è un
MONDO COMPLESSO
analisi bioantropologica dell'Occidente
(versione sfogliabile e scaricabile in pdf)
introduzione alla prima edizione di
Paolo Degli Espinosa
Città del Sole Edizioni su concessione del Club Ausonia © (vietata la riproduzione totale in versione stampata per fini di lucro)
Nota dell'autore
Avevo
finito di scrivere la prima stesura di questo libro nel novembre 1993 e al
momento della pubblicazione (con il titolo “2001:Medioevo ultimo atto”) già
sentivo di non aver espresso a pieno i concetti che avrei voluto sviluppare.
C’era molto lavoro da fare ancora, molto studio e molte ricerche che avrei
dovuto compiere per dare una versione maggiormente compiuta alle idee che avevo
in mente, ma allora, dopo un lavoro di ricerca durato circa quattro anni, avevo
la necessità di confrontarmi con i lettori e con altri studiosi non solo di
antropologia, ma anche di scienza, soprattutto di biologia e di psicologia,
perchè il mio lavoro aveva toccato queste discipline che sentivo dovevano
essere il punto centrale della mia ricerca.
Dopo
la pubblicazione di “2001:Medioevo ultimo atto” venne l’idea di dar vita alla rivista Helios Magazine e
dopo due anni circa di preparazione la rivista cominciò ad andare in stampa con
l’aiuto di tanti amici che proprio quel testo aveva incoraggiato ad affrontare
con me la redazione di una rivista che, nelle intenzioni, doveva essere uno
strumento di analisi olistica del pensiero occidentale contemporaneo. Oggi
Helios Magazine ha più di cinque anni di vita e sulle sue pagine hanno preso
forma molti di quei concetti che nel 1993 avevo, per così dire, sospeso.
Oggi
l’elaborazione di nuovi studi di antropologia, di biologia, di psicologia e
sociologia mi dà la possibilità di riprendere il lavoro interrotto e tentare
di offrire un’analisi più completa del pensiero e dei comportamenti sociali
occidentali, avendo l’Italia come particolare ma non esclusivo punto di
osservazione.
Naturalmente
anche questa seconda stesura del lavoro, seppure quasi completamente
rielaborata, lascia grandi margini di approfondimento su diversi temi, ma in
fondo proprio questo è il senso: aprire un dibattito sul modo di essere e di
pensare dell’uomo occidentale contemporaneo. Sono certo che il lavoro di
ricerca continuerà ancora per lungo tempo e si arricchirà di sempre nuovi
elementi di riflessione. Intanto questa pubblicazione vede la luce in un momento
altamente simbolico per la nostra cultura: il passaggio dal Secondo al Terzo
Millennio. Se il titolo della prima stesura “2001: Medioevo ultimo atto” mi
sembrava allora che precoresse un pò i tempi e la coscienza dei problemi che
avevo affrontato, oggi mi sembra ancora adatto per rappresentare una guida di
lettura, ma con una correzione ed una raccomandazione sul nuovo titolo: E’ un
mondo complesso. La complessità dal nostro punto di vista è una ricchezza da
scoprire non un limite. Proprio oggi, anche se può sembrare paradossale visti
gli eventi drammatici cui stiamo partecipando, finalmente possiamo dire che
siamo veramente entrati nell’ultimo atto di un medioevo che si è, per alcuni
versi, prolungato più del necessario ma che ormai mostra i segni del suo
superamento nelle coscienze della gente comune, piccoli segni, ancora troppo
timidi e fragili per poter dire che si affermeranno definitivamente, ma pur
sempre segni distinguibili e ben delineati.
Con
questo saggio, molto schematicamente, come si osserva la Terra dallo spazio,
ripercorreremo la storia del pensiero dell’uomo, storia che resta ancora oggi
un’affascinante romanzo lungo più di cinque millenni, almeno quella in
qualche modo scritta, più indietro, guidati dai segni, fino a 35.000 anni circa
e oltre ci è possibile immaginare aiutati solo dalla scienza e dalle
speculazioni esoteriche di alto profilo.
5000
anni di storia sono solo un granello di sabbia nella montagna dell’evoluzione
dell’uomo, dalla sua comparsa sulla terra ai nostri giorni, ma sono anche una
straordinaria ed immensa miriade di tasselli di un grandioso mosaico nel quale
miliardi di individui hanno lasciato la traccia della loro esistenza, qualche
volta illuminata di gloriose o nefaste epopee, ma molto più spesso dispersa in
una anonima trama di umile quotidianità.
Eppure
nè la storia nè il mondo in sè sarebbero tali e quali a come li conosciamo
oggi se anche uno solo dei miliardi di individui che hanno vissuto e vivono non
fosse esistito.
Per
quanto umile e ormai ignorato, ogni uomo ha contribuito, ed ogni giorno
contribuisce nel bene e nel male, a creare la storia del mondo e dell’umanità.
Pensiamo
solo a quell’anonimo uomo sumero che un giorno lontano migliaia di anni, forse
vedendo rotolare una pietra, capì che sarebbe diventata una ruota e con
quell’intuizione modificò il destino di molti miliardi di esseri che vennero
dopo di lui; sarebbe lo stesso il mondo se quell’uomo il giorno prima di avere
quell’intuizione fosse stato ucciso da un fulmine?
Eppure
chi conosce il nome e la vita di quell’uomo? Si dirà per mancanza
di documenti storici, è certamente vero, ma la quotidianità è sempre
in ombra anche oggi che non mancano certo i mezzi per fissare nel tempo
immagini, voci ed eventi.
Chi
conosce il nome e la vita quotidiana di ognuno delle migliaia di uomini e donne
che con la forza delle loro membra e l’umiltà del loro lavoro hanno lasciato
alla nostra ammirazione lo spettacolo possente delle piramidi egiziane o delle
Torri Gemelle di New York che hanno orribilmente sepolto altre migliaia di
anonime vite di uomini e donne che pure sono anch’essi la storia dell’umanità?
Senza
di loro, di ognuno di loro, il mondo non sarebbe uguale a quello che noi
conosciamo.
Eppure
dopo tanti secoli di storia l’uomo, ed il mondo in cui egli vive, non sono
ancora riusciti ad identificarsi in un unica grandiosa Comunità, un unico
organismo sociale, con un comune passato, un comune presente e soprattutto un
comune futuro che rappresentano la sovrastruttura culturale dell’umanità.
Oggi che come mai forse l’umanità è alle soglie di un mutamento complessivo
ed irreversibile. Oggi che un piccolo numero di uomini ricchi di mezzi e di
conoscenza e proiettati a colonizzare altri mondi sta davanti ad un numero
immensamente più grande di uomini che potranno essere lasciati indietro in
balia di un destino di sovraffollamento, devastazione ambientale e sanitaria e
regresso culturale.
Gli
ultimi cento anni della storia dell’Occidente si muovono in questa direzione
con le moltitudini di uomini e donne che sono diremo “distratti” da guerre,
crisi economiche e sovrastrutture ideologiche organiche a queste
“distrazioni”, alieni rispetto al proprio presente ed al proprio futuro. La
maggioranza degli uomini e delle donne in Occidente guarda le ombre che vengono
dal di fuori della grotta platonica senza
però riconoscere più la figura che proietta quell’ombra.
Come
mai, dopo tanti secoli di cammino, l’uomo è ancora alla ricerca di qualcosa
che egli immagina al di là del mondo reale, padrone del mondo e del suo stesso
destino?
Questo
saggio non ha la presunzione di riscrivere la storia, anche se da essa prende lo
spunto, non ha neanche la presunzione di spiegare i meccanismi della vita
sociale anche se attraverso questi meccanismi cerca di capire alcuni perchè del
comportamento dell’uomo occidentale, qui si vuole solo offrire un angolo di
lettura non pienamente ortodosso della metafisica, della politica, della
cultura, insomma una lettura antropologica dei comportamenti di oggi.
Per
Aristotele la Metafisica era la più alta speculazione sulla sostanza in quanto
sostanza, ciò che di immutabile e necessario si trova nell’essere, la
filosofia, in quanto scienza che cerca la sostanza dell’essere, era quindi la
scienza prima.
Per
Aristotele l’oggetto primo della Metafisica era dio in quanto essenza prima di
tutte le essenze (Metafisica teologica) e ricercando le cause prime attraverso
la scienza prima (la Metafisica o Filosofia prima) egli sosteneva che si può
arrivare alla conoscenza della Prima di tutte le Cause e di tutte le Sostanze.
Per
la Teologia Tommasiana dio non può rappresentare l’Oggetto, seppure il primo,
della Metafisica; poichè, in
quanto identifica in sè la Sostanza e l’Esistenza, egli appartiene ad una
sfera completamente differente dalle creature in cui invece la Sostanza e
l’Essenza sono separabili, la speculazione di dio quindi appartiene
esclusivamente alla Teologia.
Fuori
da queste linee di pensiero, da Aristotele ai giorni nostri, seppur attraverso
differenti dottrine, la Metafisica è sopravvissuta ora nelle vesti di Teologia
ora in quelle di Ontologia, sancendo comunque in maniera categorica un Dualismo
tra la vita sensibile e la vita ultraterrena.
In
questo saggio si vogliono considerare prima di tutto le origini, le cause e le
manifestazioni culturali del pensiero metafisico, per poi prendere in
considerazione il superamento stesso del pensiero metafisico classico attraverso
la continua ed ineluttabile sinergia tra l’azione diveniente biologica e
l’azione diveniente culturale che tende ad una Armonia dell’Ecocosmo.
Un’armonia generata dal Caos, estremamente instabile e che tende continuamente
ancora al Caos.
Mi
piace usare il termine Armonia che non vuole nè negare nè minimizzare il
processo entropico del Cosmo, ma è pur vero che da Einstein a Prigogine a
Hawking e via dicendo, il problema della deriva entropica dell’universo viene
affermato e negato continuamente senza che si possa prendere posizione unica e
definitiva. L’armonia del Cosmo è cosa constatabile, senza visioni
romantiche, ma con la coscienza che dal Caos nasce l’Ordine che poi torna a
divenire Caos per ricominciare, e questo non una volta e in una direzione, ma
infinite volte e in infiniti punti. L’ecosistema terrestre con la presenza
dell’uomo é segmento di questo processo, ed in questo la società occidentale
è a sua volta segmento con elementi culturali tecnologicamente connotati in
forma preponderante.
Questo
saggio rappresenta il comportamento individuale, nell’ambito della cultura
occidentale elaborata sul concetto di conseguenzialità creativa dell’azione
individuale formulata da Erich FROMM, nei suoi saggi Fuga dalla Libertà e
Psicoanalisi e Religione.
La
tesi che si vuole affermare è che dalla crisi di valori etici e filosofici che
sta attraversando la società occidentale contemporanea è possibile uscire
senza dover necessariamente adottare i due modelli esistenziali che vengono oggi
presentati come uniche alternative possibili: o la tecnocrazia o la teocrazia
(peggio ancora, l’integralismo religioso, non solo quello islamico).
La
società contemporanea, affetta da crisi di identità, può essere curata
attraverso una massiccia iniezione di amore solidale e di pensiero critico e la
cura dovrà essere somministrata da ogni individuo tramite la propria azione
comunicativa quotidiana, privata e sociale, adattando le istituzioni politiche a
questa scelta filosofica affinchè si scelga la salvezza di tutti e non quella
di pochi. Scelta che, vogliamo dirlo subito, presenta molti più rischi per il
destino dell’intera umanità di quanto non ne promettano la tecnocrazia e la
teocrazia, ma di questo diremo meglio più avanti.
Un’azione
comunicativa che non è intesa solo nell’accezione espressa da Jürgen
Habermas (vedi il saggio: Il pensiero post-metafisico, ed. BUR), cioè quale
azione realizzata in termini di relazione dialettica intersoggettiva o sociale,
quindi razionalmente ed unicamente indirizzata al sistema socio-politico, quanto
come una responsabile e cosciente azione di interferenza nella vita sociale e
biologica che, attraverso l’agire individuale e politico, crea effetti
prefigurabili e quasi sempre irreversibili sull’intera realtà fisica e
culturale, ma non per questo ineluttabilmente negativi come passa oggi nel
nostro immaginario collettivo.
Tra
i tanti limiti che questo saggio potrà rivelare sicuramente vi sarà quello di
non avere affrontato più analiticamente le teorie filosofiche enunciate, ma ciò
esula dalle finalità di questo lavoro che, come si è detto, ha natura
antropologica.
Altra
questione da chiarire in premessa è l’approccio negativo all’analisi della
cultura religiosa, per cui sarebbe deviante affrontare la lettura del testo con
l’intento di verificare con parametri teologici la validità di tesi che
vogliono intenzionalmente ed esclusivamente essere di natura antropologica e
sociologica.
Se
questo saggio dovesse arrecare offesa alla sensibilità delle persone
intimamente religiose sappiano esse che non vi è contenuta alcuna intenzione
rivolta a tal fine.
Ho
profondo rispetto per ognuno, per le sue convinzioni e per la sua morale, vorrei
solo che nessuno pretendesse che le proprie convinzioni e la propria morale
diventino “ope legis” valide per tutti (e mantenute coi soldi di tutti,
credenti non credenti, laici e religiosi, come da più parti oggi viene preteso)
e che le idee “diverse” non vengano condannate a morte.
La
conoscenza dell’origine della nostra cultura e dei meccanismi che presiedono
alla sua continua trasformazione, attraverso gli agenti della comunicazione,
sono gli elementi ispiratori del testo che presentiamo. Il metodo espositivo è,
per quanto possibile, di tipo divulgativo.
Vorrei
ringraziare per il contributo di idee, per i suggerimenti e per gli spunti di
riflessione che mi hanno offerto, tanti amici, ma l’elenco sarebbe molto
lungo, tanti sono quelli che con me hanno contribuito a fare di Helios Magazine
un terreno fertile di idee e di elaborazione culturale, mi limiterò quindi a
citare solo il prof. Francesco Carlo Morabito, ingegnere docente di Teoria dei
Sistemi, che mi ha indotto ad approfondire le mie conoscenze
non solo del mondo della comunicazione telematica ma soprattutto della
complessità e della Teoria dei Sistemi applicata alle scienze sociali. Rimane la
grande riconoscenza per il prof.
Paolo Degli Espinosa, che nella prefazione alla prima stesura ha mirabilmente
spiegato i temi della mia ricerca dei meccanismi di coevoluzione del
comportamento umano, sotto il profilo culturale e sotto il profilo biologico ed
al dott. Pasquale Romeo, psichiatra, che ha arricchito il mio lavoro con
l’introduzione di questo saggio. Tutti gli altri non me ne vogliano se non
vengono citati, a loro va il più profondo riconoscimento per il contributo che
hanno dato e continuano a dare a questa ricerca attraverso le pagine di Helios
Magazine e alcuni di essi sono appunto citati nel corpo del testo.
Pino
Rotta
Prefazione alla prima stesura
Siamo
esseri viventi, in mezzo ad altri esseri viventi: ecco una circostanza evidente,
ma non ovvia, in quanto le nostre attività sono organizzate come se tutto ciò
che è al di fuori della specie umana costituisse un magazzino di materie prime.
Siamo
gli unici esseri viventi dotati della coscienza di essere vivi. Siamo vivi e
possiamo pensarci su. Dalla riflessione sulla vita, nascono esigenze e
possibilità che gli altri animali non hanno: il linguaggio umano, la manualità,
l’artificialità, il progetto complesso, l’industria.
Siamo
gli unici esseri coscienti della vita, quindi anche gli unici che sanno di dover
morire.
Nessuna
manualità e nessuna ingegneria possono sollevarci dal pensiero della morte.
Tutti i viventi muoiono, ma solo noi lo sappiamo e questo pensiero, come ha
scritto qualcuno, ci accompagna come un’ombra.
Questa
difficoltà ad accettare la morte non è priva di qualche ragione: è possibile,
dice l’essere umano, che pur essendo l’unico dotato di coscienza io debba
morire come qualsiasi altro essere vivente?
In
effetti, la coscienza è qualcosa di nuovo, in natura, mentre la morte c’è
sempre stata; la coscienza, pur non conferendo l’onnipotenza, ci dà la
possibilità di trasformare tutte le cose e tutti gli esseri, compresi noi
stessi, in immagini della nostra mente: è possibile che questa facoltà così
immateriale debba seguire le stesse vicende e arrestarsi al termine di una vita,
la cui durata non dipende da noi, tanto che un albero vive più di un essere
umano?
Sono
in molti a pensare che l’esigenza e la produzione elaborativa e proiettiva di
dio dipendano da questo pensiero della morte.
Magro
sollievo tuttavia perchè ciò che dispiace -anche a chi scrive- è la fine
della creatività, la cessazione dell’attività di sorgente, il pensiero che
dopo la morte “non farò più nulla” e le religioni non risolvono il
problema, perchè le parti di noi che resterebbero vive, sarebbero comunque
bloccate in una certa posizione... Cosa è la vità, se non movimento e sorgente
di cambiamento?
Meglio,
dunque, consolarci pensando che, con la morte, finisce ogni pena e ansia della
vita e che, inoltre, resta traccia viva, per cui, come afferma Pino Rotta,
“nessun uomo può interrompere la sequenza della sua azione comunicativa,
culturale e scientifica, nemmeno dopo la propria morte”.
Dato
che l’esigenza di dio dipende molto dal tentativo di prolungare la vita post
mortem, dio deve essere necessariamente metafisico. Ciò che è fisico, infatti,
muore e per non morire occorre essere non fisici. C’è bisogno quindi di un
dio non fisico e di un’anima non fisica.
Il
problema, fin qui, non sarebbe disastroso: se quest’anima, spogliata e
sfogliata del corpo, è in grado di calmare le ansie della morte, non dovrebbe
essere trattata peggio di quanto vengano trattati i placebi in medicina.
Bisogna
però ricordare che tutto è cominciato con la coscienza e con la coscienza
della coscienza. Credere che la coscienza sia metafisica crea sì problemi
gravi, perchè ha implicazioni sulla posizione che l’essere umano assegna a sè
stesso. Ancora oggi, come dice l’autore, “la filosofia dominante....è
imperniata sul dualismo <<dio-Natura>>, con l’uomo posto al centro
di questo dualismo e sdoppiato tra le sue componenti”.
Interessa
ora sottolineare che questa posizione retroagisce sulla prima e sulla seconda
affermazione iniziale.
Infatti,
siamo viventi tra altri esseri viventi, ma se siamo dotati di parti metafisiche
immortali, sarà giusto sottoporre a queste parti tutto ciò che è fisico e
mortale. Inoltre, anche quando vi siano opportune e positive raccomandazioni di
trattare con rispetto tutti gli esseri viventi, sarà sempre un rispetto
dall’alto e non una vera e propria partecipazione. Leggeremo sui libri che
trattano di evoluzione di avere un antenato in comune con gli scimpanzè,
leggeremo del gradino di superiorità cerebrale che abbiamo rispetto a questo
intelligente primate, ma potremo sempre fare ricorso a quell’immenso distacco
che è costituito dall’anima per sentirci al di sopra di tutti.
Si
potrebbe anche ragionare in modo diverso e andare a fondo dei problemi della
vita (tema di una mia discussione aperta con Ida Magli, antropologa esperta del
problema della morte).
La
vita, per il suo carattere di mutamento e non di fissità, include
necessariamente la finitezza della vita, cioè la morte.
Ogni
individuo vive finchè è disposto a cambiare, pur mantenendo la sua identità.
Quando non è più così avviene il bloccaggio dell’identità o la rottura. Ciò
significa che l’individuo, in quanto grumo di vita, è stanco di cambiare. Di
conseguenza, la continuazione della vita e del cambiamento implica la morte di
quel singolo individuo.
In
questa situazione, perchè rifugiarsi nel “bloccaggio eterno post mortem”,
piuttosto che accettare la vita-morte?
I
genitori non si sacrificano forse per i figli, e non lo fanno forse per un
prolungamento della loro vita più attendibile rispetto alla via metafisica?
Vorrei
quindi spezzare una lancia a favore del carattere terrestre e cosmico della
nostra condizione e della conseguente ricerca di soluzioni.
Non
sono giustificati gli atteggiamenti atei troppo facili e razionalistici, che
propongono un rapporto tutto sommato superficiale -anche se negativo- con
l’esperienza religiosa, in contrasto con ogni evidenza storica, visto che
perfino Robespierre dovette accettare di deificare qualcosa e inventò la Dea
Ragione.
In
mancanza di migliori spiegazioni, in mancanza di miti terrestri e cosmici, non
si può cancellare il ruolo delle religioni e in particolare di quelle
mediterranee, derivate da Abramo e accordate con la filosofia sulla base di un
unico dio creatore; la trascendenza resta tale, potremmo solo svincolarla dalle
gerarchie religiose, non toglierla. Del resto, anche la nascita ci trascende,
anche se ci crea meno ansie rispetto alla morte...
Possiamo
dunque trasformare i nostri rapporti con la trascendenza, non azzerarla o
negarla.
Proviamo
allora a ragionare dalla parte della vita: se la morte ci dispiace tanto, è
perchè interrompe la vita; ciò che si interrompe, però, non è la vita in
generale, ma la nostra vita, cioè quel tanto di vita che è legato alla nostra
identità. In definitiva, quello che ci interessa è una vita-identità.
Rinforzare
la vita identità potrebbe forse farci accettare la morte con calma, mentre
chiedere di accettarla con un sorriso sarebbe forse troppo.
Chi
ha identità può accettare di morire, come chi ha radici sul territorio può
accettare di viaggiare e guardare, sembra strano ma è così: si stacca più
facilmente chi sente il valore al suo interno.
La
questione dell’identità non è affatto trascurata da Pino Rotta, anzi è
molto accentuata, fino a scrivere che “il mondo non sarebbe lo stesso se anche
uno solo degli esseri viventi passati o presenti non fosse esistito”.
Rispetto
a questa affermazione, pienamente conforme al riconoscimento dei singoli esseri
viventi in quanto individui e pertanto attivi e portatori di effetti - e, si
potrebbe aggiungere, di diritti - vorrei richiamare la benefica azione del caso.
Il mondo in cui viviamo è il risultato di spinte e contro-spinte, legalità e
casi, tendenze costanti e cambiamenti.
