D'estate, vino fresco e versi contro la solitudine cittadina

SOGNANDO CALIFORNIA COI BEATS

di Pasquale DE FILIPPO
Di questa stagione chi resta, potrebbe trovare conforto al caldo e alla chiassosa solitudine, nel vino e nella poesia. Nel vino che come dice Saba "rosseggia parco e rimargina ferite, chiude solchi dolorosi, per alcuno venuto da spaventosi esigli": e nella poesia che colla sua brevità è facile da leggere, portandosela appresso tra stanza e stanza e strada e strada. Ma vino e poesia hanno poi un paese che li ha così bene shakerati da farne una bevanda da piccoli dei: cioè da uomini.
Il paese si chiama California, e prima lo chiamarono Eldorado per mandarci genti di tutte le razze che rivoltando la terra, per cercare pepite, si accorsero che era meglio farne vigneti e aranceti. Così, dato che di vino, noi pugliesi abbiamo il bianco Locorotondo, parlerò della poesia californiana raccomandandola a giovani e vecchi che di quel paese sognano di notte quando s'affacciano coi cani ad abbaiare alla luna.
A parte la cultura indigena messicana è importante per cominciare a leggere i poeti della costa, distinguere due tipi diversi di cultura in California. Quella degli immigrati, cinesi, giapponesi e orientali (i quali hanno una importanza enorme sullo sviluppo culturale della California), italiani, francesi, svizzeri, tedeschi, irlandesi, ungheresi, che se si guardano le grandi vigne californiane si scopre che i vitigni sono svizzeri, ungheresi, italiani, francesi, che hanno più di cent'anni. E poi c'è la cultura anglosassone, che a differenza degli immigrati, arrivati per mare, è arrivata per terra dalle coste dell'Est. Sono arrivati qui attraversando il continente, venuti qui per cominciare qualcosa di nuovo, per realizzare i sogni avuti in altri posti in America e mai portati a termine. Così si capisce quel detto che vuole la California "non uno Stato ma uno stato mentale". Questo va capito della poesia in California. La gente è venuta anche per scrivere poesie perchè questo era il posto ideale col vino e tutta quella gente di altra lingua. Qui poi dopo la spiaggia non c'è più niente, undicimila chilometri di mare. E così, come dicono gli indiani delle pianure, l'uomo ha seguito il sole sino alla fine del giorno, perchè questa è la fine dell'Ovest.E' l'idea, negli anni trenta, fu che l'uomo doveva rinascere e a San Francisco apparvero uomini che invece di ispirarsi alla cultura angloamericana, si rifecero a quella europea e orientale. William Everson - che negli anni Cinquanta si fece frate - e Robert Duncan si ritrovarono all'inizio della seconda guerra mondiale in un campo di concentramento dove andavano come volontari a dare assistenza ai prigionieri di guerra, e si riunivano con altri a stampare poesie che poi venivano mandate in giro per tutta l'America e perfino l'Europa. Tutti e due erano anarchici del grande movimento Iww, i cosiddetti Wablies. Un movimento talmente grande che riuscì a paralizzare San Francisco nel 1936 con uno sciopero generale.
Per questo gruppo di poeti l'idea era di non fare poesia "decadente", ma di ripudiare la cultura di New York e di creare una cultura poetica nuova, californiana.
Politicamente progressista e pacifista. Così nel 1945 e sino al '50 si riunivano attorno a Radio Pacifica e cominciavano a parlare dell'"idea" dell'America, pensando che l'idea che c'era era sbagliata.
Parlavano della rinascita di un'idea e in quegli anni arrivarono a San Francisco Kerouac, Ginsberg, Nell Cassidy, il gruppo dei beats, come si autodefinivano. Era stato un giornalista di San Francisco, però, a coniare la parola: aveva usato Sputnik (il satellite lanciato dai russi nel 1960) e cambiando prefisso, aveva fatto Beat-nik, cioè uno che segue la via beata. E divennero famosissimi, dei veri e propri guru per la generazione a venire. A San Francisco si ritrovarono tutti a North Beach (spiaggia nord), il quartiere italiano, mentre a Los Angeles vivevano tutti nel quartiere di Venice, chiamato Venice West. C'era così un via vai di treni che trasportavano da Venice a San Francisco giovani poeti italoamericani e cecoslovacchi che si spostavano per trasmettere le idee delle due città. Passavano l'inverno a Los Angeles e l'estate a San Francisco, quando lassù non faceva più tanto freddo. I nomi importanti a Venice-Los Angeles erano: Stuart Perkoff, Frank Rios, Tony Scibella, e John Thomas.
