilità estetica che nascerebbe tra la gente di questa "città ideale".
Armonizzare questi elementi avrebbe conseguenza anche sull'armonia dei rapporti intersoggettivi; in un certo senso l'ordine e l'armonia estetica dell'ambiente sarebbe un modello a cui specularmente si adatterebbe la personalità della gente che ci andrebbe a vivere.
Città perfetta, società perfetta. Bella ed ordinata. Non è forse questo il sogno, neanche tanto nascosto, di ognuno di noi? Una società virtuale per una società virtuale.
Una certa tendenza al fascino del neogotico, potrebbe far pensare che questa ipotesi configura una società senz'anima, senza vitalità.
Meglio quindi l'odore aspro delle metropoli, la frenesia delle moltitudini di persone che anima i giorni e le notti della città occidentale in cui oggi viviamo? Ed intanto prepararci tecnologicamente a "salpare", quando questo nostro pianeta sarà un'enorme slum, per lo spazio interstellare, alla ricerca di un altro pianeta da colonizzare e "continuare" la vita di sempre in un nuovo "west"?
Ma intanto la ragioneria Tiziana Rossi, che ogni mattina esce di casa, si tuffa nel traffico frenetico, arriva sul posto di lavoro, gareggia con il ritmo di produzione, subisce e trasmette stress ed aggressività che questi ritmi portano con sè, per arrivare alla sera distrutta ed aspettare il giorno dopo per ricominciare, cosa dovrà sperare per il suo "oggi".
Non ci saranno urbanisti che, su un foglio di carta bianca, disegneranno la "città ideale" in cui potrà vivere Tiziana Rossi, e lei non avrà neanche il tempo di veder partire un'astronave su cui imbarcarsi verso il "nuovo west". Continuerà ad alzarsi la mattina, ad uscire di casa per arrivare alla sera nella solita routine.
Ma non per questo dovrà stare inerte ad aspettare "il grande Slum".
Dovranno aiutarla gli urbanisti ed i politici che oggi, non tra cento anni, dovranno progettare e trasformare angolo per angolo, strada per strada, piazza per piazza, luoghi e ritmi di lavoro per far in modo che la città sia luogo di incontro, di scambi culturali e artistici ed anche di progetto per attività produttive fatte per l'uomo.
Certo qualcuno dovrà continuare a raccogliere le immondizie, seminare e raccogliere le patate ed il grano, trasformare materie prime e produrre macchine, e quindi continueremo ancora a vivere tra la puzza, il rumore ed il grigiore delle nostre città, non è immaginabile di lasciare tutto questo per vivere nel sogno di una "città ideale" che non esiste.
Ma il punto è: alla città ideale non ci si pensa perchè non può esistere, o non esiste perchè nessuno vuol più fingersi pazzo e poter immaginare di realizzarla?
Progettare una città oggi sembra quasi un pensiero anacronistico, impossibile da concretizzare, e certo lo è se si continua a pensare alla progettazione urbanistica come ad un'opera da realizzare stando seduti dietro un tavolo da disegno con un foglio bianco davanti da riempire con tracciati, cellule, e linee che rappresentano un'ipotesi di città da programmare su uno spazio vuoto in cui la città deve essere pensata o meglio "inventata". Il più delle volte si arriva a creare non dei luoghi in cui vivere ma delle cellule cementificate in cui la gente dovrà essere poi collocata. Ma se spostiamo la nostra attenzione dalla creazione dal nulla di centri abitati alla riqualificazione ed alla progettazione dell'uso dell'esistente, ci troviamo immediatamente a dover fare i conti con le persone, i gruppi sociali, le funzioni sociali, le caratteristiche culturali degli abitanti di questi centri. Ecco che non si potrà prescindere, nella progettazione, dalla cultura, dalle abitudini e dalle aspirazioni sociali ed economiche di quanti saranno i fruitori del progetto urbanistico.
Nel 1964, a Delo in Grecia, l'architetto C.A. Doxiadis, inaugurò una serie di incontri annuali che riunivano numerosi esperti per elaborare uno studio degli insediamenti umani. Le conclusioni di quel primo congresso furono, come riporta nel saggio "La dimensione nascosta" Edward T. Hall (Ed. Bompiani, Milano 1968), le seguenti:
I due programmi elaborati in Inghilterra e in Israele per la "Città Nuova" sono basati su dati inadeguati, vecchi di un secolo. Tanto per dirne una, le città erano troppo piccole e strette, ma anche le dimensioni maggiori che vengono ora proposte dagli urbanisti inglesi si fondano su ricerche troppo limitate.
Benchè il pubblico sia sempre più consapevole della situazione disperata delle megalopoli in continuo accrescimento ed espansione, non si sta provvedendo in alcun modo.
L'aumento catastrofico del numero di automobili e quello parallelo della popolazione stanno creando una situazione caotica, nella quale non si scorgono meccanismi di autocontrollo e correzione. Perchè, o la città ha una struttura raccolta, e allora le vie si trasformano in arterie, che scaraventano masse crescenti di automobili fin dentro nel suo cuore, stipandolo e quasi paralizzandolo, come si vede a Londra e nel centro di New York, oppure la città è più disseminata, e scompare sotto un labirinto di corsie e di viali di scorrimento, come avviene a Los Angeles.
Se vogliamo che i nostri sistemi economici continuino ad espandersi, poche attività potrebbero dare un cos" largo impulso alla promozione di industrie, servizi e capacità come la ricostruzione delle città del mondo.
La pianificazione, l'insegnamento, e le ricerche di echistica non solo devono essere coordinati e finanziati dai governi, ma devono far parte dei loro impegni prioritari.
Questo si sosteneva a Delo più di trent'anni fa. Buoni profeti inascoltati? Ci sembra proprio di si!
Oggi i problemi sono cento volte più gravi di quando si tenne il primo congresso di Delo, ma non ci sembra che si possa fare a meno di riprendere il cammino ricominciando proprio da quelle analisi. E per continuare a ricordare la citata opera di Edward Hall, ci sembra più che mai necessario mettere mano a queste problematiche coinvolgendo negli studi di progettazione e pianificazione urbanistica (e non solo) gruppi intedisciplinari di esperti che comprendano oltre che architetti ed urbanisti, anche psicologi, antropologi e sociologi, con un'aggiunta che forse Hall aveva data per scontata, pur non avendola espressamente prevista, e cioè gli esperti in sistemi di comunicazione, questi ultimi saranno fondamentali per poter progettare (e non solo programmare!) la città del Terzo millennio, poichè se è certo che la città del passato è un illusorio e fuorviante modello di ispirazione, è pur tuttavia comprensibile che la possibilità di costruire e conservare rapporti di civile convivenza in una dimensione urbana che non distrugga l'identità personale passa attraverso l'organizzazione, ed in primo luogo l'organizzazione significa comunicazione. La tecnologia, anche in questo caso corre più della nostra capacità di elaborare l'esperienza, ma la sfida da cogliere è proprio questa: realizzare un nuovo umanesimo senza per questo dover rinunciare (cosa del tutto possibile!) al progresso della scienza. La ricerca è aperta, e porterà a..........