Certo,
a livello microfisico il ruolo del caso si potrebbe superare, nel senso che si
potrebbe attribuire individualità ad ogni organismo unicellulare, visto che
anche lui è dotato di cervello o di qualcosa del genere. Se poi arriviamo fino
agli elettroni, il caso potrebbe sparire, nel senso che tutto potrebbe essere
legato in termini di cause e di effetti. Ma sappiamo che non è così che si
deve ragionare. La realtà è statistica, probabilistica, la realtà è più
coevolutiva che causale, la realtà è non deterministica. Non è necessario
seguire tutte le micro-individualità. I microorganismi non ci interessano, uno
per uno, visto che le loro riproduzioni sono probabilistiche... Siamo cugini
degli scimpanzè, siamo primati con una o due capacità cerebrali in più e si
può capire che diamo più importanza agli animali più vicini a noi, in senso
fisico e in senso evolutivo.
Chi
scrive, continuerà a sopprimere le mosche che daranno fastidio, affermando di
essere in parte il risultato di una tendenza continua della vita a trasformarsi
verso una maggiore complessità, dall’altra di essere anche la conseguenza di
elementi aleatori. Il caso è come un cancellino che cancella parte della
lavagna e magari cancella ad occhi chiusi. Non è detto che ciò che sopravvive
sia il migliore, ma se sopravvive vuol dire che è stato in grado di adattarsi.
Se siamo il prodotto di combinazioni di leggi e di fattori aleatori, non
possiamo sentirci come dei risultati teleologici ma possiamo avere la
soddisfazione di affermare che ciascuno di noi è unico e irripetibile.
Occorre
ora accennare alla seconda affermazione, quella relativa alla coscienza della
vita, che poi dà luogo al linguaggio, al saper fare, all’intelligenza
tecnico-funzionale, all’artificialità e all’industria.
Prima
di tutto, nessun pentimento rispetto a queste nostre capacità.
Qualche
milione di anni fa, i nostri progenitori erano indecisi se continuare a stare
sugli alberi, con qualche passeggiata a terra, o se fare il contrario. Alcuni,
forse perchè le condizioni di vita sugli alberi erano peggiorate, o anche per
spirito di curiosità e cambiamento, scelsero la terra. Perchè poi si alzarono
in piedi? Ci sono molte spiegazioni, ma non dimentichiamo che tutti i primati
sanno stare in piedi e che se le braccia e mani non servono più per attaccarsi
ai rami, possono diventare utili per trasportare qualcosa: imparare a muoversi,
trasportando qualcosa, non è un piccolo passo avanti. Poi sono avvenuti i
cambiamenti di cui ha parlato André Leroi Gourhan, cioè lo sviluppo
contemporaneo del cervello, del linguaggio, della vocalità, della faccia e
della mano. Non siamo pentiti di tutto ciò, è una storia evolutiva non
peggiore di un’altra, anzi per molti aspetti unica.
Pensiamo
a noi stessi, piuttosto e ai problemi che stiamo creando alla nostra condizione!
Il
paradigma non dichiarato, ma implicito, nella nostra regola è quello della
artificialità sufficiente, per cui l’aumento delle capacità tecnologiche è
ciò che ci occorre e ci basta. La conseguenza è che all’aumento delle
capacità tecnologiche fa riscontro un aumento dei danni alla natura. E questo
peggiora la nostra condizione.
È
come se l’intelligenza tecnica-funzionale-umana, che produce tra l’altro
automobili, aggressivi chimici, cemento e armi, si mostrasse intrinsecamente
contraria agli equilibri naturali. Sappiamo che non è così e non vogliamo
rinunciare alla chimica o alla meccanica, solo perchè sono mal dirette.
Si
pone quindi la domanda: la ricchezza tecnologica e strumentale è
intrinsecamente sbagliata o si aprono altre soluzioni?
Osserva
giustamente l’autore che “nella morale comune vi è una predilezione.... per
una ingiustificata convinzione che si ha una più seria valutazione della vita
umana se si conduce un’esistenza in modeste condizioni materiali e
culturali”. E continua: “...Secondo questa concezione, più ci si eleva sul
piano del benessere materiale e della conoscenza, più ci si allontana dai
sentimenti in generale e dalla solidarietà in particolare; è quello che in un
certo senso sarebbe successo nella società industrializzata italiana, dalla
fine degli anni ‘60 in poi. Con il cosiddetto boom economico, infatti, e
l’esplosione dei consumi di massa, gli italiani hanno maturato una mentalità
materialistica, perbenista ed egoistica”.
Si
tratta di un punto di grande delicatezza, non solo per il passato, ma anche per
le prospettive future.
Provo
ad interpretare il problema attraverso il concetto di libertà e disponibilità
al dialogo e alla cooperazione. Al di fuori di ogni romanticismo; nelle epoche
passate, il rapporto di solidarietà sociale e popolare, come anche il rispetto
verso i cicli di natura, era in ambedue i casi obbligato: ad esempio, sia per
prendere l’acqua alla fontana di un paese, che per avvicinarsi ad una sorgente
d’acqua nel deserto, c’erano precise regole da rispettare, in relazione alla
scarsezza di acqua rispetto alla domanda. C’era quindi una scarsezza, che
veniva gestita secondo regole che obbligavano anche a certi livelli di
solidarietà. È noto però che in queste situazioni l’individuo veniva
schiacciato rispetto al gruppo, per cui si era in presenza di un assorbimento
delle singole individualità all’interno dei gruppi.
In
questa situazione sono intervenuti gli effetti della rivoluzione scientifica,
dell’illuminismo liberale, delle rivoluzioni borghesi, creando prospettive
terrestri per i singoli individui.
Dobbiamo
quindi fare i conti con il doppio carattere delle rivoluzioni
scientifico-liberali: da una parte, come dice Pino Rotta, hanno dato vita a
“quella concezione, rivoluzionaria nella storia del pensiero dell’uomo, che
pone al centro dei valori esistenziali l’individuo”, dall’altra “hanno
realizzato anche le condizioni di sfruttamento dell’uomo sull’uomo di
vastissime dimensioni e atrocità ( dando vita ai sistemi politici alternativi
di ispirazione marxista)”.
Il
punto, sul piano storico, è che la risposta allo sfruttamento borghese, basata
sulla rivoluzione proletaria, ha abbandonato la priorità esistenziale
dell’individuo.
Anche
questo ha una spiegazione: una rivoluzione post-liberale, infatti, avrebbe
dovuto avere luogo nei paesi più sviluppati (come sosteneva Marx); doveva
essere una rivoluzione post-liberale e in qualche modo critica verso
l’industrialismo ed anche il fordismo.
Il
fatto, invece, che la rivoluzione sia avvenuta in paesi industrializzati ha
accordato necessariamente una priorità ai beni materiali industriali che
mancavano... in questo modo nessuno si è più occupato seriamente della
questione post-liberale.
Il
comunismo, essendo industriale e sociale, ma non post-liberale e democratico, ha
prodotto confronti che non potevano evidenziare la vera questione posta dalla
intelligenza tecnica e dalla accumulazione, cioè la instaurazione di una
maggiore libertà individuale in una situazione industrializzata.
Nessuno
si è occupato del saper vivere in condizioni del tutto nuove, cioè in
condizioni di superamento dei bisogni materiali immediati, dei basic needs. Si
rivendicano giustamente i basic needs per tutto il mondo, ma quale è la
proposta per i paesi sviluppati?
Ancora
oggi, infatti, ci troviamo nella situazione di una prigione relativamente
affluente, di una gabbia abbastanza dotata di consumi, di una scarsità di
relazioni e di qualità, più che di merci.
Per
impegnarsi sulla vera scarsità, cioè qualità, identità, relazioni, occorre
una avanzata sociale post-liberale, secondo una socialità basata
sull’individuo e che non oscilli tra la classe operaia e l’appiattimento
consumista, ma individui le possibilità di equilibrio tra individualismo ricco
e complesso e socialità, due esigenze che possono essere coevolutive.
Occorre,
in particolare, un rapporto tra individui sociali e organizzazione produttiva
che non sia di assoggettamento, nè economico nè culturale, dei primi alla
seconda. Occorre quindi concepire, fondare, comunicare, realizzare la libertà
dell’individuo sociale.
Quali
sono le difficoltà?
È
un capitolo del libro di Pino Rotta che è intitolato “Tra voglia di libertà
e desiderio di protezione”. Provo ad applicare questo concetto alla realtà
attuale e degli anni scorsi.
La
protezione, nella fase pre-liberale, era costituita dalla certezza della
continuità: ciascuno aveva un ruolo, una sede, una appartenenza, un posto nella
conservazione e, di solito, nella miseria (che, come Braudel insegna, non è
stata sempre miseria).
Nella
fase dello Stato borghese, bisognava accettare il ruolo del “padrone” per
avere il salario e la sopravvivenza. Nella fase successiva, dal fordismo in poi,
grazie anche alle lotte operaie, a fronte della accettazione della proprietà
privata, si otteneva qualcosa di più, cioè salario, beni durevoli, consumi non
indispensabili alla sopravvivenza, cioè molto più dei “basic needs”.
Le
rivoluzioni, che hanno avuto successo solo nei paesi che non avevano avuto una
rivoluzione o trasformazione liberale e industriale, hanno assicurato i beni
fondamentali e la sicurezza sociale, con la rinuncia allo sviluppo
dell’individuo e delle libertà democratiche. Nella situazione attuale,
l’individuo ha un rapporto di sudditanza non tanto nei confronti del sistema
dei poteri economici, quanto della abitudine ai consumi, che esercitano ormai un
ruolo di orientamento dei gusti e perfino di rifugio: sono triste, quindi
consumo.
Sembra
evidente, in questa situazione, che occorre ripartire sul piano filosofico e
antropologico dalla questione del rapporto con la natura, cioè della nostra
libertà di esseri appartenenti alla natura e dal riconoscimento dei valori
naturali come valori per gli individui, le comunità umane, la specie umana nel
suo insieme, e come autovalore del mondo vivente, mentre sul piano
politico-sociale, occorre sviluppare il concetto di individuo libero e sociale,
dotato di identità, ma anche di solidarietà. Un individuo capace di essere per
sè ma anche per la comunità, in altre parole un individuo sociale e
comunitario, radicato nel territorio, cittadino del mondo vivente e in
controcorrente rispetto alle attuali culture e realtà dell’indifferenza
territoriale.
È
evidente la difficoltà di realizzare un simile identikit in una situazione di
individualismo egoista e consumista, ma bisogna avere chiara l’esigenza di una
nuova risposta all’industrialismo ristretto, ormai privo di prospettive.
Non
basterà a questo fine la cultura dei limiti e la buona volontà ecologica, ma
occorrerà una nuova critica sociale e un approfondimento post liberale e post
comunista del tema dell’individuo, che dovrà necessariamente essere basato
sullo studio dell’ego.
Il
logos critico verso i consumi è infatti distante dalla percezione dei soggetti
reali, che hanno di solito una discreta sensibilità per i valori ambientali ed
una propensione più strutturata verso i consumi.
Il
rapporto con i consumi, oggi, non è puramente utilitario, non è solo valore
d’uso conseguito attraverso metodi di scambio, è qualcosa che entra a far
parte della soggettività individuale, è in tutti i sensi alimento materiale
quotidiano, sostanza simbolica, possibilità di status, di identità, di
relazione.
Il
nostro logos afferma che i soggetti perdono identità nella società dei
consumi, ma i soggetti, se fossero interrogati e sondati, ciò che del resto
avviene, affermerebbero di cercare identità e relazioni all’interno dei
consumi, attraverso scelte più o meno personalizzate, come del resto propone la
pubblicità; essendo oggi il linguaggio dei consumi diffuso ed accettato, i
valori della qualità vengono perseguiti al suo interno.
È
probabile, se questa descrizione della realtà è sufficientemente fedele, che
la ricerca della qualità all’interno della società dei consumi debba essere
accompagnata e non vietata dal nuovo ragionamento di sviluppo.
La
contraddizione consiste appunto nella ricerca della qualità in un contesto
sociale e organizzativo che non la produce, ma cercarla non è affatto vano:
bisogna cercare la qualità.
Nell’insieme
occorre una combinazione di nuove proposte, filosofiche, culturali, di
insegnamento nelle scuole, di riforma dei contesti di vita urbana, di rapporto
tra lavoro e vita sul territorio, di impiego del tempo libero, di realizzazione
di un ambiente più vivibile ed ecologico, accettando a questi fini obbiettivi
di riorientamento dei consumi, cioè agendo sul loro carattere contraddittorio.
I
consumi, infatti, sono insieme libertà dal bisogno, possibilità di mobilità e
di comunicazione, allargamento della condizione umana e sistema di relazioni
ingabbiate che tolgono agli individui il respiro umano-naturale.
Il
doppio carattere del rapporto tra soggetti e consumi deve quindi impegnare le
riflessioni e le esperienze concrete, per costruire nella società la
piattaforma post liberale e post comunista dell’individuo sociale, libero di
conseguire la qualità, in accordo con la natura.
Ci
avviamo ormai alla conclusione, ma prima occorre porsi una domanda che si
potrebbe definire “spietata”: all’individuo reale interessa la qualità, e
il sentimento estetico dell’esistenza? Si tratta di esigenze di élite o di
tutti?
Questa
domanda ha bisogno di risposta e per darvi risposta occorre sviluppare una
egologia (rilanciando un termine di Edmund Husserl).
La
possibilità di un’estetica dell’esistenza, in ogni modo, si fonda proprio
sulla attività di coscienza e sul conseguente sdoppiamento dell’io umano.
La
seconda tra le affermazioni iniziali diceva: siamo gli unici animali ad avere
coscienza della vita, coscienza quindi di sè.
La
coscienza di sè, però, è un secondo io. Da una parte produce l’esigenza dio
e tutto ciò che si è detto che richiama il testo dell’autore, dall’altra
produce un rapporto tra l’io cosciente e l’io preso in esame, un rapporto
quindi tra sè e sè.
La
conseguenza è che ciascuno di noi produce, nei modi permessi dal contesto in
cui vive, sè stesso, il proprio ego. E si crea sempre un rapporto tra se e sè,
più o meno compiaciuto o narcisistico, o teso o insoddisfatto, ma sempre
condizionato da idee, da valori, da gusti e da criteri estetici.
Possiamo
ora affermare che se vogliamo costruire all’esterno un contesto orientato alla
qualità e all’equilibrio, occorre fare lo stesso all’interno
dell’individuo. L’estetica esterna è coevolutiva con lo sviluppo del
dialogo all’interno del soggetto, per cui l’obbiettivo di un modello di
sviluppo ecologico deve essere accompagnato necessariamente dalla proposta di un
ego dialogico.
Bisogna
creare insieme le condizioni della qualità e dell’identità dialogica se si
vuole che la pianta del libero individuo sociale possa svilupparsi e
organizzarsi.
Per
comprendere come tutto ciò possa corrispondere ad una prospettiva reale, diamo
un’occhiata al mondo in cui viviamo. I soggetti reali non si comportano
secondo i criteri evangelici o socialisti umanitari, ma nemmeno secondo quelli
di Hobbes e del Leviatano.
Scrive
Pino Rotta: “ quando si creano le condizioni in cui ogni individuo può
affermare la propria dignità e le proprie aspirazioni, allora è possibile che
l’individuo percepisca la propria esistenza con un senso di partecipazione
originale all’ambiente biologico e culturale”.
In
definitiva, cosa si deve pensare degli individui reali?
È
probabile che siano capaci di diverse risposte, a seconda delle culture
dominanti, dei contesti in cui sono immersi, delle possibilità che vengono
offerte. Ogni individuo si comporta diversamente in diversi contesti. Ogni
individuo ha un certo grado di conformismo e cerca di realizzarsi nel quadro
delle regole date.
Per
ogni individuo vi sono diversi equilibri possibili.
Occorrerebbe
parlare più a lungo del rapporto tra vita persona e vita economica e pubblica,
elaborato dal movimento delle donne.
L’abitudine,
oggi accettata e praticata da tutti, di saltare dal livello
politico-statuale a quello economico e ancora a quello personale familiare, come
se non fosse lo stesso essere corporeo-mentale-psichico-sessuato a partecipare
ai diversi ambiti, dimostra che la separazione tra i diversi piani
dell’esistenza non esiste solo nei fatti, ma anche nelle culture e nelle
coscienze individuali, per cui occorre porsi il problema di nuovi rapporti
all’esterno, ad esempio, tra economia, impresa, istituzione, natura, città,
come anche nelle strutture interiori, intellettuali e affettive, degli uomini e
delle donne.
Un
individuo non può essere libero e dotato del senso estetico dell’esistenza se
non è dialogico al suo interno e all’esterno.
Non
è possibile un’ecologia senza un’egologia.
Paolo Degli Espinosa
Prima Parte - IL MITO E LA LIBERTA’
Basti
pensare ai milioni di italiani emigrati nelle Americhe, dal Sud al Nord
d’Italia o dalle campagne alle città.
Questi
esodi “biblici” hanno cambiato la fisionomia delle città ed amplificato la
sensazione di affollamento provocando reazioni comportamentali talmente
paradossali e disumanizzanti che in antropologia sono state definite “fogne di
comportamento”... (1)
Il
cambiamento infatti ha interessato non solo il sistema di produzione ma anche,
forse soprattutto, quello delle relazioni interpersonali e della comunicazione
tra individuo ed ambiente complessivamente inteso.
Il
sistema di vita rurale presenta un’organizzazione sociale regolata secondo
ritmi di produzione lenti e costanti, in cui ogni individuo esprime il proprio
ruolo attraverso la produzione di beni e strumenti di uso comune ed immediato;
il suo rapporto con gli altri individui e con la natura è assolutamente
personalizzato.
Al
contrario il sistema urbano comporta ritmi e sistemi di produzione segmentati e
fortemente specializzati, con un’organizzazione sociale improntata ad esigenze
quantitative più che qualitative, che hanno un immediato riscontro nella
struttura urbanistica.
L’innaturale
costrizione di masse di individui in spazi estremamente limitati fa scattare,
nella psiche individuale, un sistema di difesa inconscio che si manifesta con
l’aumento dell’aggressività, quale reazione alla sensazione istintiva di
minaccia provocata dalla mancanza di spazio sufficiente a consentire momenti di
intimità sensoriale ed emotiva.
La
casa non è più l’epicentro della comunità familiare, ma il rifugio
dell’individuo, ed all’interno stesso di questa “caverna platonica”
ognuno si ritaglia spazi ideali di intimità, costruendosi dei recinti
immaginari entro cui si ritira appena riesce a fuggire dalla routinaria e
stressante attività di produzione.
Dal
chiuso dei suoi recinti immaginari, l’uomo urbano comunica con gli altri
tramite sistemi sempre più sofisticati che gli consentono di ricevere e mandare
messaggi ed informazioni necessari a mantenere attiva la gigantesca macchina
produttiva; messaggi tecnici, commerciabili, di massa e completamente
spersonalizzati; inviati con mezzi che evitano il rapporto interpersonale.
Un
sistema di comunicazione autogenerante, messo in “rete”.
La
velocità con cui i messaggi vengono scambiati è in rapporto con la quantità
degli stessi, in una funzione sempre crescente e globale.
Nella
città, in questo luogo affollato di corpi e di parole, l’Uomo scompare nella
sua qualità soggettiva per diventare parte infinitesimale di un immenso
ingranaggio sociale tanto omogeneo da non consentire più all’individuo di
tracciare i caratteri distintivi della propria esistenza di Essere Unico ed
Irripetibile.
Il
risultato di questo stato di cose è l’annullamento della comunicazione
personale, autenticamente emotiva, quello che Erich Fromm chiama “pensiero
originale” (2).
Ed
in assenza di questo tipo di comunicazione subentra l’anomia e la solitudine;
compare la sensazione di impotenza di fronte alla limitatezza della propria
esistenza e con essa la paura inconscia ed il ritorno all’irrazionale
sovrannaturale, all’anelito della Grande Madre.
Non
importa se si chiama Budda, Cristo, Javé, Satana o altro, se lo si cerca nelle
chiese, nelle comunità, dal parapsicologo o dalla fattucchiera, perchè non è
importante il cosa si cerca, ma il perchè lo si cerca.
La
megacomunità è quindi un organismo che racchiude in sé tutte le negatività
prodotte dall’umanità nella sua evoluzione sociale e tecnologica?
Evidentemente
no. La parola chiave è conoscenza. Conoscenza dei meccanismi con cui ci
comunichiamo le nostre identità. L’accettazione dell’altro non è una
scelta è una condizione di sopravvivenza. Si tratta in sostanza di estrapolare
le istanze positive che hanno portato l’uomo ad abbandonare la sua esistenza
randagia per scegliere la convivenza stabile con i suoi simili, in misura sempre
crescente e di ristabilire collocazioni spaziali e funzioni sociali adeguate.
Ma
come si arriva al tipo di civiltà occidentale in cui oggi viviamo?
Sarebbe
come dire che i valori esistenziali di un uomo contemporaneo che vive in città
come Roma, Palermo o Milano sono pressocchè gli stessi su cui fondava la sua
vita un babilonese, un sumero o un etrusco.
Un’accezione
che potrebbe sembrare inverosimile se non si prendesse in esame la continuità
bioantropologica che lega in modo straordinario le finalità esistenziali del
romano odierno al babilonese di 5OOO anni fa.
Pochissimo
è cambiato infatti nel corso di cinque millenni circa la percezione che un
individuo ha del proprio ruolo o della propria esistenza nel più ampio contesto
dell’umanità e quasi tutti i cambiamenti avvenuti si sono verificati negli
ultimi cinquecento anni e per la maggior parte di essi nel corso degli ultimi
cento anni, questo salto dal passato ad un futuro ancora indefinito lo stiamo
ancora metabolizzando. Dobbiamo capire ed abbiamo paura dell’ignoto di ciò
che non conosciamo. E’ Prometeo ad avere paura.
Fin
dalla notte dei tempi l’uomo ha sentito il bisogno irrefrenabile di motivare
la propria esistenza, di trascendere la limitatezza della propria vita
individuale.
Ha
inventato strutture filosofiche, teorie sovrannaturali, scopi esistenziali e
ruoli sociali al solo fine di immaginarsi immortale: elemento finito di un
progetto immanente. Parte di un Tutto Unico Predeterminato.
Nel
corso dei millenni ha creato e reso sempre più complessa una filosofia
esistenziale che lo facesse sentire partecipe di un progetto universale perpetuo
e trascendentale.
Questo
strumento filosofico, con molteplici variazioni e connotazioni culturali,
varianti con la sua percezione del mondo, le sue conoscenze scientifiche e
l’accrescimento delle sue capacità di astrazione, ha dato vita al concetto di
metafisica. Poi, creando mano a mano le categorie religiose, peculiari di ogni
epoca e cultura, ha creato e consolidato il mito dell’Essere sovrannaturale,
sempre legato naturalmente alla limitatezza della sua umanità, per la necessità
di avere un riferimento sovrannaturale, non rispondente ai criteri di finitezza
terrena, ma che fosse purtuttavia funzionale ai bisogni psicologici umani e più
propriamente maschili e da cui egli uomo-non-dio potesse farsi derivare ed a cui
tendere come fine esistenziale.