E arriviamo così alla generazione dei "fiori" cresciuta come "movimento della parola libera" (free speach movement) e i protagonisti dei due movimenti fino al '65 sono gli stessi: Jerry Rubin, Abbie Hoffman, Art Goldberg e Mario Savio. Si dichiaravano tutti di sinistra, ma erano sostanzialmente anarchici. La musica fece il resto. Rock and roll, droghe leggere, Lsd, furono i segni più appariscenti di questa controcultura. Si era alla ricerca di qualcosa di nuovo e subito, ma nel senso di nuovo stile di vita e non nel senso di moda. Così coniarono la parola "lifestyle" termine californiano, che influenzerà tutti gli altri termini della psicologia Pop. Kerouac, Borroughs, Ginsberg, Ferlinghetti, Bukowski, Gregory Corso, escono tutti da quel periodo beat, ed hanno poi continuato a scrivere sui giornali underground, anche se nessuno di loro si occupava seriamente di politica. Erano moralisti come Giordano Bruno o Marziale, ma la polizia stupidamente li considerava sovversivi. Così è finita che hanno fatto pubblicità ai poeti e alla poesia. Il processo a Ginsberg - per un pò di marijuana - venne poi stampato in tutte le lingue come se a parlare non fosse il poeta omosessuale e beat, ma Socrate, e il giudice fosse il suo carceriere. E intanto passando il mare Ginsberg, Lorenzo Ferlinghetti e altri erano andati in India e poi tornando, in Europa e da noi per vedere Giotto. Erano famosi eppure preferirono il vino a certe compagnie da "terrazza" e quando tornarono tutti per imitarli ed essere Hip (come gridava Corso ad ogni nuova parola conquistata), si misero a bere il vino che ora importano a fiumi dal Sud dell'Italia. Vino e poesia quindi si ritrovarono in mano a un gruppo di dolci ragazzi furibondi che con "urli" e "bombe" rivoluzionavano il modo di farla con la loro innocente voglia di essere profeti di un Mondo Nuovo, come quello intravisto dai ragazzi pugliesi nella scatola di cartone e il lumino acceso. Perciò, presentando Gasoline Allen Ginsberg scriveva del libro di Gregory Corso: "Aprite questo libro come aprireste una scatola di giocattoli bizzarri raccogliete nelle vostre mani una squisita bellezza uscita da una atmosfera distruttiva...".
Ho detto "urli" e "bombe" e mi accorgo che si può fare confusione. "Urli" sta per Urlo il notissimo canto su New York del poeta Allen Ginsberg. "Bombe" sta per Bomba, la poesia di Gregory Corso a forma di fungo atomico. E per chi volesse sapere come fecero poesia questi ragazzi americani della California, ricordo ancora Corso che raccontava delle sue disavventure giovanili, del riformatorio, della fame, dei pugni e della rabbia e a chi gli chiedeva perchè non facesse come gli altri poesia autobiografica, rispondeva: "Quando vai in un posto alto per vedere cosa c'è sotto, racconti cosa vedi e non della scala e dei molti gradini fatti". Per chi invece volesse leggere poesia come se stesse sotto a un grande baobab, mentre lontani suoni di tabalà e tam-tam di guerra arrivano portati dal vento lieve della savana, ebbene questi lettori possono leggersi i poeti della negritude.
"Negritude" è una parola che all'origine era titolo di una rivista fatta da studenti africani o comunque di colore, che studiavano in Francia: come dire uomini neri con il cervello di un bianco. Insomma sto parlando di Leopold Senghor e Aimè Césaire, nati nelle colonia francesi ed educati dal colono bianco. Questi poeti opposero una resistenza alla società metropolitana, che presto si trasformò in canto per la madre Africa e per la matrigna Europa. E il giusto punto di rottura prodotto dalla discriminazione razziale si manifestò sia nelle forme della letteratura che in quella politica. Dando così il via ad una cultura che riconosceva necessario che i poeti abbeveratisi alle fonti della civiltà bianca e alle conquiste del linguaggio europeo restassero poi fedeli alla natura protestataria della loro vocazione. Ciò che era ormai scontato per i poeti afroamericani. Nasce quindi nell'Africa ancora oppressa dal colonialismo e dentro gli inattuali confini segnati dai colonizzatori, una nuova voce d'Orfeo. Senghor e Césaire scrivono in francese per farsi ascoltare a Parigi, ombellico del mondo, nel 1945 mentre aspettano di vedere la nascita delle loro nazioni. Senghor correda poi le sue poesie di indicazioni musicali (ode per tre arpe e xilofono, assolo di tromba, tabalà e tam-tam di guerra) che servono al lettore per immettersi nell'aria evocata che è quella africana, mentre Césaire intitola i suoi canti secondo parole magiche africane, o animali esotici che richiamano alla mente la sua "isola lontana". Per tutti e due, trascrivo questa "visita" di Senghor, che tra l'altro vinse un Nobel per la poesia. "Nella penombra angusta d'un meriggio, sogno. /Le fatiche del giorno mi vengono a trovare, /i defunti di quest'anno, i ricordi degli ultimi dieci, /come la processione dei morti al villaggio sull'orizzonte del Tann. /È lo stesso sole bagnato di miraggi /lo stesso cielo fiaccato dalle occulte presenze /lo stesso cielo temuto da quanti hanno conti da rendere ai morti. /Eccole, le mie donne morte, mi vengono incontro...". Naturalmente dovete immaginare un suono lontano di flauti d'organo.

(Si ringrazia Angela Ielo per la collaborazione)


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