L’uomo
creato ad immagine e somiglianza del suo dio, o che tende, con particolari
pratiche, ad assurgere egli stesso alla perfezione propria della divinità.
Gli
dei antropomorfi mesopotamici, greco-romani, giudaico-cristiani, da una parte, e
le teorie sulle reincarnazioni o le pratiche yoga ed esoteriche delle religioni
orientali o celtiche, dall’altra, sono la trama di una stessa epopea che,
attraverso secoli e culture, ha visto l’uomo alla continua ricerca della sua
immortalità che gli ha fatto smarrire la sua universalità.
Le
sovrastrutture attraverso cui questo mito si è espresso e sviluppato sono
diventate, in ogni cultura, dei sistemi normativi sempre più complessi e
potenti, fino ad arrivare ai moderni sistemi di potere (spesso fondamentalisti)
cattolici, protestanti, islamici, ebraici, induisti.
Nato
per soddisfare inizialmente il bisogno umano di costituirsi in organizzazione
sociale attorno ad una Autorità “stabilizzante”, raffigurando
nell’immaginario collettivo il bisogno di elevazione dalla transitorietà
terrena, il sacerdote stesso divenne prima medium, poi immagine del trascendente
sovrannaturale, vestendo di connotazioni morali e di norme comportamentali il
cerimoniale di intercessione.
La
partecipazione allo stato di immortalità, natura della divinità, viene
percepita quale premio per la propria sottomissione all’Autorità, che si
esprime attraverso i sacrifici offerti: un agnello, una vergine o il distacco
dai beni materiali e terreni, tutto ciò che comporta comunque una rinuncia
e più consistente è la rinuncia più probabilità ci sono di ottenere
il premio.
Ma
per sapere quanto consistente debba essere il sacrificio e in quali forme ed a
chi offrirlo era necessario un codice: la legge.
È
l’intermediario, il sacerdote, che interpreta e detta la volontà
dell’Essere sovrannaturale.
Con
le sue pratiche misteriche egli ricerca un segno (un fulmine, una traettoria nel
volo degli uccelli o la disposizione dei sassi gettati in terra), fino al giorno
in cui il segno viene concesso in forma più complessa ed elaborata: la parola
dei profeti, cioè la legge divina.
Il
mito dell’immortalità dà origine all’istituzione religioso-politica ed
infine alla Legge; e chi possiede la Legge possiede il potere sui propri simili.
L’ordine
normativo nasce quindi primordialmente dall’istituzione politico-religiosa
dell’uomo che vive in comunità per soddisfare il suo bisogno di sicurezza e
vincere la paura della solitudine che, nel subconscio umano, rappresenta la
morte, il nulla.
Il
sentimento di comunione tra creatura e creatore, che sta alla base del moderno
sentimento religioso, viene sopraffatto dalla codificazione dei comportamenti
etico-religiosi.
Secoli
di cammino, percorsi nel buio della ricerca della sua immortalità, accompagnato
dalla luce artificiale delle sue finzioni teologiche, che pure, come diremo più
avanti, sono riuscite per oltre 5OOO anni a dargli l’illusione di una
direzione di marcia verso quell’Essere sovrannaturale che gli darà la
sicurezza della vita eterna.
Ma
perchè e quando è successo che il mito dell’immortalità comincia a
sgretolarsi e l’uomo ripiomba nella paura della solitudine e della morte?
Fino
all’inizio dell’illuminismo tutta l’umanità ha vissuto in uno stato di
religiosità naturale, poggiata funzionalmente su sovrastrutture teologiche che
riuscivano ad assicurare (e riescono ancora per gran parte dell’umanità che
vive nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo) quella intermediazione cerimoniale
che dava la certezza fideistica di raggiungere lo scopo dell’immortalità,
seppure un’immortalità extracorporea e riservata a pochi meritevoli,
assicurata a tutti coloro che lo fossero diventati accettando ed applicando la
legge divina.
Come
il bambino che nei primissimi anni di vita realizza la coscienza della propria
soggettività corporea distinta dal resto del mondo, acquisendo pian piano
conoscenza della propria individualità, l’umanità, che fino alla crisi del
Mondo Antico aveva vissuto in quella concezione esistenziale di unitarietà ed
universalità, espressa sul piano religioso dal buddismo e dal cristianesimo,
che riuscivano a consolidare strutturalmente e definitivamente il mito
dell’esistenza immortale, conosce con l’inizio dell’era scientifica
un’altra rivoluzione filosofica, riservata, fino ad oggi, all’Occidente del
mondo e le cui connotazioni principali sono rappresentate dalla progressiva ed
inarrestabile crisi del sistema economico di tipo rurale e dalla nascita del
sistema di comunicazione globale. Una rivoluzione che investe soprattutto la
scienza che si allontana sempre di più dall’impostazione lineare di tipo
classico per arrivare sempre più ad abbracciare tesi complesse come la teoria
quantistica. Cambia così anche il concetto di immortalità. L’uomo oggi non
punta più a rinascere ma a creare le condizioni per vivere sempre di più
ed in qualunque condizione fisica.
Questo
ha messo di nuovo in crisi la chiesa cattolica che non deve più temere la
scienza positivista. Anzi, ribaltando le sue posizioni storicamente
antiscientifiche, rivaluta le ormai superate concezioni scientifiche di tipo
lineare per scongiurare le tesi quantistiche, perchè se non esiste più un solo
prima nè un solo dopo, un avanti e un indietro nel tempo e nello spazio ma
tanti qui e ora, viene a crollare l’intera struttura ideologica della sua
teologia e la chiesa non è mai pronta ad accettare la libertà.
Il
mistero della morte doveva essere, agli albori dell’umanità, quando ancora il
rapporto dell’uomo con la natura doveva essere simile a quello che ha un
bambino nei suoi primi anni di vita, tra tutti, il fenomeno che più riusciva a
sconvolgere la mente.
Data
l’esiguità demografica dei primi gruppi umani l’intensità emotiva
dell’evento non doveva essere nemmeno attenuata dalla consuetudine e comunque
quel corpo che, fino a pochi istanti prima si muoveva e comunicava con gli altri
e “istantaneamente ed inspiegabilmente” non dava più alcun segno di vita,
doveva indubbiamente seminare angoscia e smarrimento.
Lo
stato di assenza di vita era simile al sonno e dal sonno l’uomo tornava sempre
a rivivere; ma il corpo che invece di risvegliarsi subiva una metamorfosi così
sconvolgente, per poi sparire nel nulla, non poteva essere spiegato né tanto
meno accettato. Quel corpo dissolto era lì da qualche parte ancora, trasformato
in qualche altra cosa, ma un giorno forse sarebbe tornato a materializzarsi ed a
“svegliarsi”, era bene quindi conservare le spoglie in attesa del risveglio.
Già
con le prime civiltà della storia dell’umanità il seppellimento dei morti
aveva dunque una funzione di attesa.
Basta
esaminare l’apparato funerario di popoli come i Sumeri o i Cretesi dell’era
minoica, o addirittura qualche millennio prima, in Anatolia, dei popoli di Çatal-Huyuk:
i primi usavano seppellire i propri defunti in una stanza adiacente
l’abitazione, tutti insieme (3), i secondi li seppellivano, sempre in un unico ambiente, nelle grotte
dalle quali erano usciti non molti secoli prima i loro avi (4),
ma ancora prima, in Anatolia, i defunti trovavano posto in delle nicchie poste
al di sotto dei letti familiari, con l’evidente significato, in tutti i tre
casi, che il defunto continuava a condividere, durante il suo “sonno” la
quotidianità dei suoi cari (5).
È
a partire dal secondo millennio a.C. che il mondo immaginario dell’aldilà
comincia a diversificarsi tra le civiltà insediate nel centro-nord Europa, da
una parte e a Sud del Mediterraneo dall’altra.
Mentre
tra le civiltà egizie e medio-orientali il culto dei defunti rimane ancorato
all’aspettativa della reincarnazione (vedi la pratica della mummificazione
egiziana e le già citate inumazioni domestiche), i popoli di civiltà celtica e
nordica abbandonano questa concezione per creare un parallelismo tra il mondo
terreno e quello ultraterreno.
Il
defunto delle civiltà celtiche si stacca dalla vita terrena per iniziare il suo
viaggio negli Inferi in cui è solo l’anima che conserva la sua immortalità
(alcuni autori francesi della Commissione di storia Skol Vreizh (6)
hanno accreditato l’ipotesi che nella mitologia celtica valga per la
trasmutazione delle anime il principio della metempsicosi, che però ha una
valenza del tutto diversa dalla reincarnazione di tipo egizio, buddista o
cristiano).
Che
fosse l’anima e non il corpo, dopo la morte, a guadagnare l’immortalità è
ancor meglio manifestato dai riti funerari vichinghi, sicuramente praticati
ancora nel 9OO dopo Cristo.
Uno
di questi riti è raccontato da Ibn Fadlan ambasciatore arabo del Califfo di
Bagdad, che nell’anno 921 ebbe modo di assistere al rito funerario praticato
da un gruppo di Rus residenti nella zona del medio Volga, presso Bulgar, e lo
descrisse nel suo resoconto il “Risala”, il cui manoscritto fu rinvenuto in
Iran nel 1923.
Nel
Risala il rito funerario è riferito con dovizia di particolari.
Si
realizzava con la cremazione del defunto, che avveniva il decimo giorno dopo la
sua morte e dopo che per dieci giorni venivano celebrate le onoranze funebri
consistenti in tutta una serie di atti che presumibilmente venivano compiuti
affinchè l’anima del defunto conservasse nell’aldilà il ricordo dei
piaceri terreni (riti sessuali, offerte di cibo, vesti pregiate, doni ed armi) e
portasse con sè tutto ciò di cui in vita si era servito, dalle armi, al cane,
ai cavalli e perfino la propria schiava concubina che veniva strangolata ed arsa
assieme al suo padrone.
Ibn
Fadlan riferisce anche le parole di un Rus che durante il rito di cremazione
rinfacciò agli arabi la mancanza di devozione verso i propri morti che venivano
inumati, a differenza dell’uso vichingo che consentiva all’anima del
defunto, liberata dal fardello del corpo arso, di raggiungere l’aldilà in
pochi minuti (7).
Per
gli arabi invece, così come per i giudaico-cristiani, il corpo del defunto era
sacro ed inviolabile perché era destinato a risorgere assieme all’anima.
Ma
se per le diverse culture che si sono sviluppate a nord ed a sud del
Mediterraneo, differente è stata la concezione del destino del corpo, in comune
rimase la concezione dell’immortalità dell’anima, che così riportava ad un
unico principio l’esigenza dell’uomo di immaginarsi trascendente dalla sua esistenza terrena finita.
Questo
concetto, seppur con l’evoluzione del pensiero e delle conoscenze
scientifiche, è arrivato intatto fino ai nostri giorni.
Se
fino all’età del bronzo gli uomini affidavano alla loro immaginazione teorie
tutto sommato elementari sulla collocazione dell’anima in un mondo parallelo
alla materialità quotidiana ma pur sempre indefinito e senza immediate
implicazioni etiche, con l’evoluzione della filosofia e della cosmogonia greca
(vedi Esiodo, Pindaro o Talete) compare per la prima volta nella storia
dell’umanità (anche se non si può non fare riferimento ad una continuità
culturale con analoghe categorie filosofiche e religiose di origine orientale e
di cui accenneremo seppur sinteticamente più avanti) una concezione metafisica
che diventerà la base teoretica delle future elaborazioni sia religiose che
filosofiche di tutto il mondo occidentale, antico e moderno.
L’Isola
dei Beati di Esiodo è un luogo posto “all’estremo della Terra” dove gli
eroi, esseri superiori per le loro qualità innate, vengono portati “vivi”
per condurre un’esistenza perpetua di letizia ed abbondanza.
Pindaro
identifica l’Isola dei Beati come un mondo realmente esistente ove
“risplendono fiori d’oro, alcuni sulla terra da alberi splendidi, altri
nutriti dal mare”, a cui però gli uomini arrivano solo dopo un triplo
passaggio dalla vita alla morte, durante il quale, mantenendosi costantemente
senza peccato (empietà), conquistano il premio dell’immortalità (8).
Con
Talete, il quale ha una formazione più razionale e “scientifica”, abbiamo
la prima grande svolta del pensiero metafisico: solo le anime sono immortali e
la caratteristica della divinità è l’assenza di principio e di fine.
Come
si noterà in Talete (VII°-VI° sec. a.C., secondo Erotodo e Diogene Laerzio,
di origine fenicia, comunque medio-orientale, da Mileto probabilmente) (9)
è già presente l’essenza delle grandi religioni monoteistiche successive.
Entusiasmante
è per lo studioso addentrarsi nelle speculazioni del pensiero filosofico greco
di personaggi come il già citato Talete o Parmenide, Empedocle, Socrate,
Platone, Aristotele, che hanno coniato la matrice indelebile del futuro di tutta
la concezione esistenziale e religiosa del mondo occidentale.
Non
è possibile dissociare la trattazione dall’influenza che il pensiero
tardo-antico greco ebbe sull’evoluzione di tutte le concezioni esistenziali
susseguenti fino ai giorni nostri, occorre quindi tracciare, seppure
sinteticamente, un quadro delle radici orientali che hanno determinato la sua
formazione.
Il
pantheon egizio aveva forti connotazioni astrali, ed in questa logica si sviluppò
in una sorta di enoteismo cosmico che, pur mantenendo viva la presenza di una
pluralità di divinità particolari, assegnava a qualcuna di esse un ruolo
primordiale e preminente rispetto alle altre.
Tra
tutte le divinità egiziane quella che costituì un elemento unificante fu
OSIRIDE, che affiancato dalla sua sposa ISIDE, rappresentava il mito della
fecondità e dell’abbondanza, evolvendosi poi in una sorta di dio dei Morti.
Particolarmente
interessante appare il culto di Osiride, praticato nei riti funerari. (10)
I
salmi enunciati durante il rito funebre mettono in risalto il desiderio dei
fedeli di acquistare, tramite il rito, lo stato di immortalità non solo
dell’anima ma in un certo senso anche del corpo, ripercorrendo le fasi rituali
che vedevano il dio Osiride ucciso e smembrato da suo fratello Seth e poi
riportato a nuova vita, seppur nel regno degli Inferi, con il corpo ricostituito
ad opera della sua sposa Iside. Le formule del rito funerario con cui i fedeli
di Osiride invocano la rinascita del defunto proclamano: “Come è vero che
Osiride è vivente, anch’egli vivrà; come è vero che Osiride non è morto,
anch’egli non morirà; come è vero che Osiride non è stato annientato
anch’egli non sarà annientato”.
Così
come Osiride assumeva, unificandole, le caratteristiche delle altre divinità
maschili del pantheon egiziano, così Iside riassume in sè tutte le
caratteristiche delle divinità femminili.
Iside,
nella mitologia egizia, è quello che Demetra fu per quella greca.
Ella
è la Dea Madre, colei che ha separato la Terra dal Cielo, che ha tracciato la
via degli astri, che ha stabilito il corso del Sole e della Luna, ed infine è
colei che ha dettato i principi dell’etica, della politica e della morale.
Con
le sue caratteristiche universali Iside, assieme ad Osiride, si candidava ad
assolvere al compito di diffondere nel mondo greco-romano, non più diviso da
barriere nazionali in campo politico, culturale e religioso (siamo ormai
nell’epoca imperiale romana) quella concezione fondata su una sorta di
monoteismo imperfetto che spianerà la strada, di lì a poco, al cristianesimo.
Ma
se il culto di Osiride ed Iside aveva permeato il mondo greco-romano, la figura
divina destinata ad assumere un’importanza preminente in Grecia e poi a Roma
è rappresentata dal dio SERAPIDE.
Con
il suo carattere cosmico egli esercita una sovranità su tutte le cose, in un
principio immanente, fonte di ordine e di movimento del Tutto.
L’importanza
di Serapide per lo sviluppo futuro delle concezioni religiose ed esistenziali è
rappresentata soprattutto dalla novità del rapporto tra dio ed i suoi fedeli,
che poggia non più solo sul culto rituale, ma che assume ora connotazioni di
comportamentismo morale finalizzato a conquistare il premio dell’immortalità:
“Se il morto ha servito pietosamente Osiride- Serapide, sarà assimilato a
lui, condividerà la sua eternità nel regno sotterraneo, in cui siede il
giudice dei defunti.”
Mentre
fino a quel momento solo gli iniziati ai riti funebri potevano accedere allo
stato di immortalità, la teologia egiziana sposta ora da un piano misterico ad
un piano etico il rapporto tra l’uomo e dio.
Tutti
i fedeli, purchè conducano una vita meritevole, possono essere liberati dalla
morte ed avere garantita, seppur in un altro mondo, l’immortalità
dell’anima e la riappropriazione del proprio corpo sottratto alla distruzione
del tempo.
Saremmo
costretti ad allontanarci troppo dal tema della nostra trattazione se ci
addentrassimo a descrivere le altre, seppur fondamentali influenze subite dal
mondo greco-romano nel periodo ellenistico, ed ancor prima, da parte delle
concezioni metafisiche e religiose di altre culture orientali, ma non possiamo
fare a meno di ricordare che le radici di quelle civiltà affondano nelle
teologie zaratustriana, mazdaica e mitriaca, le cui influenze si sono rivelate
fondamentali soprattutto per lo sviluppo delle religioni giudaico-cristiane non
solo per il fatto che queste hanno mutuato dalle prime moltissima parte della
loro tradizione rituale, ma soprattutto per la diretta evoluzione
dell’impianto teologico e della struttura etico- filosofica.
Il
grande sviluppo che il cristianesimo ha avuto nell’occidente è stato
determinato essenzialmente dalla sua capacità di riassumere in sé le istanze
metafisiche maturate nel mondo ellenizzato e dall’aver rappresentato, nel
periodo della Roma imperiale, la religione più funzionalmente legata agli
interessi di unificazione politica e culturale dell’impero romano; questo
passaggio si impose per creare un baluardo culturale che potesse difendere
l’unità dell’impero minacciata ormai appunto non tanto dalle armate quanto
dalla filosofia persiana, l’unica in un certo senso “esistenzialista e
morale” presente all’epoca imperiale in tutta la zona a nord ed a sud del
Mediterraneo.
Quando
la filosofia greca cominciò a porsi il problema dell’esistenza, sfrondando la
speculazione dalla giungla di mitologie che l’aveva avviluppata fin dai tempi
più remoti, cominciò per l’umanità il lungo cammino alla ricerca
dell’origine del Tutto.
Il
merito dei primi filosofi, Talete, Anassimene e Anassimandro fu quello di porre
al centro della speculazione filosofica la necessità di individuare
quell’elemento unificatore, elaborando la teoria che la realtà come ci appare
non è altro che il modificarsi in un continuo divenire di un elemento
originario, definito da Anassimandro “àpeiron”.
In
questo suo divenire l’universo assume la molteplicità delle sue
manifestazioni reali attraverso una continua generazione di opposti (il giorno
genera la notte, il freddo genera il caldo, ecc.) rivolgendosi infine alla causa
che determina il divenire della realtà.
Se
infatti l’àpeiron genera per opposizione gli elementi della realtà e nello
stesso tempo rimane l’elemento unificante del Tutto, che pur modificandosi
contiene sempre la sua essenza primordiale, si pone il problema di stabilire
quale è la causa che determina il processo di genesi cosmica.
Spetta
ad Eraclito esplicitare che, nel divenire per opposizione, tutte le cose, pur
nella loro diversità, sono raccolte in un’unità suprema dalla quale generano
in un continuo conflitto tra gli opposti.
Ed
è Pitagora che identifica quest’unità proprio nell’Uno numerico.
L’Uno
si identifica, secondo Parmenide, nell’Essere che si oppone al Nulla, e
quest’Uno è con la sua realtà diveniente il Tutto che non si genera e non
perisce: esso è indefinibile, semplice e puro.
Sostenere
che la realtà diviene ed appare in opposizione al nulla, è come dire che la
realtà ha origine dal nulla ed in quanto tale non è.
È
questa la grande sintesi filosofica espressa da Parmenide, il quale arriva così
a negare l’esistenza stessa della realtà.
Quello
che potrebbe sembrare il vicolo cieco da cui non può più uscire la filosofia
dopo Parmenide è invece proprio l’origine di tutta la concezione esistenziale
che guida ancora oggi il mondo occidentale.
Dalla
negazione della realtà diveniente i sofisti giungono alla negazione di ogni
verità, attraverso l’opposizione tra conoscenza ed esperienza.
È
Socrate a rivalutare il concetto di verità.
Partendo
dal negare di conoscere la verità, Socrate si pone nella posizione di colui che
ricerca la verità in tutte le cose possedendo solo l’Idea della Verità.
Il
Tutto può essere compreso ricercando il Concetto universale attraverso cui la
Verità si manifesta.
Il
Concetto non è né la conoscenza particolare né la realtà sensibile, ma quel
che vi è di identico in entrambe: una Verità universale ed immanente.
È
a questo punto della storia del pensiero filosofico che appare lo spartiacque
tra filosofia e religione.
L’esistenza
sensibile si genera in quanto partecipa all’Idea dell’Essere, ne è
l’immagine derivata.
Questo
concetto, approfondendo il pensiero socratico, viene esplicitato da Platone.
Ma
Platone sostiene anche che se tutto ciò che si genera può farlo solo in quanto
partecipa all’Idea dell’Essere, è però necessario che vi sia una Causa.
È
necessaria una Forza che determina la partecipazione del sensibile all’Idea. E
questa Forza deve necessariamente essere la sintesi della conoscenza del Tutto
al punto che può guidare in assoluta sapienza la generazione del sensibile.
Per
Platone questa somma sapienza riassume tutte le caratteristiche che definiscono
Dio (11).
Dio
fa generare il mondo sensibile mettendo ordine nello spazio caotico (che egli
chiama chòra) ed inintellegibile e l’Essere Generato contiene in sé l’Idea
dell’Ente Generante.
Ma
anche Platone non sfugge al mito dell’immortalità, (come avrebbe potuto,
d’altronde, essendo il filosofo dell’anima per eccellenza).
Se
infatti l’anima è la presenza della vita nel corpo materiale ed in quanto
tale, partecipando dell’Idea stessa della vita, è preesistente alla
generazione del corpo materiale e continua ad esistere anche dopo il
dissolvimento del corpo, essa è immortale.
L’uomo
che cerca la perfezione dunque non può che aspirare a lasciare l’esistenza
corporea (con la morte del corpo) sensibile e quindi fallace, per poter
partecipare dell’Intelligenza Suprema.
Con
Platone (siamo ormai nel terzo secolo a.C.) sono delineati i principi di base
del cristianesimo nei loro aspetti metafisici.
Dio
è al di fuori e al di sopra di tutte le cose, la sua Forza si manifesta nella
creazione (è l’alito che dà la vita!) ed il Cristo è la realtà diveniente
che contiene in sé il principio immanente (dio che si è fatto uomo a sua
immagine e somiglianza).
La
filosofia, infatti, è arrivata con Platone a spiegare l’universalità
dell’Essere, ma per spiegare la causa del mondo delle Idee deve ricorrere alla
metafisica teologica.
Ciò
che possiede la Suprema Intelligenza (Dio) infatti non è intelligibile dalla
mente dell’uomo se non dopo avere abbandonato con la morte il suo stato fisico
ed essere diventato anima immortale, ed essersi posta nelle condizioni di
contemplare la conoscenza totale rappresentata da dio.
Da
questo momento la speculazione filosofica, gradualmente, lascia il posto alla
metafisica teologica che porterà alla figura storica del Cristo, inizialmente
legata ancora (soprattutto con la forte connotazione manichea delle prime
comunità cristiane (12)) al
conflitto tra il male rappresentato dalla realtà diveniente e fallace della
vita terrena, ed il bene rappresentato dall’abbandono della vita terrena con
la conquista della immortalità dell’anima e la ricongiunzione con dio (è
significativa, a tal riguardo l’abiura del manicheismo che porta Agostino a
Roma e gli spiana la strada dei vertici ecclesiastici). (Vedi Agostino “Le Confessioni” e nota nr. 12).
Ed
è in questa estrema sintesi metafisica che si manifesta il limite stesso della
speculazione filosofica antica, che perdurerà fino alla svolta kantiana origine
del pensiero filosofico moderno.
Nella
storia dell’uomo occidentale lo sviluppo di questa metafisica ha segnato un
continuo distacco dalla realtà e dalla natura umana.
Dovranno
passare molti secoli, dopo Platone, perchè lo sviluppo della scienza riporti
l’uomo “sulla terra”; ed ancora oggi stiamo vivendo il conflitto di valori
sintomo di questo travagliato distacco dell’uomo dal mondo, con il bagaglio
pesante di miti, superstizioni e morali che lo hanno imprigionato in una gabbia
d’oro sospesa tra realtà ed immaginazione e che ha prodotto tutta la sublime
poesia dell’immaginario e tutto l’orrore delle “guerre sante”, non
importa se combattute con la spada o con il libro.
SVILUPPO E CRISI DELL’ETICA
UTILITARISTICA
L’uomo
arriva a rinunciare alla sua innata tendenza asociale per scopi utilitaristici,
come la ricerca della sicurezza o il vantaggio di soddisfare meglio i propri
bisogni materiali ed esistenziali.
In
fondo però, secondo le teorie utilitaristiche, in ognuno di noi rimane latente
lo spirito del randaggio razziatore che lo spinge a cercare, nel rapporto con
gli altri, il massimo vantaggio personale.
Perfino
le manifestazioni d’amore sono fatte risalire al principio d’egoismo, per
cui un individuo dà amore in quanto ha come aspettativa un maggiore ritorno
affettivo.
Queste
teorie presentano un vizio d’impostazione d’analisi.
Sono
infatti fondate sull’analisi degli effetti culturali che secoli di convivenza
impostata su sovrastrutture metafisiche (teologie, ordine sovrannaturale e
relativo normativismo comportamentale) hanno prodotto sui rapporti di relazione
interpersonale, facendoli passare come elementi di carattere insiti nella natura
umana.
Come
poteva infatti non svilupparsi in termini utilitaristici il rapporto tra gli
uomini se alla base della formazione etica c’era una relazione di causa-
effetto tra le azioni umane e le reazioni sovrannaturali?
In
altri termini: astenersi dal “peccare” nella storia dell’umanità non è
mai stata una norma fine a sé stessa ma uno strumento per ottenere il
“premio” e, per contro, “peccare” è equivalso a porsi nelle condizioni
di perdere quel vantaggio.
Una
metafisica basata su questi presupposti non poteva che consolidarsi in
un’etica utilitaristica in cui il ruolo normativo è stato assolto
progressivamente dalla violenza dell’individuo o gruppo dominante, dai codici
normativi ed infine dal controllo sociale praticato all’interno di una comunità
culturalmente omogeneizzata.
Già
con i pensatori romantici dell’ottocento, Hegel in particolare, le teorie
utilitaristiche erano state portate alle loro estreme conseguenze in virtù di
un’utilità più generale che, trascendendo l’individuo diventava utilità
dell’ordine costituito sociale e quindi politico, in cui, per soddisfare
l’esigenza di conservare il bene comune, veniva sacrificata completamente
l’utilità soggettiva, l’identità individuale.
Il
concetto di classe sociale di tipo marxista contiene in sé la stessa sintesi,
anche se ha un retroterra teorico del tutto differente che vede come punti
cardine i principi di giustizia e di eguaglianza.
Ma
se già nel secolo scorso l’utilitarismo aveva perso il suo ruolo centrale
nelle dottrine politiche e giuridiche, non si può certo dire che si sia
assistito al crollo di questa concezione sul piano più propriamente etico.
Le
società occidentali fino alla metà del XX° secolo erano prevalentemente
strutturate ancora in funzione dei soggetti attori della vita sociale che le
costituivano, istituzioni, gruppi primari o secondari che fossero (la Chiesa, la
famiglia, la razza, il quartiere urbano, ecc...) che davano all’individuo quel
forte senso di appartenenza che lo portava ad accettare le norme comportamentali
comuni, pena l’ostracismo morale e l’emarginazione.
Un
sistema etnocentrico sul piano sociale e culturale e formidabilmente
conservatore sul piano etico.
L’individuo
in quanto essere “normalmente” autonomo, nella morale comune, non era
proprio preso in considerazione.
Il
vero punto di rottura con il concetto di utilità si è progressivamente
manifestato mano a mano che è venuta crescendo la comunicazione globale,
realizzata sia tramite la diffusione di prodotti tecnologici, sia tramite la
globalizzazione della comunicazione linguistica, che, agendo sinergicamente,
punta alla realizzazione del cosiddetto “villaggio globale”.
Ad
esempio: in una comunità organizzata secondo un sistema produttivo che si
limita al soddisfacimento interno dei bisogni della stessa comunità, ogni
soggetto assolve ad un compito prestabilito e “conosciuto” che gli permette
di soddisfare sia il bisogno di procacciarsi i beni necessari alla sua vita
biologica e sociale, sia il bisogno di identificarsi con un organismo più
complesso che gli dà certezze sul piano normativo e metafisico (l’arrotino è
quel signore che passa ogni settimana con il suo strumento per molare forbici e
coltelli, puoi non conoscerne il nome ma riconosci a vista la sua funzione
sociale anche quando lo vedi fuori dai panni del suo mestiere ed egli stesso si
identifica nella sua funzione sociale).
Non
accettare le regole della comunità, in quel caso, significa perdere quei
vantaggi materiali e psicologici.
L’individuo
in sè non ha alcuna rilevanza; egli esiste in quanto ha una funzione sociale
riconosciuta ed eticamente accettata.
Ma
via via che le strutture sociali sono diventate più complesse, che il sistema
produttivo si è avviato verso la soddisfazione non più solo dei bisogni ma,
anche e soprattutto, dei gusti, che ha messo in relazione i consumi di massa con
il massimo profitto, che si è avviato verso la omologazione, arrivando a
trascendere addirittura i confini dei singoli Stati per diventare globale ed
autogenerantesi, non solo gli uomini hanno perduto ogni significativa funzione
individuale, ma le comunità stesse hanno smesso di avere un ruolo definito e
definibile in relazione a peculiari caratteristiche e funzioni per assumere il
ruolo di “Sistema Di Scambio”.
Le
relazioni tra gli uomini diventano così scambio di messaggi generati dal
sistema stesso; perde d’importanza addirittura il contenuto intrinseco dei
messaggi, perchè essi tendono a creare solo stati di propensione psichica
positiva verso il sistema globale.
Non
esiste più un soggetto emittente ed uno ricevente: ma solo soggetti emittenti.
Controllare
le reazioni di massa causate dall’impatto continuo di messaggi diventa il vero
Potere.
Pensare
oggi che possa comparire un Dittatore del Mondo ad immagine di Adolf Hitler è
pura rappresentazione iconografica dell’idea di Potere.
Il
Dittatore del Mondo, colui che ci ha tolto la libertà, intesa nei termini
dell’illuminismo liberale o del socialismo umanistico, è già tra noi, ed è
rappresentato dalla omologazione culturale creata dalla comunicazione globale.
Dovunque
questa dittatura prende il sopravvento scompaiono tutti i concetti di personalità
ed originalità culturale senza i quali l’uomo si sente solo e smarrito.
Stretti
in questo ingranaggio, non ha più senso seguire dei valori etici proprio perchè
l’etica stessa non ha più una funzione socializzante, non ha più, in tal
senso, un’utilità.
La
trasgressione non è più socialmente sanzionata perchè in effetti non vi è più
un riferimento etico definito.
Senza
più un riferimento etico di base e senza il corrispondente concetto di
trasgressione l’individuo perde la sua sensazione di appartenenza a
quell’organismo immanente che è l’umanità.
Certo
rimangono sempre quei valori-rifugio tradizionali quali la famiglia, il lavoro,
la vita di relazione, ma sono intimamente svuotati di una qualunque valenza
esistenziale che riesca a trascendere il tempo limitato della vita biologica
dell’individuo; i figli non vengono sentiti più come il prolungamento del
proprio Io, perchè è culturalmente svuotata l’eredità pedagogica che si
offre ai propri discendenti; il lavoro e la vita di relazione sono così
spersonalizzati e carichi di aggressività che vengono percepiti più come un
peso ed una minaccia che come veicolo di esternazione della personalità.
La
solitudine della Città Globale si esprime anche con l’intreccio continuo di
monologhi.
Provate
ad osservare due o più persone che incontrandosi casualmente intavolano una
conversazione iniziando con la classica frase “Ciao, come va?”, dopo pochi
secondi ognuno parlerà di sé stesso non badando minimamente né al contenuto
del dialogo degli altri, né alle reazioni al proprio discorso.
Chi
non ascolta non comunica e chi non comunica resta solo.
Il
monologo è la più evidente ed inutile manifestazione del bisogno di affermare
la propria individualità, che ognuno mette in atto in qualunque occasione
possibile, ma che gli lascia sempre intimamente e spesso inconsciamente un senso
di frustrazione e di solitudine.
Si
realizza così una sorta di fuga dalla realtà, in cui ognuno “parla” solo
con sé stesso, arrivando al punto di materializzare immaginariamente in un
altro Essere il “sé stesso interlocutore”.
Eppure
l’uomo, tramite la fisica ha scavato dentro e fuori la materia, dentro e fuori
l’ambiente terrestre, scoprendo miriadi di leggi che regolano lo spazio, il
tempo e l’energia.
Il
mondo sensibile ha dischiuso, tramite la scienza, molti dei suoi segreti
anfratti e l’uomo è penetrato in essi arricchendo in modo straordinario le
sue conoscenze sui meccanismi che regolano il mondo animato ed inanimato.
Tramite
la sociologia, la psicologia e l’antropologia è penetrato nel non meno
complesso mondo della psiche individuale e delle regole sociali, attività che
peraltro è ben lungi dall’essere arrivata ad una meta definitiva (nonostante
le sbrigative esequie, avanzate da alcuni teorici, che hanno più il sapore di
auspicio che non di analisi scientifica).
Alla
fine di qualunque teorizzazione dei fenomeni fisici o psicosociali rispunta
fuori il problema iniziale: quali sono la causa ed il fine dell’esistenza?
Per
quanto l’uomo si impegni a spiegare i processi fisici del mondo e la
fenomenologia delle attività umane, non è riuscito ancora a trovare la
soluzione a questo problema.
Egli
si perde in questa incessante ricerca condotta o “solo” dentro sé stesso o
in un’idea di realtà trascendentale, non fermandosi mai ad osservare il
momento della sua realtà presente e condivisa con gli altri individui.
Ed
è a questo punto che tutte le discipline riconsegnano la questione all’unica
in grado di poter tentare una soluzione: La Filosofia.
E
il cerchio si richiude su sè stesso.
Si
potrebbe obiettare che la religione ha già dato la soluzione al problema
dell’esistenza.
Nel
capitolo successivo tenteremo di dimostrare l’infondatezza di questa
obiezione.
LA TRASGRESSIONE ELEMENTO DI
CONTINUITA’
Nella
storia dell’uomo la fede, soprattutto nelle religioni giudaico-cristiane ed
islamiche è sempre stata uno strumento potentissimo di controllo sociale
abilmente manovrato da un’élite che ne ha fatto il più potente strumento di
azione politica mai superato, se non forse dalla violenza nazifascista o dalla
forza omologante delle due grandi potenze contrapposte, la roccaforte americana
del capitalismo e quella ex sovietica del nazionalismo comunista.
Ma
entrambe queste ultime due forze oggi devono fare i conti, caduti i reciproci
motivi di contrapposizione, con la politica della Chiesa cattolica e del
frammentato, popoloso e tormentato universo islamico.
Tramite
questo strumento è stato instaurato e mantenuto un potere pressocché assoluto
e millenario sulle società. Spacciando per doti morali la rinuncia, il
sacrificio ed il rispetto delle regole comportamentali dettate dalla teologia
dominante l’élite clericale ha imposto la sua morale solo a chi non aveva
nulla a cui rinunciare e nessuna alternativa oltre al sacrificio ed all’unica
etica che atavicamente ha sempre conosciuto (ricordiamo che in Italia fino al
1960 circa si sfiorava quasi il totale analfabetismo, strano anche solo a
pensarsi oggi che anche i bambini conoscono lingue straniere ed informatica, ma
molto significativo se pensiamo che questa era la realtà sociale di poco più
di trent’anni fa).
Questo
potere non è il frutto di una vuota sovrastruttura ma la sapiente intelligenza
delle debolezze umane, da una parte, ed a volte la reale volontà di dare
all’uomo una speranza a cui agganciare le sue sofferenze; in cambio, da
Bonifacio VIII° a Karol Wojtyla, si è chiesto sempre e “soltanto” che la
morale teocratica prevalesse sui valori e sulle istituzioni laiche, una sorta di
tutela fino alla maggiore età dell’umanità (il giorno del giudizio
universale).
La
morale religiosa, infatti, poggia su una concezione negativa della natura umana;
l’uomo, secondo questa concezione, gravato della sua colpa contro dio, perciò
ridotto in una condizione di assoluta inferiorità morale, deve essere guidato
al rispetto delle norme divine e represso in tutti i suoi comportamenti
trasgressivi.
Questa
funzione di repressione e di guida, nel corso della storia, è stata assunta
dall’alleanza, spesso fusione, tra l’istituzione religiosa e quella politica
assurte a potere costituito. In quasi tutti i paesi islamici é ancora così ed
in paesi come l’Italia, di fatto, il potere della chiesa cattolica é spesso
dominante sulle scelte dei governi, non solo sul piano etico.
Oggi
però è difficile, almeno nelle società occidentali, capire chi esercita la
funzione repressiva sul piano etico. La società contemporanea ha assunto forme
di tale complessità che spesso il potere politico non ha interesse a reprimere
trasgressioni formali perchè queste allontanano l’attenzione della gente dai
veri punti nodali del potere, anche se mantiene
sempre sotto controllo il limite di guardia della sovversione attraverso un
apparato repressivo che sia in grado di far rispettare le norme che garantiscono
la sopravvivenza del sistema.
Più
il gruppo sociale è di piccole dimensioni più l’apparato repressivo è
strutturato in forme semplici, agendo con maggiore efficacia il controllo
sociale attraverso cui i singoli individui sono portati ad integrarsi nel
gruppo; nelle società molto complesse, invece, l’apparato repressivo di norma
è più organizzato e fondato sulla forza, la coercizione fisica e la conoscenza
capillare di tutte le azioni e tendenze individuali realizzate tramite gli
organi di polizia, che però non hanno, per così dire, “competenza nelle zone
del potere reale” dove esistono altre regole ed altre etiche.
Nelle
società molto complesse, infatti, il controllo sociale è più blando e
latente; in esse la trasgressione è maggiormente tollerata per la necessità
che il sistema dominante ha di mantenere il controllo sulle attività politiche
e produttive; lascia quindi un certo margine di sfogo ai comportamenti di
trasgressione etica (ad esempio il consumo di droga e di sesso mercenario), che
quasi sempre aiutano a distogliere l’attenzione dai centri di controllo
politico ed economico.
Anzi
nei sistemi politici occidentali fu strumentalmente indirizzato verso consumi e
moda proprio il fenomeno della trasgressione, soprattutto giovanile, che negli
anni sessanta/settanta si era posto in una posizione di contestazione radicale
nei confronti del sistema politico e sociale. Il suo pericolo era rappresentato
dal fatto che stava assumendo, quali simboli connotativi, modelli e stili di
vita completamente anticonformistici (lo slogan di quei tempi era: “sesso,
droga e rock&roll”, motivi di vitalità che con il tempo e le deformazioni
culturali si sono ribaltati in nichilismo; drogarsi era inteso allora l’uso di
droghe leggere quali l’haschish e la marjuana e L.S.D. solo per alcuni gruppi,
più estremi e tardivi, ormai avviati verso le filosofie intimistiche e
individualistiche orientali). Ma sin dall’inizio si concentrò sul movimento
una campagna mondiale di aggressione mediatica e di vera repressione. Il
movimento fu fermato uccidendo la speranza nel futuro, con il favore della crisi
occupazionale che toglieva ai giovani l’alternativa tra la devianza e
l’integrazione conformista nel sistema sociale, verso la trasgressione
strutturata* (termine coniato da R.M. WILLIAMS Jr., in American Society, Knopf,
New York 1951). E il risultato fu ottenuto tramite la tolleranza dell’uso di
droghe pesanti ed il progressivo inserimento nella criminalità organizzata,
che, pur essendo un sistema di devianza sociale, non si poneva (e non si pone
tutt’oggi) come alternativa al sistema politico dominante, con il quale anzi
ha mantenuto un sempre più stretto rapporto di mutuo sostegno. Alla fine i
simboli della trasgressione quali jeans, capelli lunghi e musica rock divennero
solo moda.
Si
è tornati oggi al conformismo e conservatore nella maggioranza delle società
complesse, dove intanto si è man a mano sviluppato un sofisticato controllo
sociale basato sulle norme di comportamento etico-religioso che pur non
reprimendo (almeno nelle società occidentali) direttamente la maggior parte
delle trasgressioni dei singoli individui con provvedimenti di coercizione
fisica, mette in atto un meccanismo psicologico che funziona altrettanto
efficacemente, ai fini della repressione, attraverso l’emarginazione sociale
di individui e gruppi trasgressivi (principalmente nella sfera sessuale).
La
correlazione tra morale civile e norme religiose ha fatto sì che la moderna e
progressiva caduta del potere istituzionale e dei valori della religione hanno
lasciato un vuoto etico, conteso oggi, da una parte dal fondamentalismo
religioso e dall’altra dai valori ereditati dall’illuminismo laico e
massonico e dall’umanesimo cristiano e socialista.
La
laicizzazione dei valori socializzanti ha fatto in parte già crollare (non
senza resistenza) l’alleanza tra il potere religioso e quello politico; la
gente che comincia ad avere un maggiore senso critico della realtà, non delega
più, ad esempio, la condanna della corruzione, dello sfruttamento o della
violenza mafiosa alla “penalmente innocua” scomunica religiosa (per la verità
anche questa molto rara), ma chiede una maggiore trasparenza nella gestione
della vita politica ed economica ed una maggiore conoscenza dei meccanismi che
regolano politica ed economia stesse.
Naturalmente
questo processo di laicizzazione lungi dall’essere definitivo si sta attirando
addosso tutti i più potenti sistemi di dissuasione di cui è capace la chiesa
cattolica che non ha esitato un attimo ad abbandonare la nave del partito
perdente (la Democrazia Cristiana) per imbarcarsi su quello del cosiddetto
rinnovamento neofascista, facendo pesare tutto il suo potere di condizionamento
economico, politico e sociale. E dentro la Chiesa cattolica i movimenti più
progressisti sono ormai una minoranza usati solo per qualche operazione
mediatica in occasione di grandi raduni o di solenni celebrazioni. Sono più i
devoti di Woytila che tengono a bada quelli di
S. Francesco d’Assisi, ma tutto questo ha poco a che fare con la
teologia e molto di più con la politica, affinché tutto continui a cambiare
senza che nulla cambi veramente.
In
questi due modelli preconfezionati l’individuo deve adattare il suo modo di
vivere e di pensare al progetto di società che viene prefigurato in partenza e
attorno al quale si sviluppa un’intensa attività dialettica spacciata come
espressione della libertà di pensiero e di azione, ma che comunque deve
muoversi entro i lineamenti strutturali del modello da realizzare; chiunque
abbia osato mettere in discussione il modello cardine è stato sempre additato
come nemico dell’ordine sociale, dello Stato e del tipo di libertà funzionale
al modello sociale predominante.
Questo
tipo di sviluppo culturale ha imbrigliato l’uomo in schemi che hanno finito
per portare ad una spersonalizzazione dell’attività produttiva e sociale e ad
un progressivo allontanamento dalla politica come attivismo, facendo cadere la
tensione morale propria di ogni confronto democratico, inibendo la solidarietà
ed esasperando l’egoismo individualista.
Oggi
assistiamo al proliferare di tentativi di aggregazioni sociali attorno a valori
primari come la razza, la religione o più semplicemente entro gruppi in cui
ogni membro cerca di ritrovare una sua identità primaria. Ogni gruppo
costruisce codici di comportamento e di comunicazione interni necessari a creare
e mantenere in ogni membro un senso
di appartenenza, ma che finiscono per perpetuare l’annullamento
nell’individuo di ogni forma di pensiero originale e di azione autonoma.
Questo
processo innestato in un contesto culturale ancora fortemente radicato in una
ormai vuota matrice “utilitaristica” provoca la radicalizzazione delle
scelte di campo sprigionando tutta la sua carica aggressiva nel tentativo di
affermazione settaria, di contrapposizione e di esclusione, essendo mosso dalla
“fede nella giusta causa”, che deve essere solo una e contro tutte le altre;
ed assistiamo a fenomeni che pur non apparendo accomunati da nulla a prima vista
sono tuttavia mossi dalla medesima motivazione logica: il gruppo di naziskin che
bastona a morte un negro solo perchè è negro e la Chiesa cattolica che impone
nel mondo le sue istituzioni scolastiche e la sua morale operano la stessa
violenza sull’identità culturale di ogni singolo individuo, l’uno in nome
del “suo” odio l’altra in nome della “sua missione evangelica”.
Un’aggressività
che si esprime sempre più spesso con fenomeni di violenza individuale o di
massa, affiancata dallo sviluppo di micro-chiese, in cui ogni appartenente, per
piccolo o grande che sia il gruppo, cerca di affermare la “sua giusta fede in
un credo” escludendo e demonizzando, o peggio ancora, commiserando e
“perdonando” tutti gli altri, a meno che non abbraccino la “giusta
fede”.
In
questo contesto ha una sua logica l’ecumenismo della Chiesa Cattolica, che,
con la sua politica di finto rispetto delle culture locali, sta svolgendo la
funzione di battistrada al più radicale attacco integralista mai sferrato
dall’occidente industrializzato alle società ex comuniste ed a quelle dei
cosiddetti paesi in via di sviluppo. Integralismo meno cruento e drammatico ma
più sofisticato e penetrante di quello islamico.
Ponendosi
nel suo ruolo di portavoce “super partes” a livello diplomatico, la Chiesa
cattolica opera efficaci pressioni sui governi di questi Paesi assicurando che
l’umanitarismo che anima i sistemi capitalistici non potrà fare a meno di
garantire aiuti economici per sostenere lo sviluppo, il progresso e la libertà
in quei paesi; da parte sua “offre” in forma diretta l’assistenza per la
creazione e la conduzione di ospedali e scuole, ben sapendo quanto potere essa
può esercitare sulle persone con la strumentalizzazione della sofferenza (fin
troppo noto in psicoanalisi lo stato di sudditanza psicologica che assume il
paziente nei confronti del suo terapista) e con l’esercizio dell’educazione
sin dall’infanzia; la gente coglie l’effetto immediato di queste iniziative
umanitarie e non riesce a prefigurare l’effetto coercitivo che si manifesterà
nel tempo; d’altra parte chi ha paura, chi ha necessità di essere sfamato e
curato non ha certo la capacità di fare analisi sociologiche e quando ne sarà
diventato capace sarà ormai entrato a far parte del sistema tanto da non essere
più in grado di tornare a recuperare la propria identità culturale, potrà
forse criticarlo, adattarlo a condizioni ed esigenze particolari ma mai più
recuperare la propria matrice culturale originale, ed essendo ormai partecipe
del sistema tenderà a goderne i benefici ed a non perdere le occasioni che
vengono date in premio ai più “meritevoli”; diventerà quindi componente di
un gruppo e vedrà gli altri gruppi come estranei se non addirittura nemici
(appena il caso di citare il drammatico esempio del fratricidio dell’ex
Jugoslavia).
In
cambio del suo “aiuto” e della sua diplomazia, la Chiesa Cattolica chiede ai
Governi di imporre legislazioni coercitive che obblighino al rispetto delle
norme morali cattoliche assumendole come uniche norme valide e da accettare
acriticamente da tutti; su tale argomento appare molto interessante l’analisi
delle encicliche papali esposte da Paolo Flores d’Arcais nel saggio Etica
senza fede :
“...Il
papa polacco vuole rimettere in discussione la laicità dello Stato, cioè il
riconoscimento della libertà per tutte le religioni e per tutte le dottrine
agnostiche o atee. Questa tolleranza (giuridicamente riconosciuta, n.d.r.) che,
sola, assicura e garantisce i diritti dei diversi culti (e quelli dei non
credenti), rispetto alle possibili e reciproche pretese egemoniche.(...omissis,
n.d.r.). Ma proprio questo storico verdetto si intende rovesciare, senza il
quale roghi e guerre di religione non avrebbero avuto mai fine.”
E
in altra parte dello stesso saggio cita le parole del Cardinale Josef
Ratzinger:
“Non
si può derivare una piena neutralità dello Stato quanto ai valori. Lo Stato
deve riconoscere che una struttura di fondo di valori cristianamente fondati è
il presupposto della sua tenuta.”)(13).
Creandosi
un’etica di gruppo contrapposta all’etica degli altri gruppi tutti i
comportamenti “estranei” ed in definitiva tutti i “profani” sono
identificati come individui che seguono la via errata e che colpevolmente si
muovono sulla strada del peccato; per tale motivo tutti gli “altri” devono
essere redenti o emarginati.
È
facile capire, e vedere nella realtà, dove possa condurre una simile cultura, a
quali atrocità di violenza può arrivare e a quanta chiusura mentale possa
portare.
Recuperare
il senso della vita e della fratellanza nel proprio contesto sociale ed in
quello internazionale è l’unica via d’uscita alla crisi di valori che sta
vivendo oggi la nostra società e questo recupero non può che muoversi in un
contesto laico improntato sul pensiero critico, sulla tolleranza ed sulla
democrazia del sapere e del potere.
Ma
attorno a quali valori culturali occorre indirizzare la società affinchè si
possa imboccare la strada di un nuovo illuminismo e di un nuovo umanesimo?
E
con quali strumenti, se non con quelli della politica e della cultura?
Non
sarà facile affermare una nuova cultura umanistica, fondata sulla capacità di
ognuno di avere una visione critica della realtà, mantenendo allo stesso tempo
un atteggiamento di tolleranza e di solidarietà nei confronti dei propri
simili, a maggior ragione se diversi per cultura e tradizioni.
Ma
questa grande sfida può essere assunta se verrà concretizzata la coscienza che
i valori cristiani di amore, tolleranza e non violenza, da una parte e la libertà
del pensiero critico, dall’altra, non sono valori contrapposti che provengono
da un’astratta entità sovrannaturale, ma sono il bagaglio culturale acquisito
e maturato in molti secoli di storia dall’uomo contemporaneo e che ormai fanno
parte, in forma assolutamente laica, del nostro modo di essere, anche se questa
coscienza viene quotidianamente messa a repentaglio dalle dottrine metafisiche
di istituzioni politico-religiose delle varie chiese e fazioni ideologiche che
pretendono di imporre la loro “verità “ ed il loro “modello” in forma
esclusiva e totalizzante.
Ma
per fortuna questi minacciosi retaggi del passato, oggi, stanno, anche se
faticosamente, crollando e liberando gli uomini dai loro effluvi oppiacei; anche
se non c’è dubbio che questa transizione sta assumendo toni drammatici ed
ancora troppo spesso violenti.
Dobbiamo
ora prendere in esame un altro elemento connotativo della vita sociale
contemporanea: il problema della libertà.
L’esame
di questo elemento è fondamentale al fine di ricondurre ad unità la nostra
trattazione, ed avviare una riflessione sui nuovi valori umanistici che pur
essendo sempre presenti nella nostra società non riescono ancora ad affermarsi;
ed anche per introdurre una riflessione sulla politica come strumento sociale
primario per far avanzare la coscienza dei nuovi valori e fare di questi il
fondamento di un ordinamento etico e giuridico laico e libertario diverso da
quello attuale.
Ancora
una volta vogliamo rifarci alle tesi elaborate da Fromm in materia di libertà,
nelle quali ha analizzato finemente la psicologia dell’uomo moderno posto di
fronte alla sua individualità, con le grandi ansie e fobie che gli derivano
dall’essere oggi solitario protagonista della propria esistenza (15).
Fromm
ha analizzato la questione della libertà e della felicità dell’uomo
contemporaneo prendendo in esame per grandi linee la trasformazione sociale ed
economica dell’Europa dal Medio Evo alla Riforma, ed addentrandosi poi
immediatamente nell’esame psicoanalitico dell’uomo contemporaneo, tracciando
in modo esemplare i caratteri autoritari e quelli sottomessi, mettendoli in
relazione ad impulsi sadomasochistici ed incentrando tutta la sua analisi sulle
manifestazioni connotative dei due caratteri psicologici nell’azione
dell’uomo contemporaneo occidentale.
Purtuttavia
la vita dell’uomo, oggi si sviluppa prevalentemente in termini di
partecipazione politica (attiva o passiva che sia) e se è vero che spesso
avvenimenti politici svolgono un’azione di condizionamento psicologico di
massa, è vero a maggior ragione che l’analisi di Fromm va contestualizzata in
termini di azione politica.
L’uomo
contemporaneo, come abbiamo già in parte visto, poggia dunque il suo desiderio
di felicità (il bene) sulla mera rinuncia della realtà e lo fa spesso
acriticamente.
Egli
non può accettare l’idea, infatti, che la propria esistenza non sia
differibile oltre la propria vita corporea.
Abbracciando
i principi della teologia costruisce un universo di norme, cause e fini la cui
struttura, imponente, plurisecolare e potente, poggia però sulla non realtà;
il teorema è semplicemente dimostrato: “io credo nella trascendenza per fede.
Non so perchè ci credo, però questo mi dà certezze e sicurezza”.
Se
certezze e sicurezza sono quello a cui l’uomo aspira si può dire che
attraverso ciò che realizza queste condizioni, cioè la fede, l’uomo
raggiunge la felicità.
Deducendo
da tale tesi dovremmo dire che: visto che l’uomo da millenni ed in ogni parte
del mondo crede per fede alla vita ultraterrena miliardi di uomini da migliaia
di anni sono felici.
Se
così fosse avremmo il nostro bel da fare per spiegarci gli oceani di lacrime da
sempre pianti dall’umanità.
Certo
chi è mai riuscito a staccarsi a tal punto dalla sua esistenza reale per vivere
fino in fondo la fede?
Pochi
certamente, santi o santoni forse.
Quanti
comunque sono riusciti ad acquisire quelle particolari capacità di astrazione
totale dalla realtà; ma sarebbe fin troppo facile richiamare i principi
psicoanalitici dell’autosuggestione o quelli farmacologici delle sostanze
stupefacenti per confutare queste eccezioni.
Di
fatto l’uomo è da sempre alla ricerca della Vera Fede per raggiungere la Vera
Felicità.
È
evidente che queste verità assolute non le ha ancora trovate.
Ma
sarà poi vero che l’uomo cerca la felicità?
Non
sarà forse vero il contrario e cioè che l’uomo cerca la quiete?
La
felicità è infatti un’emozione forte, momentanea in quanto insita nel
divenire caotico della realtà.
Al
contrario lo stato di immortalità di cui sono peroratrici tutte le grandi
religioni è configurabile come una sorta di “regressus ad uterum”, la
quiete cioè che si trova con l’annullamento dell’essere: in definitiva la
morte.
Questa
concezione dell’esistenza umana, caratteristica delle complesse società
industrializzate, è dovuta, come diremo più avanti, al sistema di
organizzazione sociale che esse hanno sviluppato nel corso degli ultimi tre
secoli.
Non
era presente nella cultura greca del periodo classico, nè in quella romana del
periodo imperiale, nè, se non per limitati gruppi, in altre epoche storiche
nella cultura occidentale.
La
società contadina ha sempre avuto un rapporto con la propria esistenza
certamente religioso, ma di una religiosità naturale che tendeva a conciliare i
bisogni materiali con la paura della morte e del fato e fino ai nostri giorni ha
mantenuto viva questa concezione utilitaristica della fede, attraverso una
profonda frammistione di ortodossia e superstizione.
L’uomo
telematico di oggi, invece, è costretto dai ritmi produttivi ad organizzare la
propria esistenza quotidiana secondo schemi spazio-temporali estremamente rigidi
(in contraddizione con l’idea di mobilità e di libero scambio professate dai
liberisti!), scanditi non tanto dalle proprie aspirazioni quanto dai propri
bisogni reali o fittizi che siano.
Sin
dalla nascita viene abituato ad avere dei tempi biologici funzionali
all’organizzazione sociale. Già da neonato gli viene imposto un orario per
nutrirsi e per dormire che lo abitua ad avere stimoli fisiologici programmati.
Poi
cresce e viene abituato a convivere con gli altri bambini secondo schemi di
comportamento dettati da moduli pedagogici socializzanti standardizzati.
La
società prima con la famiglia e poi con la scuola tracciano per lui dei binari
da percorrere obbligatoriamente: quello che chiamiamo comunemente educazione è
più propriamente un determinismo culturale.
Poi
da grande entra nel mondo del lavoro e deve seguire schemi di comportamento non
trasgressivi rispetto al modello culturale della società in cui vive.
Entro
questi schemi scorre la maggior parte della sua vita assolvendo di volta in
volta al ruolo di lavoratore, coniuge, genitore, cittadino; poi lascia il mondo
del lavoro al finire della propria vita e trascorre ancora un lungo periodo
della propria esistenza nel ruolo del pensionato, improduttivo, assistito ed ai
margini della società, fino a quando il suo orologio si ferma senza che egli
abbia mai potuto decidere di accelerarne o rallentarne la corsa.
Questo
tipo di esistenza priva sempre di più l’uomo del contatto con la natura,
intesa non soltanto come un rapporto con il mondo vegetale e animale, ma
soprattutto con il suo essere biologico.
Il
suo ciclo biologico scorre parallelo al ciclo biologico del resto della natura
che lo circonda, ma mai in simbiosi con essa.
L’uomo
scientifico ha sviluppato una capacità eccezionale nel creare sistemi di
controllo e di modifica dei processi naturali; ma per quanto sia riuscito a
dominare la natura non è ancora riuscito a dar sfogo al suo bisogno di libertà,
anzi man a mano che il controllo sulla natura si è andato accrescendo ciò ha
prodotto un sempre maggiore deterioramento della qualità della vita sociale.
Il
progresso della scienza e della tecnologia, pur avendo dato all’uomo la
possibilità di accrescere la disponibilità di beni di consumo e strumenti di
potere, non è stato però capace di indirizzare le diverse civiltà verso una
cultura di solidarietà, diventando invece strumento di oppressione individuale
e di massa.
La
natura è stata sottomessa alle esigenze della produzione e del profitto, quelle
stesse che hanno costretto milioni di individui ad ammassarsi in giganteschi
alveari di cemento; le città si sono formate e gonfiate a dismisura non per
soddisfare il bisogno di convivenza sociale ma per permettere ad immense masse
di uomini di stare più vicino possibile al luogo di produzione.
Questo
frenetico correre verso il centro del gregge ha provocato degli inferni urbani
in cui “tutto” deve essere ordinato, programmato, controllato: l’ordine
globale è diventato la necessità primaria per la convivenza, dando vita a
modelli culturali sempre più centrati su di un asettico concetto di
organizzazione sociale e sempre meno sulla qualità umana degli individui.
La
natura sinonimo di libertà è stata sacrificata all’ordine sinonimo di
sicurezza.
Eppure
il bisogno di libertà resta, magari latente o soffocato, comunque presente
dentro ogni uomo.
Un
individuo può trovarsi rinchiuso in una prigione e sentirsi libero o al
contrario può sentirsi oppresso pur non essendo in una posizione di costrizione
fisica.
Questo
teorema introduce la riflessione sulla complessità del concetto di libertà.
Se
questo concetto viene calato in un astratto contesto di isolamento, cioè di un
individuo che teoricamente si trova al di fuori di qualunque organizzazione
sociale (prigioniero su un’isola deserta!) allora evidentemente il fatto di
non poter disporre della sua libertà di interrelazione sociale porta ad
affermare che egli è privo di libertà, perchè ciò è quello che egli
“sente”.
Ma
se a questa astrazione teorica aggiungiamo una possibilità, seppure
condizionata, di poter comunicare in qualche modo con gli altri individui il
concetto di libertà dovrà essere rimesso in discussione, poichè in questo
caso il fatto di non poter esercitare una libertà di movimento ambientale non
darà necessariamente la “sensazione” in assoluto di mancanza di libertà,
in quanto quest’ultima potrà essere riferita alla capacità di comunicazione
sociale.
Ribaltiamo
ora il nostro esempio ponendo l’individuo in una condizione di libertà da
costrizione fisica, lasciandolo ancora nella collocazione astratta di
“un’isola deserta”.
Se
quell’individuo per ipotesi non dovesse possedere un concetto di società e
conseguentemente di comunicazione egli si troverebbe in una condizione di
assoluta libertà, potendo gestire la propria esistenza senza alcuna costrizione
(i confini della sua isola sarebbero i confini del suo mondo).
Ma
per l’individuo che possiede la cognizione di società e di comunicazione ecco
che l’isola deserta diventa una prigione, seppur senza sbarre e senza catene.
Questi
esempi teorici porterebbero a definire il concetto di libertà come la
possibilità, in assenza di costrizioni ambientali, di comunicare liberamente
con altri individui in un contesto sociale, quella che comunemente viene
definita libertà di pensiero e di espressione.
Questa
è una delle condizioni comuni delle moderne democrazie occidentali.
Ma
nonostante tutto nella società occidentale democratica di oggi non è affatto
infrequente che un individuo con una normale vita di relazione sia tuttavia
afflitto da una “sensazione” di mancanza di libertà.
Possiamo
dire come sostengono le teorie politiche autoritarie che la democrazia non
garantisce la vera libertà?
O
forse dobbiamo chiederci se nelle società occidentali sia stata realizzata
veramente la democrazia?
Chiederci
cosa sia la democrazia?
O
meglio possiamo chiederci se non sia l’anarchia l’unico sistema che può
realmente garantire la libertà individuale? Come ben sappiamo, infatti la
democrazia non è la libertà da tutte le costrizioni, ma la volontaria rinuncia
ad alcune libertà individuali a garanzia della massima libertà possibile per
tutti.
Il
concetto classico di libertà, proveniente dalle teorie liberali, fa coincidere
la libertà individuale con la possibilità di libera espressione del proprio
pensiero, delle proprie idee politiche, morali e religiose.
Nelle
società strutturate in classi sociali nettamente separate, con norme etiche
rigide e con un forte controllo sociale, la libertà di pensiero, e la
conseguente possibilità di trasgressione, può costituire un concreto pericolo
per la supremazia del sistema dominante, che vede nel libero scambio dialettico
delle idee la possibilità che venga messo in discussione il proprio dominio.
È
a causa di ciò che in tali società viggono quasi sempre regimi totalitari che
tendono ad imporre la predominanza del pensiero politico e delle norme etiche
del ceto dominante, e, conseguentemente, a reprimere la libertà di espressione
e la trasgressione etica.
Oggi
però nel mondo cosiddetto occidentale il predominio dei ceti dominanti si basa
sulla detenzione dei sistemi di comunicazione di massa e sulla globalizzazione
dell’economia di mercato, dominata anch’essa da potenti lobbies
politico-finanziarie.
Questo
sistema tende ad omologare i gusti e le scelte di massa per creare una
propensione psicologica positiva verso l’insieme del sistema, in cui la libertà
individuale di pensiero e di espressione non mette assolutamente in pericolo la
struttura d’insieme del sistema, nemmeno quando questa si manifesta in forme
associative organizzate (partiti politici, organizzazioni sindacali, singoli
gruppi industriali o finanziari), arrivando addirittura al punto che se anche
un’intera nazione si pone in contestazione con il sistema globale dominante,
ciò può produrre dei punti di crisi localizzati senza peraltro intaccare nella
sostanza la stessa supremazia del sistema, figurarsi quindi se può produrre
effetto alcuno una posizione individuale di trasgressione.
Essa
si rivolge immediatamente contro il trasgressore stesso, collocandolo in una
posizione di emarginazione sociale più o meno estesa a seconda del ruolo
sociale che questi si trova a ricoprire.
È
il caso ad esempio su un piano addirittura internazionale, dell’ex Unione
Sovietica.
Questi
macrosistemi trasgressivi rispetto al sistema dominante sono stati fagocitati e
ridotti all’omologazione.
Oggi
sul piano internazionale rimane solo il mondo islamico a rappresentare, per
tutto il progresso democratico, una minaccia non solo per il sistema globale
dominante, il pensiero unico, l’omologazione culturale ed è per questo che si
sono concentrati tutti gli sforzi bellici ed “umanitari” del mondo
occidentale attorno a quei Paesi islamici che potrebbero assumere un ruolo
politico aggregante o che, a causa delle disperate condizioni socio-economiche,
costituiscono delle vere e proprie polveriere in grado di far esplodere il
potenziale politico islamico. Un tema che stiamo drammaticamente vivendo in
questo periodo.
In
un sistema così costituito assume un’enorme rilevanza la differenza tra il
“sentirsi libero” e “l’essere libero”.
Il
concetto di base è rappresentato dalla capacità di incidere attivamente nella
elaborazione ed attuazione delle scelte che determinano il ruolo che ogni
individuo ha nel contesto sociale in cui si trova ad operare.
Scelte
che hanno un’enorme rilevanza per le conseguenze che esse provocano sia nella
propria sfera individuale che in quella sociale, proprio perchè non è
possibile decontestualizzare l’esistenza individuale da quella della
collettività.
Il
problema è in quale forma e con quali strumenti sia possibile esercitare la
propria libertà individuale partecipativa.
Ma
il problema sta anche e soprattutto nell’armonizzare la concretezza della
partecipazione attiva sia con l’esercizio della libertà individuale nel
collettivo, sia con l’esigenza che ogni individuo ha di percepire la
“sensazione” di libertà, cioè creare l’armonia tra l’essere biologico
e l’essere sociale.
La
partecipazione attiva alle scelte collettive, che in una qualunque misura
influenzano la vita di un individuo nella società, infatti, serve a realizzare
“l’essere libero”. Ad avere cioè la capacità di autodeterminazione del
proprio ruolo nella società, partecipare alla scelta delle regole sociali e
partecipare alla scelta degli strumenti necessari affinchè si realizzi il
rispetto di queste regole, evitando che gli strumenti stessi, impersonali di per
sè, divengano mezzo di sopraffazione della personalità, disumanizzandosi, nel
nome di un generico “interesse collettivo”.
È
quello che rientra nella sfera della Politica.
Ma
in questa sfera si confrontano e si scontrano interessi spesso contrastanti e la
partecipazione individuale alla vita politica, seppur nella migliore delle
democrazie, diventa scelta di campo e conflitto sociale, quella che nella
terminologia marxista viene definita “lotta di classe”, e che oggi, in una
società ineluttabilmente pluralista, possiamo invece definire “antagonismo
sociale”.
E
poichè le trasformazioni continue della società rendono utopistiche e neanche
auspicabili stratificazioni definitive del ceto dominante, si determina una
perpetuazione dello stato di conflittualità sociale, facendo apparire
irrangiungibile, a livello individuale, la “sensazione” di libertà, perchè
oggi la libertà non è solo partecipazione democratica nelle scelte di politica
economica o nella tutela dei diritti civili. Ma è di più, è libertà dalla
paura del domani.
Ci
sembra altresì pertinente a questo punto porci la domanda se l’uomo,
nell’attuale contesto culturale, sia portato a cercare veramente la libertà o
se invece non preferisca adagiarsi in una sorta di “dolce schiavitù”.
Se
infatti si intende la libertà come partecipazione alla vita sociale attiva ne
deriva che essa impone delle scelte di campo, delle assunzioni di responsabilità
e quindi la partecipazione individuale nello scontro di interessi contrapposti.
Non
c’è alcun dubbio che la storia è ricca di avvenimenti che hanno visto
individui ed anche gruppi sublimare le proprie idee fino al sommo sacrificio
della vita in nome degli ideali di libertà; interi popoli hanno scelto spesso
di lottare fino all’estremo per tali ideali, ma rimane pur sempre il fatto che
tutti gli avvenimenti della storia delle lotte per la libertà hanno sempre
avuto inizio dall’impeto di singoli o di piccole avanguardie e che queste
lotte hanno visto l’alternarsi di fiammate ideali con lunghi periodi di
assuefazione collettiva alle condizioni di subordinazione.
Nel
quotidiano poi appaiono estremamente rari, e quasi sempre in forma individuale o
di piccole minoranze, gli atteggiamenti di rifiuto alla sottomissione.
La
maggioranza degli uomini è spinta a scegliere la normale sopravvivenza
silenziosa, privilegiando più una visione materialistica dell’esistenza che
non gli ideali di libertà e dignità individuale.
È
più facile insomma che le masse insorgano perchè manca il pane (o la domenica
sportiva) anzicchè per la mancanza di libertà di espressione e di
partecipazione o perchè privati degli strumenti idonei per l’analisi critica
della realtà.
Ed
anche tra i singoli individui è più facile trovare chi sceglie di essere un
gregario.
Anche
se inserito in gruppi di contestazione pacifica o violenta al sistema politico e
sociale, l’individuo sceglierà sempre di affidarsi ad un capo, quasi mai
opererà con la più faticosa ma certo più nobile autonomia soggettiva.
E
ciò è evidente nel comportamento degli individui che vivono nella società del
cosiddetto “Villagio Globale” dove il condizionamento sociale, operato dai
gruppi dominanti, è così forte che (nonostante l’estremo grado di
alienazione e forse proprio a causa di esso) provoca una continua fuga dal
sociale e dal politico ed un sempre maggiore “ritorno al privato”, con tutti
gli stati di frustrazione conseguenti.
Il
ritorno al privato, che spesso si manifesta anche con il rifugiarsi in
esperienze religiose o misteriche, non sembra affatto essere provocato dalla
crisi dei valori ideali (chi sostiene questa tesi, tralasciando di inquadrare
storicamente la sua analisi e l’alternarsi di periodi di razionalismo
materialista a periodi di idealismo che caratterizzano la nostra società, dà
l’impressione di operare più sul piano demagogico che su quello scientifico).
Questo
fenomeno si inquadra meglio in un contesto di travaglio evolutivo, di
adattamento antropologico dei singoli individui al mutamento delle
sovrastrutture politiche ed economiche, che non nella caduta di istanze
ideologiche, che sono invece oggi ancora fortemente presenti, anche se in questo
periodo di trasformazione culturale non si manifestano
con forme identificabili con categorie tradizionali. Come accade per i singoli
individui, sembra che anche i gruppi sociali riescano a sopportare solo per
brevi periodi di tempo lo stress che le forti tensioni ideali produce. Le società
occidentali industrializzate stanno vivendo un periodo di transizione culturale
con il conseguente senso di smarrimento ed il temporaneo rifugiarsi in un
egoismo materialista, dopo aver attraversato, appena un paio di decenni fa, un
periodo di grande esaltazione ideale e di senso utopico, che oggi si ripresenta
sotto altra forma con la galassia dei movimenti cosiddetti “no global”.
Può
sembrare strano e contraddittorio ma proprio il malessere sociale che si
manifesta con frequenza e in forme diverse, quel malessere che denuncia uno
stato diffuso di ansia e depressione, con picchi di violenza ed autoviolenza
spesso inauditi, sono un segno di vitalità di una società in trasformazione,
una trasformazione veloce, profonda e definitiva. In questo contesto culturale
se da un lato possiamo dire che la maggioranza gli individui rinuncia volentieri
alla libertà (sempre problematica) e sceglie, parafrasando Eric Fromm (“Fuga
dalla libertà”) una “fuga dalla realtà” che sente di non saper più
interpretare appropriandosi dei ritmi e dei codici di cambiamento, dall’altro
è il più evidente segno di come questa società (la società, come diremo più
avanti, è un organismo indipendente dai singoli individui che la compongono)
vuole vivere: solo nel cambiamento si manifesta la vita. Un organismo che smette
di accettare il cambiamento si avvia alla morte. Sinceramente non ci sembra che
questo sia il caso della nostra società.
Altro
discorso è interrogarsi su che tipo di cambiamento sia in corso.
A
questa domanda non crediamo ci sia una risposta unica e definitiva, ma le
risposte si possono cercare indagando con una metodologia di ricerca che assuma
l’uomo e la società nei loro complessi fisiologici, psicologici e relazionali
(teoria olistica): insomma con un’antropologia biologica. Questa metodologia
indaga un complesso di strutture, funzioni e codici comunicativi di tipo non
lineare, in cui ogni elemento interagisce con gli altri in un continuo passaggio
da uno stato di ordine ad uno di caos. L’informazione che se ne trae è sempre
tendente agli scopi che si intendono raggiungere, ma è sempre
contemporaneamente un punto di arrivo e di partenza per interpretare la realtà.
Oggi
abbiamo moltissima gente che usa la tecnologia senza avere una coscienza
scientifica della realtà, possiamo vedere una persona che usa il telefono
cellulare magari per parlare con il mago o il cartomante ciarlatano di turno.
Quell’oggetto che egli ha in mano non è un prodotto della sua consapevole
cultura ma un oggetto di consumo, prodotto da un’élite che detiene la
conoscenza. La diffusione della cultura scientifica è uno strumento potente ed
indispensabile per avanzare nella propria emancipazione culturale. La diffusione
democratica della conoscenza è ogni giorno un passo avanti nella conquista
della propria libertà.
Ma
i grandi sistemi sono composti da sistemi sempre più piccoli, spesso invisibili
o almeno poco appariscenti.
PARTE
SECONDA
LO SPAZIO ANTROPOLOGICO
L’UOMO E’ LA SUA CULTURA
Se
ci fermiamo all’aspetto esteriore, la risposta potrebbe essere: nulla. Ma se
analizziamo tutto ciò, scendendo un poco nel particolare, possiamo trovare
almeno un elemento che li accomuna: sono tutti organismi strutturati.
Il
livello di strutturazione poi evidenzia un altro elemento assimilante: la
complessità.
L’uomo
in particolare assume in sè il massimo di complessità che possiamo cercare in
un organismo strutturato, perchè nell’uomo, oltre alla complessità della sua natura biologica, troviamo quella della
personalità.
La
comprensione dei meccanismi che regolano la struttura ci dà una certa capacità
di gestire funzionalmente tali meccanismi.
Certo,
nella società occidentale contemporanea, il grado di complessità
dell’organizzazione sociale, unito alla velocità con cui vengono scambiate le
informazioni che modificano continuamente la stessa organizzazione, pone seri
problemi alla nostra capacità di comprensione e gestione di questi meccanismi,
con effetti sulla personalità e sul comportamento individuale e di gruppo
spesso caratterizzati da senso di impotenza e di angoscia.
Ma
queste dinamiche non è possibile nè arrestarle nè rallentarle, meglio allora
tentare di comprenderle.
L’inadueguatezza
dell’attuale sistema di valori filosofici, morali e politici è fonte di
questi sentimenti di smarrimento. Si crea una nuova contrapposizione sociale tra
coloro che hanno e governano l’informazione e coloro che la subiscono reagendo
con nuove forme di irrazionalità e di violenza. E’ possibile invertire questa
tendenza?
Partendo
dall’osservazione delle strutture sociali più semplici, forse, riusciamo a
capire che qualche risultato lo si può raggiungere, evitando comunque la
tentazione verso le più comode scorciatoie e semplificazioni. Possiamo
soprattutto capire la naturale integrazione tra gli elementi biologici e quelli
culturali nel comportamento dell’uomo, sia a livello individuale che sociale.
Capire che non rispondiamo solo alla natura dei nostri istinti, anzi abbiamo la
capacità di cambiarla questa natura.
L’antropologo
Alexander Alland Jr. nel suo studio sugli Abron della Costa d’Avorio e dei
Semai della Malacca (16) ci
descrive un complesso di norme comportamentali caratteristico di quelle
popolazioni che riescono a contenere in misura estremamente bassa le
manifestazioni di aggressività tra i membri dei loro villaggi e tra essi e le
popolazioni limitrofe.
L’obiettivo
di Alland è quello di dimostrare che l’aggressività non è affatto un
elemento incontenibile del comportamento umano, che essa non viene imposta da
inesorabili leggi scritte nel nostro patrimonio genetico ma, al contrario,
ancorchè istintiva, l’aggressività umana risponde in maniera notevole ai
condizionamenti ambientali e viene di norma sublimata in comportamenti
ritualizzati e quindi gestita culturalmente.
Lo
studio di Alland ci offre un importante punto di osservazione su come
fondamentali bisogni economici ed esigenze di appagamento emotivo vengono fatti
corrispondere a particolari forme strutturali della società, dei rapporti di
produzione e dello spazio fisico.
Conosciamo
dagli studi di etologia l’importanza della territorialità fra gli animali e
sappiamo che anche l’uomo risponde a questa esigenza. Ma sono proprio gli
studi di etologia comparati a quelli di antropologia che ci evidenziano il
radicale distacco dell’uomo dagli istinti elementari degli altri animali,
anche dei primati.
La
caratteristica dell’animale umano è la capacità di strutturare l’ambiente
in cui vive per renderlo funzionale non solo ai propri bisogni materiali, ma
anche alle proprie esigenze emotive. Cioè l’uomo organizza lo spazio in cui
vive, gli affida delle funzioni simboliche e normative per mantenere la sua
struttura organizzativa. E questa attività non è mai statica, ma è in
continua evoluzione per gli stimoli che le strutture organizzative hanno
dall’esterno e per le spinte destrutturative che subiscono dall’interno.
Torniamo
all’esempio degli Abron studiati da Alland. Questa popolazione di circa 10.000
individui alla fine del XVII secolo si trovò a scegliere se sottostare alla
supremazia politica della Confederazione Ashanti, combatterla o abbandonare il
proprio territorio. La maggior parte della popolazione Abron, che vive oggi al
confine tra il Ghana e la Costa d’Avorio, è figlia di quelli che preferirono
spostarsi dal proprio territorio d’origine migrando verso ovest, dove
pacificamente occupò una parte di territorio popolato dai Kolongo. Lì si
stabilirono portandosi dietro non solo la propria struttura sociale ma
ovviamente anche quella produttiva. Per gli Abron infatti, che erano
coltivatori, la proprietà della terra non era un fatto consueto, si limitavano
a sfruttare le risorse che riuscivano a procurarsi con la coltivazione di un
particolare tipo di patata, lo yam.
La
struttura sociale basata su una discendenza matrilinea, vedeva gli uomini e le
donne occupare spazi abitativi differenti all’interno del villaggio. Anche
dopo il matrimonio, le donne rimanevano nella casa della madre o della zia
materna e gli uomini nella casa del padre o dello zio materno; anche le
successioni di eredità erano organizzate in funzione dei rapporti di parentela
con la madre e non con il padre.
Qui
assistiamo ad una prima importante strutturazione dello spazio in funzione
culturale.
La
divisione dei due sessi in abitazioni separate dava la possibilità di contenere
al massimo i conflitti insorgenti per cause sessuali, ma anche la norma di
successione della proprietà, prerogativa della donna, aveva una funzione
conservativa della struttura sociale. Il concetto di proprietà ed il concetto
di riproduzione e conservazione erano intimamente correlati.
Il
secondo aspetto importante per la comprensione della struttura sociale Abron è
quello relativo all’educazione dei bambini. Abbiamo già detto della loro
attitudine ad inibire i comportamenti aggressivi attraverso delle norme
comportamentali appropriate imposte sin dai primi mesi di vita, attraverso
sanzioni anche di tipo violento, seppure espresse più attraverso una violenza
di tipo verbale piuttosto che fisica.
All’età
di poco più di un anno i bambini venivano bruscamente svezzati (le madri
usavano intingere i capezzoli con del pepe per rendere sgradevole
l’allattamento e facilitare un’alimentazione diversa).
I
comportamenti aggressivi che venivano repressi sin da bambini però avevano uno
sfogo simbolico che riusciva a bilanciare i bisogni emotivi che rimanevano
latenti con il passaggio dall’infanzia all’età adulta. E’ in conseguenza
del trauma emotivo dovuto al brusco svezzamento, secondo Alland, che nella
cultura Abron avevano un ruolo le streghe. Queste figure, a metà strada tra il
mondo reale e quello soprannaturale, di natura sempre malvagia, colpivano sempre
e soltanto gli appartenenti ai propri nuclei familiari. Particolari pratiche
magiche avevano il compito di scoprire l’esistenza delle streghe (quasi sempre
dopo la loro morte) e di infliggere loro una punizione per i danni che avevano
provocato. Questa pratica magica era una forma di proiezione dell’aggressività
frustrata che gli Abron subivano sin da bambini. Il risultato era comunque che
tra i componenti del villaggio l’aggressività non veniva concretizzata in
comportamenti violenti, e questo consentiva una conservazione della struttura
sociale molto efficace.
La
separazione delle abitazioni tra maschi e femmine, l’invenzione della figura
delle streghe e le norme di successione ereditaria degli Abron sono un magnifico
esempio di come l’uomo riesce a conciliare le proprie esigenze materiali e
quelle psichiche al fine di creare e conservare una efficace struttura sociale.
Altro
tipo di organizzazione sociale, fondata sulla non violenza e sull’inibizione
dell’aggressività è quella descritta da Alland, che riporta uno studio
compiuto da Robert Dentan nel suo soggiorno di più di un anno tra i Semai della
Malacca (17).
A
differenza degli Abron, i Semai adottano una forma di educazione dei bambini
alla non violenza non con la repressione dei comportamenti aggressivi, ma con
una sorta di esempio comportamentale. La regola generale è la permessività e
la trasgressione viene redarguita attraverso una trasmissione psicologica del
panico che gli adulti provano quando vengono esposti alla violenza dei fenomeni
naturali, di quelli ritenuti sovrannaturali o comunque sconosciuti (sono molti
diffidenti versi gli stranieri). I bambini non vengono mai puniti fisicamente ma
vengono indotti a temere la trasgressione delle norme di comportamento.
Quest’atteggiamento
non violento viene indirizzato anche verso gli animali. “I Semai parlano e
fischiano agli uccelli domestici e gli si affezionano. Si comportano con affetto
ancora maggiore con i cuccioli dei quadrupedi, adottano piccoli animali con la
stessa premura con cui adottano bambini, gli sono affezionati come ai bambini,
si rivolgono loro chiamandoli “figli”, danno loro dei nomi e arrivano
persino ad allattarli... I cuccioli sono venduti raramente, e non vengono mai
mangiati.” (The Semai, op. cit., pag. 34).
Da
questi esempi di comportamento non aggressivo si trae un modello molto
importante per capire che, conoscendo gli elementi che regolano la vita
individuale e sociale degli uomini, non riferibili al solo patrimonio genetico
ma alla loro complessa propensione e capacità di elaborazione culturale, nelle
relazioni interpersonali quanto in quelle con la natura e lo spazio fisico e
psicologico, si può governare coscientemente la propria esistenza.
Otto
agnellini nati dalla clonazione di cellule di una pecora adulta. Un essere che
nasce e si sviluppa clonando una propria cellula, cioè replicando sè stesso.
Questo
è il tema che ha reso incandescente il dibattito scientifico, ma ancora di più
quello etico, degli ultimi anni.
Se
il problema si limitasse solo agli agnelli tutto assumerebbe un tono meno
drammatico, tant’è che l’ipotesi paventata da molti invece è quella della
clonazione di un essere umano, richiamando alla mente infauste teorie di
eugenetica.
Dal
punto di vista pratico scientifico ci basti sapere che la cosa, seppure con
immense difficoltà e grandi possibilità di insuccesso, è ormai tecnicamente
realizzabile, non ci dilungheremo quindi su questi aspetti. Ci sembra più
interessante cercare di capire quali sono le motivazioni di fondo del clamore
che una notizia come quella del risultato conseguito dal biologo di Edinburgo
Ian Wilmut, del Roslin Institut, ha suscitato.
Che
la riproduzione di un individuo da una propria cellula dia vita ad un individuo
identico al primo è cosa per nulla dimostrata. Sostiene Marcello Buiatti,
genetista di fama internazionale, docente all’Università di Firenze: “...I
gemelli sono individui che hanno lo stesso patrimonio genetico, ma dal momento
in cui vengono al mondo, hanno immediatamente storie che si differenziano e che
li differenziano...”.
Ancora
più importante ci sembra la riflessione del prof. Maurizio Mori, bioetico, alla
domanda circa i rischi sul processo evolutivo intaccato dalla clonazione: “...
Prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo farcene altre. E cioè:
l’evoluzione è finalizzata a qualcosa, ha o non ha una sua direzione? È
giusto che l’uomo gliene conferisca una a favore di sè stesso o degli altri
animali? Una volta stabilito questo, non si può comunque pensare che qualsiasi
intervento nella natura sia comunque negativo. Faremmo come quei medici
dell’800 che si scagliavano contro i vaccini dicendo che avrebbero distrutto
l’umanità e la natura. L’uomo interviene già sui processi evolutivi. A
volte lo fa estinguendo specie preziose per l’equilibrio ecologico, altre
volte annientando dei suoi nemici mortali come l’agente infettivo del vaiolo.
O come, domani speriamo, quello dell’AIDS senza che si provi rimpianto...”.
Da
sempre la scienza è stata amata ed odiata per i benefici e per i pericoli che
da essa provengono. Sia gli uni che gli altri sono sotto gli occhi di tutti, così
come sotto gli occhi di tutti sta l’atteggiamento da “Santa Inquisizione”
che gli ambienti più conservatori della società non finiscono mai di adottare.
È forse la possibilità dell’uomo di decidere del proprio destino che
scandalizza oggi, tanto da richiedere il sacrificio degli agnelli di Wilmut,
sull’altare del terrore?
Il
comportamento dell’uomo, seppur condizionato dal bagaglio genetico (genotipo)
è il risultato di una serie di condizioni ambientali e culturali (fenotipo) e
la variazione anche modesta di queste condizioni cambia immediatamente il
risultato comportamentale, cioè è un’altra storia individuale, un’altra
vita. Questo è un fatto!
Se
ci sia una direzione evolutiva che la natura segue o se essa non segua piuttosto
un processo casuale per ora non sappiamo. Propendiamo per la seconda ipotesi,
per quanto se ne sa.
Quello
che è certo è che etica e morale seguono una strada assolutamente rigida ed
arroccata a categorie che vengono date per acquisite da secoli senza pensare che
oltre ai mutamenti di conoscenza scientifica vi sono anche i mutamenti
psicologici che l’uomo sviluppa proprio in stretta relazione con i progressi
della conoscenza. L’uomo cambia scoprendo!
Alle
soglie del terzo millennio dell’era cristiana e dopo un milione e mezzo di
anni dell’era umana non ci si è posti ancora il problema di concedere la
possibilità all’uomo di adottare categorie etiche che facciano prevalere
l’essenza di quello che veramente unico vi è nell’individuo: il proprio
vissuto emozionale ed intellettivo.
Noi
siamo legati indissolubilmente a quelle che sono le esperienze della nostra
esistenza individuale, da queste traiamo il modo di pensare, agire e tutto il
bagaglio dei nostri sentimenti.
Che
l’individuo nasca in modo tradizionale, secondo il determinismo biologico
imposto dall’evoluzione, o che sia il frutto di un intervento umano su questo
determinismo, quello che troverà nella sua esperienza di vita lo segnerà in
maniera unica e determinante.
Potrà
vivere in un ambiente naturale che gli garantisce salute e soddisfacimento dei
bisogni materiali, oppure in uno che gli provochi malattie e miseria. Ed il suo
modo di pensare, sentire ed agire sarà plasmato da queste condizioni.
La
scienza potrà consentire all’uomo di vincere i danni che il passato gli ha
consegnato, fargli vincere la sfida contro gli elementi naturali che lo
condannano all’estinzione, farlo proiettare verso altri ambienti fuori dal
piccolo pianeta su cui è nato, oppure egli potrà seguire le paure di chi vede
sfaldarsi obsolete strutture metafisiche sotto i colpi del progresso scientifico
e teme di perdere i privilegi che queste fin’ora hanno concesso a pochi
“eletti”.
Queste
riflessioni danno una luce diversa agli scudi levati nella nuova crociata contro
la scienza. Se spostiamo la nostra attenzione, per un attimo, dal particolare al
generale lo scenario che se ne ricava ci sembra abbastanza eloquente: in tutto
l’Occidente (negli altri Paesi non c’è bisogno!), da alcuni anni si sta
portando avanti una campagna di terrore che ha il sapore della tristemente
famosa Inquisizione seicentesca. Siccome
non si possono più mettere al rogo le persone si cerca di creare sgomento
davanti ai risultati del progresso scientifico, creando nell’immaginario
collettivo l’idea di mostri orribili mezzo uomo e mezzo bestia o mezzo uomo e
mezzo macchina. Tutto questo mentre non crea nessuno scandalo il fatto che ormai
ad ogni angolo di strada si offre alla gente lo spettacolo del miracolo “fai
da te”, decine di madonnine in lacrime, sanguinanti e miracolose, o
addirittura, gadgets allegati a noti quotidiani nazionali che spacciando la
fantascienza per scienza, presentano ai bambini, tra un fumetto e l’altro,
ipotesi di evoluzioni biologiche mostruose; nè si fa tanto clamore sulla
proliferazione di armamenti terrificanti e sempre più sofisticati, prodotti in
tutto l’Occidente, Italia compresa, o sulla persistenza della pena di morte in
molti paesi anche occidentali (vedi Stati Uniti), o sul ricorso scellerato al
finanziamento e alla fornitura di armi a regimi e gruppi terroristici che poi
sfuggono al controllo e si rivoltano contro i loro “benefattori”.
Questo
ci deve allarmare, perchè sembra che questo scandalo nasconda, più che le vere
preoccupazioni (che pure occorre considerare sempre circa l’uso possibile di
scoperte scientifiche), il tentativo di far passare il principio che qualcuno
abbia un’autorità morale unica ed indiscutibile cui si devono conformare i
comportamenti umani, imbrigliando i cervelli nelle reti di legislazioni varate
sull’onda emotiva. Altra cosa ripetiamo è il problema dell’uso possibile
delle scoperte scientifiche e della loro mercificazione (vedi la brevettazione
delle scoperte genetiche).
L’uomo
tra mille, centomila o un milione di anni forse non esisterà più, o forse sarà
riuscito a “indirizzare la propria evoluzione” verso una forma che gli
consentirà di vincere le radiazioni atomiche o ultraviolette, le epidemie, la
fame, la sete, ecc., e questo non per presunzione di onnipotenza divina, ma solo
per volontà di sopravvivenza. E’ il momento di rendere democratica la
conoscenza scientifica affinchè tutti possano formarsi una coscienza proiettata
verso un futuro in cui l’intelligenza e non il dogma guidi le scelte
individuali; affinchè la prudenza non sia paura e l’uomo non sia considerato,
antiteticamente solo frutto della biologia o creatura divina, ma intelligenza
creativa di un ambiente che cambia, anche in conseguenza della sua azione. Per
questo la scienza non ha bisogno di gabbie ma di pareti di cristallo, attraverso
cui poter osservare l’azione umana in questo processo coevolutivo non solo
delle tecniche di riproduzione della specie ma soprattutto della funzione
di autoconservazione della struttura sociale.
Da
sempre il sesso è stato per l’uomo, oltre che il mezzo per riprodursi, un
potente strumento di socializzazione. L’istinto alla riproduzione,
fisiologicamente associato al piacere che accompagna l’atto sessuale, in tutte
le epoche ed in tutte le civiltà ha prodotto innumerevoli rituali e strumenti
espressivi sempre più complessi e simbolici. Questa sublimazione dell’istinto
sessuale, quando è finalizzata ad incentivare e favorire la procreazione ruota
attorno al corpo fisico, reale ed in primo luogo al corpo femminile, seguendo
uno sviluppo culturale che, praticamente in tutte le civiltà, ha assimilato il
corpo femminile ad uno strumento di procreazione, un mezzo di produzione della
vita ad uso del maschio.
La
predominanza del maschio nella gestione degli strumenti necessari al
procacciamento dei beni di sostentamento della famiglia ha inglobato,
oggettivandone la funzione “riproduttrice”, anche la donna.
Nei
capitoli successivi richiameremo un concetto di Henry Laborit riferito al
distacco della struttura sociale, presa come soggetto autonomo rispetto ai
singoli individui che la compongono, dalla funzione della riproduzione sessuata
propria dell’individuo. Appare ovvio che questa propensione della struttura
sociale alla preservazione di sè stessa, a prescindere dalla riproduzione
sessuata, non deve essere letta come una negazione della sessualità quale
strumento di autoconservazione della struttura sociale, bensì come una
traslazione di questa funzione dal livello dell’atto sessuale concreto al
livello della sublimazione simbolica della sessualità.
L’atto
sessuale è vissuto in funzione quasi esclusivamente riproduttiva
nelle società con una struttura organizzativa poco complessa, le
cosiddette società primitive (definite più o meno primitive proprio in
relazione al grado di complessità e degli strumenti sia tecnologici che
simbolici che esprimono questa complessità), nelle quali i rituali sessuali
sono elaborati e messi in atto per consentire il controllo della procreazione,
spesso attraverso un sistema di rigide norme etiche e di tabù.
Nelle
società ad alto tasso di complessità strutturale quei rituali, ancorchè
regredire, diventano invece più complessi ed astratti, spostando anche
l’obiettivo delle proprie finalità dalla riproduzione della specie alla
conservazione della struttura sociale.
Nella
società occidentale il grado di complessità è così elevato che i mezzi di
comunicazione rappresentano sempre più non solo uno strumento per scambiare
informazione, ma “territorio” stesso della comunicazione in cui ogni
individuo si muove recependo ed inviando messaggi che concorrono a creare un
mondo autonomo in cui ci si può muovere ed interagire in una dimensione
virtuale.
Nell’ambito
della sessualità questo mondo virtuale, oltre ad essere vissuto come più
sicuro, non solo perchè mette al riparo dall’AIDS ma perchè in esso è il
soggetto a gestire l’offerta e la domanda di “rapporti” o, per meglio
dire, di relazioni, è anche libero dai rituali inibitori che la società reale
gli contrappone. E’ questa sensazione di potere nella gestione della sessualità
immaginata o virtuale che ha favorito il proliferare di stampa, cinematografia
e, al passo con i tempi, anche di siti web su Internet.
Il
sesso in quest’ottica non ha nulla a che vedere nè con la riproduzione nè
con l’oggetto stesso dell’immaginario erotico. Ciò che diventa importante,
che fa scattare la fantasia erotica, è la libertà e la molteplicità delle
situazione erotiche possibili che vanno a stimolare l’immaginazione.
Sul
piano morale questa realtà viene condannata o assolta, a seconda della
convinzione etica e religiosa di chi dà il giudizio, ma non vi è dubbio che,
modificando la tradizione etico-religiosa antica di migliaia di anni, vi è un
distacco del concetto di sessualità dalla funzione riproduttiva ed un suo
inserimento nella complessità di una struttura sociale nuova ed in continua
trasformazione che ha visto la luce solo da alcuni decenni ed è ancora tutta da
indagare.
Questo
approccio nuovo alla sessualità spesso è indice di solitudine e di incapacità
di relazioni reali, ma non bisogna commettere l’errore di credere che questo
sia l’elemento prioritario, sottovalutando il processo di elaborazione
immaginativa che va alla continua ricerca di nuovi spazi di libertà, in un
territorio nuovo, con strumenti e codici che ancora stiamo imparando a
conoscere.
Il
prodotto oggettivato non è mai l’intuizione originale. Questo perchè nel
fare tendiamo ad utilizzare i codici della comunicazione condivisi
dall’emittente e dal o dai riceventi, mediamo cioè l’intuizione per poterla
rappresentare.
In
questa codificazione l’intuizione viene costretta nella necessità di riempire
lo spazio con forme funzionali alla comunicazione, avviene cioè una
strutturazione simbolica dell’intuizione originale.
Attraverso
i codici semantici e la loro funzione pragmatica tentiamo di comunicare agli
altri ciò che in effetti non è comunicabile, sarebbe a dire il processo
interiore che origina un’intuizione, riuscendo semmai a rappresentare un
pensiero o un insieme di concetti tramite la “supposizione” di pensieri e
concetti che stanno a monte della nostra espressione e senza i quali la nostra
concettualizzazione apparirebbe incomprensibile, agli altri in primo luogo, ma
che non potrebbe addirittura esistere neanche per noi stessi.
Chi
non ricorda l’esilarante scena del film “Non ci resta che piangere” in cui
il maestro Roberto Benigni ed il bidello Massimo Troisi, incontrano, sulle rive
del fiume Arno, Leonardo da Vinci e cercano di spiegargli le scoperte
scientifiche del “futuro”, “il treno, no?!... La locomotiva, due binari,
lunghi, ma lunghi....” e Leonardo rimane allibito davanti alla loro
spiegazione, come un bambino di scuola elementare che non riesce a capire le
tabelline.
Non
poteva Leonardo capire quello che per i nostri due protagonisti provenienti dal
futuro erano cose del tutto ovvie poichè al sommo scienziato mancava
l’elaborazione culturale dei concetti di treno, binario, ecc., che sarebbe
venuta nel tempo successivo alla sua epoca, con tutto il complesso di codici
comunicativi che con essa sono stati elaborati.
L’intuizione
si inserisce in una struttura culturale preesistente e ne anticipa la
trasformazione, o almeno tenta di farlo, forzando i modelli di comunicazione
consolidati.
Possiamo
verificare questa teoria analizzando ad esempio l’opera dell’artista.
Nel
caso dell’artista l’intuizione, comunemente definita ispirazione,
nell’atto di prendere corpo e diventare opera espressa tende a perdere la
forza originaria da cui è stata mossa fino a diventare “altro” da quello
che l’artista stesso voleva esprimere, ed è frequente il caso in cui, ad
opera compiuta, l’artista la rinnega perchè in essa non riconosce il
contenuto complesso che aveva in mente di esprimere.
Ma
questo processo si muove dentro confini che, per quanto difficilmente
definibili, sono segnati dal vissuto culturale di ogni individuo. Ogni volta che
comunichiamo lo facciamo utilizzando un universo di significati, mai un singolo
atomo.
Una
sorta di matrice forzata, anzi imposta dalle convenzioni culturali, tanto che il
concetto stesso di libertà entra in crisi. C’è un rapporto dialettico tra
libertà individuale e l’organizzazione sociale, che impone di comunicare
attraverso strumenti talmente rigidi da assumere significato autonomo. Con che
cosa e come comunichiamo caratterizza l’identità di chi invia un messaggio,
ancor prima e forse più, del significato stesso contingente veicolato.
Siamo
a questo punto nella fase in cui ci dobbiamo chiedere che significato ha per
l’uomo la comunicazione e per quale motivo l’uomo comunica. Ricordiamo che
l’individuo, come vedremo attraverso le teorie di Henry Laborit, si forma
organizzando elementi presenti nell’ambiente biologico ed in quello culturale.
L’organizzazione
implica l’uso complesso, e spesso inconsapevole, di parti preesistenti già
disponibili, come strumenti per la costruzione di un prodotto. Se per costruire
un tavolo un falegname usa delle tavole levigate, un martello e dei chiodi, la
sua attenzione si concentrerà nell’esecuzione del lavoro necessario ad
ottenere il prodotto (tavolo) che si era prefissato. Non si preoccuperà di
capire l’origine degli strumenti (martello e chiodi) e del materiale (tavole
levigate) usati, ne si preoccuperà di analizzare il fatto che anche per
ottenere quegli strumenti e quel materiale è stato necessario un lavoro e che
questo lavoro è preesistente rispetto a quello che per l’occasione egli sta
eseguendo. Alla fine avrà una percezione della propria opera evidenziata dalla
realizzazione del tavolo e, dall’analisi del suo ultimo risultato, darà una
valutazione della propria attività. Ma il tavolo senza l’esistenza degli
strumenti utilizzati per la sua costruzione non esisterebbe neanche
concettualmente, almeno fino all’intervento della sua possibile esistenza a
livello intuitivo.
Allo
stesso modo un individuo che agisce in un contesto sociale per cercare ed
esprimere la propria identità non farà caso agli elementi che gli sono
familiari, di cui si serve per agire e realizzare i propri scopi, ma valuterà
il risultato (identità) sulla scorta del riscontro che trarrà dal
riconoscimento sociale suscitato.
Nel
caso di azioni espresse in situazioni poco complesse (l’identità di un
arrotino è immediatamente percepibile dall’arrotino stesso e dai suoi clienti
poichè è semplice l’organizzazione simbolica con cui quest’identità si
manifesta) il grado di identificazione è rapportato alla complessità
dell’organizzazione sociale. Se la struttura sociale è ordinata secondo
codici comunicativi comuni ed acquisiti e livelli di scambio relativamente
immediati, il grado di percezione della propria identità sarà sufficientemente
elevato e gratificante sul piano psicologico.
Ma
in una realtà come quella in cui si trova oggi l’uomo occidentale i livelli
di scambio sono così diversificati ed i codici comunicativi sono così
complessi ed articolati che il prodotto dell’azione individuale è quasi
sempre impercettibile sia da chi agisce che dal resto del contesto sociale in
cui questo si manifesta.
Lavoro,
tecnologia, partecipazione politica, espressione artistica, relazioni affettive,
tutto risente di questa complessità e di questa parcellizzazione e
strutturazione “alveare” (o meglio sinaptica) dei livelli di scambio. Alla
fine il risultato è una dispersione della propria identità tanto da far
perdere completamente la sua percezione e far affiorare con virulenza un
profondo senso di anomia e di inutilità dell’azione individuale, se non
addirittura di una sensazione di vanità complessiva della vita.
Nel
ricercare il senso dell’esistenza e quindi identificare la nostra esistenza
individuale, siamo portati a mettere in relazione questa ricerca con un
principio ed una finalità dell’esistenza stessa.
Ora
se presupponiamo il principio dell’essere contrapposto al principio del
non-essere (realtà contrapposta al nulla) cadremo in una maglia inestricabile
di dilemmi, poichè sia che ci si avvalga della metafisica teologica, che porta
a considerare la realtà come effetto dell’azione divina, sia che si neghi
valore metafisico alla realtà, giungendo alla tesi che oltre il sensibile vi è
il nulla, non avremo risolto il problema nè del principio nè della causa, o
meglio non l’avremo fatto in termini logici e quindi accettabili dalla nostra
capacità cognitiva.
Seguendo
la metafisica rimanderemo ad un Ente imperscrutabile, chiamato dio, la soluzione
del dilemma, per contro seguendo il materialismo nichilista verremo consegnati
ad un dilemma, non meno imperscrutabile, che è appunto quello della
comprensione del “nulla”. Principio e finalità dell’esistenza non possono
essere una base soddisfacente, magari l’unica, della ricerca del senso e
dell’identità individuale. La ricerca va spostata sul piano della
manifestazione spazio-temporale dell’esistenza e gli strumenti da adottare,
sempre duttili ed in continua trasformazione, saranno allora quelli complessi
della cultura e della comunicazione, che hanno continua incidenza nell’analisi
e nella strutturazione della realtà; quella realtà che assume un significato
agli occhi dell’osservatore solo che questo presti attenzione ai processi di
relazione che la costituiscono e la manifestano, secondo una logica che
definiremmo sfumata.
Abbiamo
parlato fin qui di identità in relazione all’azione socialmente rilevante
(non importa a che livello) di un individuo. Fermiamoci, in ultimo, a chiarire
proprio il concetto di azione socialmente rilevante.
Proprio
come non si può distinguere o separare l’uso di uno strumento dal prodotto
che da tale uso deriva, così non si può distinguere o separare l’identità
di un individuo dalla sua essenza culturale.
Se
intendiamo la cultura come una sequenza ininterrotta di azioni socialmente
rilevanti (rifacendosi ad un’analisi marxiana del lavoro, bene espressa in “Metodica
filosofica e scienza dei segni” di Ferruccio Rossi Landi, Ed. Studi
Bompiani, Milano, 1985), solo con un’azione produttiva e con la comprensione
delle relazioni complesse a livello culturale e biologico in cui quest’azione
si estrinseca, l’individuo ottiene la percezione della propria identità,
poichè prende coscienza del proprio intervento nel processo di produzione
culturale in cui egli, prodotto culturale ed allo stesso tempo agente di
produzione culturale, interviene utilizzando la complessità preesistente e
l’arricchisce di nuovi elementi.
Quando
quest’azione non trova spazi di espressione, e si inserisce in una situazione
di povertà cognitiva dei meccanismi che regolano le relazioni sociali e più in
generale quelle tra individuo ed ambiente (come nel caso dei giovani che non
trovano posto nel sistema produttivo, rimanendo adolescenti oltre l’età
convenzionalmente intesa come adolescenza) la manifestazione della propria
identità si sposta dal livello culturale a quello biologico ed utilizza, per
esprimersi, anzichè i codici culturali di comunicazione, quelli biologici di
specie, tra i quali forse i più significativi ed immediati sono quelli legati
all’espressione di aggressività o sottomissione ed il cui prodotto, oggi
sotto gli occhi di tutti, sono la violenza e la tentazione autodistruttiva e la
perdita di identità.
Da
questo discorso deriva che l’identità va ricercata nel risultato
dell’azione individuale tesa alla realizzazione di un progetto e concretizzata
per mezzo di un’azione che produce effetti che caratterizzano l’individuo,
percepibili tanto da chi agisce quanto da chi entra in relazione con questi
“prodotti”. L’identità non è un prodotto della mente ma un’attività
concreta e consapevole espressa in un tempo e in uno spazio definiti.
Le
nostre giornate scorrono, a volte, turbinose ed “incessanti” per l’attività
che svolgiamo. Molto più spesso invece al ritmo incalzante delle nostre azioni
quotidiane si aggiunge la monotonia e la ripetitività delle stesse.
Anche
chi è in cerca di un’occupazione per il proprio futuro non sfugge a questa
“performance”.
Eppure
alla fine ci ritroviamo con uno stato interiore di insoddisfazione che diventa
giorno per giorno sempre più opprimente.
Colti
da un senso di insoddisfazione, cerchiamo allora di capire cosa è che non va, o
di trovare il modo di variare la nostra routine, magari trovandoci un hobby,
facendo una vacanza, frequentando una palestra, gettandoci nello studio o nella
giungla sonora di una discoteca. Per meglio dire, il più delle volte, ci
riproponiamo di farle queste cose “a cominciare da domani”. Così il tempo
passa e noi continuiamo a sentire il suo trascorrere con un senso di vuoto e di
inutilità.
Ma
come è possibile avere la vita piena di cose da fare e non riuscire, nel
complesso, a trovare soddisfazione nel nostro modo di vivere?
Forse
la risposta sta nel fatto che essere in attività non sempre corrisponde con
l’esprimere una propria identità.
Possiamo
fare qualcosa, produrre qualcosa, lasciare la nostra impronta nelle cose che
facciamo, ma il problema è che le cose che si fanno, quasi sempre, sono calate
in modelli di organizzazione e con ritmi temporali che non dipendono dalla
nostra volontà, anzi quasi sempre non abbiamo neanche coscienza di essere
coinvolti in questi meccanismi, ruote di un ingranaggio che funziona
“indipendentemente dalla nostra esistenza e volontà”.
Siamo
delle comparse in una commedia di cui non siamo nè registi nè sceneggiatori.
Siamo
“non-persone” in un mondo fatto di “non-persone”; volti che non riescono
a far venire in superficie quella parte di unico e distinguibile che è la
propria personalità.
Per
avere la soddisfazione di fare qualcosa occorre che questo qualcosa non solo
lasci il segno della nostra esistenza (questo avviene comunque!) ma è anche
necessario che sin dal principio ci sia la volontà di raggiungere un fine
(materiale o meno che sia) ed avere coscienza del fine che si vuole raggiungere.
Volontà
e coscienza sono fattori inscindibili dalla propria personalità, e quindi un
risultato raggiunto o fallito con questi presupposti ci fa riconoscere (da noi
stessi e dagli altri) nel prodotto della nostra
azione.
In
queste condizioni è importante il raggiungimento dell’obiettivo che ci si
prefigge, ma un eventuale fallimento non sarà psicologicamente devastante,
poichè esso stesso è commisurato al nostro iniziale stato di coscienza e di
volontà, per questo, benchè non voluto, non arriverà mai inaspettato;
addirittura più complesso è l’obiettivo che ci saremo prefissati
“coscientemente e volontariamente” di raggiungere più ci sarà la
possibilità che un eventuale fallimento ci spinga a “riprovarci”
ricominciando “da tre”, avendo cioè imparato qualcosa.
Detto
questo, rimane il problema di individuare gli obiettivi da raggiungere e quello
di affrontarli con coscienza e volontà che ci appartengano.
Ognuno
di noi, in quanto individuo sociale, non matura alcuna esperienza se non dentro
un contesto culturale. Nasciamo e cresciamo secondo modelli di vita che sono
prestabiliti culturalmente e la nostra personalità si forma attraverso il
rapporto con gli altri individui e gruppi.
Per
avere coscienza di quello che forma la nostra personalità dobbiamo quindi
necessariamente avere conoscenza dei meccanismi che stanno alla base della
nostra relazione con il mondo che ci circonda, fatto di soggetti e di oggetti.
E’
questa “comunicazione” con l’ambiente che forma il nostro modo di essere,
qualunque esso sia. Dobbiamo per ciò comprendere in che modo e che cosa
comunichiamo all’ambiente e che cosa questo ci comunica, si tratti di
esperienze pratiche o di sentimenti ed emozioni.
Non
potendo ragionare se non in termini di socialità non possiamo fare a meno di
riconoscere e comprendere la personalità degli altri ed il sistema di
organizzazione sociale che condiziona e forma la personalità: tutto questo ci
porta a comunicare “coscientemente” con gli altri ed a prendere coscienza
dei tratti caratteristici della nostra e dell’altrui personalità, oltre al
fatto di prendere coscienza dei meccanismi di funzionamento del sistema
ambientale in cui viviamo.
In
questo processo riusciamo a comprendere che la nostra azione ha sempre
conseguenze sugli altri e sull’ambiente inteso nel senso più ampio di
ambiente fisico e culturale, e questa nostra azione comporta necessariamente una
continua mutazione dello stesso, e quindi dell’organizzazione sociale, delle
relazioni interpersonali ed anche della struttura fisica dell’ambiente stesso
(prendere l’autobus o viaggiare sulla propria automobile in città comporta ad
esempio la conseguenza di avere uno spazio urbano più o meno agibile, ed
un’aria con effetti non nocivi sulla salute).
Ma
la cosa più importante, dal nostro punto di vista, è che comprendere i
meccanismi della nostra comunicazione con gli altri comporta il fatto di
riuscire a dare importanza e quindi “visibilità” alle persone, scoprendo
dietro i volti di ognuno quell’infinito mondo di sentimenti positivi e
negativi che ci aiutano a vivere in modo che quello che facciamo abbia un senso
“umano” e non solo un senso meccanico, quest’ultimo, un giorno non troppo
lontano forse, potremo lasciarlo completamente svolgere alle macchine create
dall’uomo e dedicarci solo al mondo dei sentimenti che danno significato alla
nostra esistenza ed ai misteri della scienza che certamente non finiranno mai.
L’azione
viene mossa da input fondamentali, che sono essenzialmente di carattere
biologico ma che diventano, man a mano che l’individuo cresce, sempre più di
carattere psicologico e culturale. Questa
caratteristica configura la grande differenza che ha fatto del cervello umano il
vero fattore di differenziazione tra l’uomo e il resto del mondo animale.
Il
tormentato dibattito su quanto nel comportamento dell’uomo sia da riferire
alla sua evoluzione genetica e quanto invece sia riconducibile
all’apprendimento e quindi alla cultura si prolunga ormai da oltre un secolo.
Ma quello su cui ormai tanto i neurobiologi che gli etologi e gli antropologi
concordano è che ci sono comportamenti che pur essendo propri della specie,
quindi considerabili universali, tuttavia non possono essere inseriti tra quelli
geneticamente trasmessi, quanto tra quelli che possiamo definire come “memoria
della specie”, tra questi si annoverano la tendenza alla socialità, alla
gioia, al dolore… Questi comportamenti, con un termine coniato dall’inglese
Eibl-Eibesfeldt, sono definiti F.A.P. cioè “fixed action patterns”, in
altri termini moduli fissi di attività. La scoperta di questi comportamenti
preculturali ha progressivamente smantellato la teoria sociobilogica che
asseriva la predominanza dei fattori genetici nel comportamento umano. La
capacità dell’uomo, evolutasi con l’accrescimento della neocorteccia
cerebrale, ha fatto sì che i fattori culturali abbiamo prevalso nel creare
modelli di comportamento funzionali ai suoi bisogni (ed anche ai gusti,
come il senso dell’estetica) e se non c’è dubbio che il bagaglio
genetico indirizza le azioni umane non vi è oggi altrettanto dubbio che la
cultura abbia sviluppato situazioni sperimentate talmente efficienti per la
sopravvivenza della specie che addirittura i geni si trovano costretti ad
adattarsi alle nuove situazioni o a perire. Si parla insomma ormai non più di
evoluzione ma di coevoluzione.
La
prevalenza dei comportamenti di tipo culturale è dovuta all’accrescimento
dell’apprendimento. Quella serie cioè di situazioni sperimentate che, con il
passare degli anni, definiscono la biografia e la storia di un individuo. In
questi secondi tipi di comportamento definiti
C.F.A.P., cioè “cultural fixed action patterns”, la valutazione
delle situazioni utili nella circostanza che stiamo affrontando, messa in
relazione con altre circostanze simili già sperimentate, diventa sempre
maggiore con l’accrescimento dell’apprendimento, tanto che l’aver
sperimentato più volte come efficiente (o controproducente) una certa risposta
ci spinge ad una sorta di comportamento automatico. Come sostiene Marino
Livolsi: “il comportamento ha
“quasi” la forza di un istinto. Questo maggiore spazio dell’apprendimento
fa sì che le emozioni o le motivazioni individuali vengono in parte sacrificate
alla “doverosità” (che si esprime anche come funzionalità) sociale.” (18).
L’aumento della acquisizione degli elementi di esperienza, che avviene sin
dalla nascita dell’individuo, porta a comprimere gli istinti innati e ad una
sempre più complessa schematizzazione e classificazione dell’esperienza,
attraverso il sistema della sperimentazione e costruzioni di codici. In altri
termini l’individuo matura esperienze sempre più complesse man a mano che
sperimenta situazioni nuove che mettono in discussione i suoi comportamenti
istintivi che così vengono elaborati culturalmente e indirizzati funzionalmente
per soddisfare le proprie esigenze biologiche e psicologiche.
La
complessità è la caratteristica fondamentale del cervello umano; la maggior
parte delle capacità intellettive che danno all’uomo il primato in natura
dipende proprio da questa sua complessità e dalla capacità di plasmare le sue
funzioni cerebrali in relazione alle esigenze biologiche e culturali che nel
corso dell’evoluzione si sono rivelate utili agli scopi umani.
Ma
l’uomo non nasce con tutte le funzioni cerebrali già sviluppate; nei primi
mesi di vita infatti le sue funzioni ed i suoi comportamenti non sono molto
dissimili da quelli di un giovane scimpanzé, in seguito «...Nell’uomo, il partire da semplici elementi sensoriali (l’inizio
di ogni sequenza comportamentale è legato ad un determinato stimolo fisico di
ascolto, visione, etc.) conduce, mediante l’azione cerebrale più evoluta, al
crearsi di un processo di coscienza che si realizza attraverso il linguaggio e
si confronta con “strutture immaginarie” o astratte apprese nel processo di
socializzazione. Sono queste a servire da controllo e guida e a sostituire,
progressivamente, gli automatismi dei comportamenti innati”.» (19).
Quelle
che Livolsi chiama “strutture immaginarie” in fondo non sono altro che la
differenza tra le capacità intellettive dell’uomo e quelle degli altri esseri
viventi: l’animale è in grado solo di avere coscienza della realtà, l’uomo
invece riesce ad avere coscienza di sè come individuo pensante distinto dal
resto della realtà, egli insomma riesce ad elaborare la coscienza della
coscienza, ed a rappresentarsi la realtà che lo circonda. Questa caratteristica
permette all’uomo di interiorizzare norme comportamentali che regolano,
tramite inibizione, gli istinti mossi fondamentalmente da due esperienze di
base: l’esperienza di piacere e l’esperienza di dispiacere; queste due
esperienze muovono il resto della gamma delle nostre emozioni.
C’è
in ogni individuo una predisposizione a respingere tutto ciò che provoca
dispiacere e dolore, mentre egli viene attratto da tutto ciò che dà piacere e
questo avviene sin dal primo istante della vita. Questo
comportamento sta alla base della complessità del comportamento umano
che nel suo insieme è il risultato evolutivo che ha portato la nostra specie a
sviluppare un organo che possiamo ritenere il “principe” dell’evoluzione
biologica terrestre: il cervello umano.
Sarà
utile richiamare a questo punto, seppur in maniera schematica, le funzioni del
cervello e i luoghi in esso deputati a svolgere tali funzioni, per poi
affrontare il problema più complesso della formazione della conoscenza e del
pensiero cosciente.
L’elaborazione
delle esperienze di piacere e di dolore avviene naturalmente nel cervello che è
strutturato in tre zone sostanzialmente simmetriche nei due lobi dello stesso;
così si osserva che la parte più primitiva del cervello, chiamata cervello
rettiliano, è posta nella zona più interna, ricoperta da una seconda parte,
detta cervello limbico, che a sua volta è sovrastata dalla parte del cervello
detta neocorteccia; quest’ultima parte del cervello è quella che si è
sviluppata per ultima nella fase dell’evoluzione della nostra specie.
Il
cervello rettiliano è la sede delle elaborazioni istintive di base, quelle che
danno risposta ai bisogni innati (l’istinto all’alimentazione, alla fuga per
la salvezza, alla sessualità, ecc.).
Nella
zona del cervello limbico vengono elaborate le funzioni stimolate dall’istinto
attraverso gli stimoli sensoriali che vengono indirizzati dal bagaglio genetico
e modulati attraverso il processo emotivo per predisporci ad una scelta, ad una
azione. Questo processo avviene in maniera spesso non consapevole.
La
neocorteccia, la parte più esterna del cervello, elabora l’informazione,
costruisce schemi logici basati sull’esperienza pregressa e, attraverso
un’elaborazione complessa, arriva a fornire le risposte comportamentali di cui
avremo consapevolezza.
Questo
aspetto evolutivo della struttura del cervello ha avuto diverse implicazioni
nella nascita e nello sviluppo del linguaggio umano. A questo proposito credo
sia interessante riprendere un contributo di Giuseppe Trombetta che ho
pubblicato sulla rivista Helios Magazine (20)
di aprile 1998 con il titolo:
Neuroscienze - La struttura del
linguaggio: comunicazione umana e neuroscienze.
”Il
linguaggio e la possibilità di comunicare all’interno del gruppo umano
costituiscono, benchè non ne siano elementi esclusivi, una delle
caratteristiche evolutive più importanti sotto il profilo psicobiologico della
nostra specie. Nel mondo animale esistono in effetti numerosi esempi di
comunicazione non verbale tra individui, accomunati strutturalmente al
linguaggio umano da tre elementi fondamentali: la forma, cioè la tipologia
percettiva dei segnali utilizzati che possono essere gesti, suoni o parole; il
contenuto, riferito alle idee che vengono codificate nel messaggio; l’uso, cioè
le differenti modalità rappresentative che possono essere correlate ad una
determinata esigenza dell’individuo in relazione al suo ambiente. Tuttavia
l’aspetto creativo del linguaggio umano lo differenzia da altri tipi di
comunicazione interindividuale animale, in cui struttura e contenuti appaiono
essere ripetitivi e poco flessibili. Inoltre il nostro linguaggio richiede
l’esistenza di strutture semantiche e grammaticali, il cui livello di
complessità è stato sostenuto nel corso dell’evoluzione dalla
corticalizzazione che caratterizza il cervello umano, nonché la capacità di
esprimere la simbolizzazione dei contenuti ideici propria del pensiero astratto.
Gli studi sull’asimmetria emisferica compiuti sulle impronte endocraniche di
ominidi fossili sembrerebbero confermare questo carattere evolutivo del
linguaggio, che si sarebbe sviluppato, circa 150.000 anni fa, da una primitiva
matrice comune in Africa orientale. Queste asimmetrie morfostrutturali vengono
riferite a specifiche strutture cerebrali correlate alla dominanza emisferica e
sono state individuate anche nelle scimmie antropomorfe, che in effetti sono in
grado di utilizzare un codice paleolinguistico gestuo-fonetico per comunicare
all’interno del gruppo. Le osservazioni pionieristiche compiute negli anni
‘60 e ‘70 da Allen Gardner e David Premack hanno contribuito a chiarire
molti elementi di somiglianza tra il linguaggio umano e quello degli scimpanzè,
sottolineando tuttavia la loro incapacità ad utilizzare il carattere simbolico
delle strutture verbali che appaiono confinate ad una dimensione meccanica e
scarsamente strutturata. La possibilità di far risalire ad un’unica matrice
comune i diversi linguaggi umani ha comunque trovato riscontro in due principali
teorie che spiegano come essi si sarebbero evoluti partendo dalle rudimentali
forme di comunicazione degli ominidi, cui ho fatto prima riferimento.
In particolare secondo alcune teorie le prime forme di comunicazione
gestuale, sarebbero iniziate col processo di ominizzazione che, consentendo la
postura eretta, avrebbe reso disponibili gli arti superiori per la trasmissione
di informazioni ad altri individui. La comunicazione propriamente verbale
sarebbe comparsa solo successivamente, a causa della utilizzazione degli arti
superiori anche per altri scopi. Secondo le Teorie vocali invece il linguaggio
avrebbe avuto subito una caratterizzazione fonetica, derivando da suoni
istintivi indifferenziati che, a causa di modificazioni anatomiche evolutive
delle corde vocali e del Planum temporale cerebrale, sarebbero stati utilizzati
come primordiale codice comunicativo. Ho accennato alle strutture cerebrali
deputate alla elaborazione del linguaggio nell’uomo. Esse comprendono la
porzione postero-superiore del lobo temporale, denominata area di Wernicke, e la
zona posteriore del terzo giro frontale adiacente alla corteccia motrice o area
di Broca (area opercolare). Queste due zone del nostro cervello, connesse
anatomo-funzionalmente da un fascio di fibre nervose che costituiscono il
fascicolo arcuato, sono state oggetto di approfonditi studi, data la loro
importanza per la comprensione di importanti patologie neurologiche come le
afasie. Si è così pervenuti ad uno schema unitario di funzionamento dei
complessi circuiti neuronali che intervengono nella acquisizione-trasmissione
dei segnali verbali, conosciuto come modello di Wernicke-Geschwind. In esso gli
stimoli visivi, che dalla retina risalgono, attraverso il corpo genicolato
laterale, sino alle aree 17 e 18 di Brodmann (corteccia visiva), e gli stimoli
acustici che pervengono alla corteccia associativa parieto-temporo-occipitale
(giro angolare o area 39 di Brodmann), vengono successivamente integrati ed
inviati all’area di Wernicke dove avviene una prima elaborazione acustica
dello stimolo visuo-verbale. Da qui, attraverso il fascicolo arcuato, gli
stimoli nervosi raggiungono l’area di Broca, dove hanno sede i circuiti
deputati alla traduzione grammatico-fonetica del segnale ed allo schema sonoro
della parola. Schema percettivo e schema sonoro appartengono pertanto a distinti
domini neuronali, le cui evetuali lesioni selettive (come nel caso di una
malattia cerebrovascolare) possono determinare una differente sintomatologia
sotto il profilo della comprensione o dell’espressione del linguaggio.
L’esistenza di una precisa connotazione biologica delle basi strutturali del
linguaggio non esclude la possibilità di un’indagine metastrutturale delle
modalità di scambio delle informazioni all’interno di un sistema complesso
come il gruppo umano, oggetto di studio della psicolinguistica e della teoria
della comunicazione. Il punto centrale delle teorie psicolinguistiche è infatti
non tanto “dove” la capacità verbale si origina ma piuttosto “come”
essa si sviluppa ed attraveso quali strategie logico-semantiche. La convergenza
di queste ricerche in un tentativo di definizione globale della modularità
linguistica umana, ha dato risultati particolarmente interessanti per quanto
concerne talune condizioni patologiche conseguenti a lesioni focali delle
strutture cerebrali in precedenza citate. Sotto questo profilo, i soggetti che
presentano un danno a livello dell’area di Broca (afasia di Broca) manifestano
una netta compromissione delle capacità di processing sintattico, mentre quelli
con lesioni dell’area di Wernicke mantengono l’abilità sintattica ma hanno
difficoltà nella produzione di un coerente contenuto semantico. Il modello
multidimensionale del processore centrale e l’ipotesi di Fodor sulla modularità
del funzionamento cerebrale, discussi in un mio precedente articolo, introducono
oggi una nuova visione del linguaggio in un contesto ben più ampio, spostando
l’attenzione degli studiosi di neurocibernetica su nuovi modelli teorici che
prevedono l’esistenza di un Sentence Processor in grado di mediare tra il
momento appercettivo-fonetico e la risposta verbale, decisionale e
comportamentale. L’universo di suoni, di voci e, quindi, necessariamente di
contenuti comunicativi in cui siamo immersi rende infatti limitativa la vecchia
concezione neurofisiologica di un linguaggio “di sede”, strettamente
confinato alle strutture neurologiche ad esso deputate. In effetti, ancora prima
della costruzione verbale che consente l’espressione linguistica, esiste tutta
una serie di items che coinvolgono molteplici funzioni cerebrali (Human Sentence
Processor Theory). La rappresentazione sintattica neuronale necessita ad esempio
del supporto mnestico, assicurato da circuiti di short-term memory che
consentono l’accesso immediato all’informazione procedurale precedentemente
acquisita, ma anche l’ambiente comunicativo circostante risulta in grado
d’influenzare il corso di una conversazione. Ad esempio Spivey-Knowlton e
Tanenhaus (1994) usando tecniche di eye tracking hanno dimostrato che
l’ambiente, il discorso ed il contesto semantico sono in grado d’influenzare
il processore sintattico. Il processore sintattico appare suddiviso in una serie
di sub-moduli che sovraintendono a varie funzioni: la struttura di frase, il
concatenamento delle frasi, la struttura formale delle frasi concatenate in un
discorso di coerenza logico-semantica ed infine la struttura tematica. Questa
complessa strutturazione gerarchica è alla base di quella che viene definita
comprensione incrementale che consente di definire una precisa collocazione
semantica ai diversi livelli in cui le parole si articolano in un discorso.
Il linguaggio, inteso quindi
limitatamente all’espressione verbale di un individuo, non dovrebbe quindi
essere confuso con le modalità rappresentative simboliche e metaverbali del
mondo circostante che, paradossalmente, proprio in relazione ai differenti
contesti storici ed etno-antropologici in cui esse si sono sviluppate hanno via
via influenzato significativamente l’evoluzione delle “lingue” umane.”.
Nel
processo di comunicazione il cervello ha un’ovvia rilevanza, ma è
interessante capire in che modo il cervello elabora la quantità e la qualità
di dati che faranno parte della comunicazione.
Seppure
sulla base di sistemi di ricezione degli stimoli esterni ed interni
all’organismo che possiamo definire innati e messi in funzione da precisi
processi chimici, non possiamo certo definire il cervello in termini di fenomeni
esclusivamente quantitativi e deterministici. Infatti uno stimolo che viene
trasportato dai ricettori nervosi mette in moto una catena di reazioni chimiche
che trasformano lo stimolo nervoso in energia che produce variazioni a livello
molecolare che divengono sempre più complesse a secondo delle necessità di
risposta che l’organismo deve produrre alla stimolo ricevuto. Ma il risultato
finale di questo processo non è né la produzione di energia che si somma ad
altra energia prodotta chimicamente, né la somma delle varie molecole che si
producono nel processo stesso di elaborazione dello stimolo.
Il
risultato finale di questo processo è: informazione.
L’informazione
(cioè l’organizzazione degli input biologici ed ambientali) viene mediata
dalla percezione sensoriale ed attraverso il filtro dell’esperienza di
socializzazione (a cominciare dalla famiglia) diviene comportamento individuale
e collettivo.
LA MENTE E IL CORPO
Basti
pensare alle modificazioni strutturali che hanno interessato il cervello, ed in
particolare la neocorteccia, via via che la specie abbandonava la postura
carponata e l’andatura “scimmiesca” per assumere postura eretta ed
andatura bipede. Avere adottato la postura eretta ha innescato modificazioni
funzionali delle mani, degli occhi e soprattutto della laringe che hanno
determinato un’accelerazione dello sviluppo del cervello verso la forma
attuale che abbiamo in “dotazione”.
L’interazione
funzionale con l’ambiente ha prodotto una specializzazione delle zone del
cervello che sono stimolate nel corso di un’azione e che, con flussi modulari
di informazione, contribuiscono a formulare una risposta allo stimolo ricevuto.
Oggi
abbiamo moltissime conoscenze sulla struttura e sui modi di interazione di
queste aree cerebrali, quello che ancora però ci lascia spesso senza risposte
è la domanda sul perchè ad un determinato stimolo rispondiamo in un
determinato modo.
In
termini più semplici, sappiamo molto più sulle modalità di questa
“cooperazione” tra le aree del cervello che non sul perchè essa esista,
compito questo che si spera possa assolvere con maggiore compiutezza lo studio
della genetica.
Dall’analisi
del funzionamento del processo mentale viene comunque evidenziato un fattore che
converrà tenere sempre in considerazione nella nostra trattazione: il pensiero
è una elaborazione di informazione complessa e sfumata.
E’
questa seconda caratteristica a rendere il cervello umano diverso da una
macchina, sia pure essa il più sofisticato processore cibernetico esistente.
Il
secondo punto essenziale da tenere sempre in evidenza e che non esiste un
pensiero “scorporato”, cioè separato dalla realtà fisica. Il nostro essere
consiste nell’essere qui (ambiente), ora (tempo) e soprattutto “così”
(corpo) come siamo! Il pensiero è il risultato di un processo che agisce dentro
questo sistema.
Seguiamo
allora il processo di elaborazione di un pensiero cominciando ad osservare il
“meccanismo” che lo produce.
L’AMBIENTE
– Siamo portati a considerare con questo termine le condizioni fisiche in cui
ci troviamo ad agire, quelle condizioni cioè che sollecitano i nostri sensi:
l’olfatto, l’udito, il tatto, il gusto e la vista. Come però vedremo nei
prossimi capitoli quello che fa la differenza tra noi e il mondo animale è
l’estensione del concetto di ambiente al tipo di cultura con cui si è formata
la nostra personalità e quella in cui ci troviamo ad agire nel presente.
I
SENSI – Ricordando che il nostro essere, oltre al bagaglio genetico, è il
nostro presente agito nell’ambiente fisico e culturale, la prima
considerazione da fare riguardo ai sensi è che nulla è più soggettivo e
relativo quanto lo è la nostra percezione sensoriale. Se è vero infatti che
tutti gli uomini hanno una anatomia ed una fisiologia specifica è anche vero
che nessun individuo può considerarsi “esattamente” uguale agli altri. Le
differenze anche minime nella funzionalità degli organi di senso, combinate con
la differente “storia” di ogni personalità, rende ogni individuo capace di
percepire la realtà e di interpretarla in maniera “simile ma non identica”
a tutti gli altri individui.
Dall’ambiente
fisico noi percepiamo dei messaggi che, attraverso gli organi di senso, arrivano
al nostro cervello. E’ importante tener presente che l’ambiente a cui ci
riferiamo è sia quello a noi “esterno” sia quello “interno”, ponendo
come riferimento di posizione la nostra superficie cutanea. E’ quindi
importante stabilire da dove parte il messaggio, la distanza e il materiale
che percorre per arrivare ai nostri recettori di senso.
Ora,
solo con un accenno perchè non vogliamo complicare la vita del lettore,
riprendiamo solo il concetto sopramenzionato di informazione sfumata e tiriamo
in ballo le cosiddette forze fondamentali della fisica, forze
nucleari, elettromagnetismo e gravità, per ricordare che è solo grazie
a queste forze, nelle condizioni astrofisiche esistenti sulla Terra, che la
nostra forma è quella che appare; se diminuisse di colpo l’elettromagnetismo
tutto sparirebbe, compresi noi ovviamente, perchè cesserebbe la coesione
atomica che ci mantiene nella forma che abbiamo e se diminuisse la gravità
tutto perderebbe di peso e si dissolverebbe non solo l’atmosfera del pianeta,
ma anche quella esistente attorno al nostro corpo, quella fatta di calore, che
disperso produce odore, o campo elettrico, luminoso o sonoro. In questa
“atmosfera personale” convenzionalmente diciamo che il limite tra la nostra
persona e l’ambiente “extra” e “intra” personale è rappresentato
dalla pelle, dalle membrane e dai muscoli, ma in realtà esiste una sorta di
alone sensoriale che circonda la nostra persona, un alone instabile perchè
varia continuamente a seconda delle condizioni fisiche ed emotive che stiamo
vivendo nel momento presente; in questo contesto il medesimo messaggio può
essere percepito in modi del tutto diversi e provocare risposte assolutamente
differenti, la percezione è dunque assolutamente relativa per l’individuo in
un determinato luogo e momento.
Questa
considerazione porterebbe facilmente ad annullare il concetto di attendibilità
del dato sensibile e, secondo una proiezione filosofica del concetto,
addirittura ad annullare il concetto di realtà. Nei fatti, come vedremo più
avanti, la complessità dei dati che concorrono a formare un pensiero è
talmente alta che, almeno fino ad oggi, nessun algoritmo si è dimostrato
efficiente per la sua simulazione reale. Quel che è certo è questi algoritmi
il nostro cervello è in grado di eseguirli e di farlo in tempi così rapidi da
portarci all’istante di consapevolezza della realtà; l’elaborazione di
incredibili quantità di informazione proveniente contemporaneamente dal nostro
essere corpo e dalla memoria di esperienze già vissute, sia fisiche che
culturali, avviene nel nostro cervello in tempi “reali” stimolata dai sensi.
L’elaborazione
dell’informazione che il nostro cervello fa con gli strumenti sensoriali e la
modulazione dei dati ambientali conduce ognuno di noi, nel corso della sua
storia personale, a sperimentare comportamenti efficaci in determinate
circostanze. Per cui ognuno tenderà a ripetere, per situazioni analoghe,
comportamenti già sperimentati come efficaci. Questo, visto che ogni situazione
nuova che mette in discussione i nostri schemi comportamentali sperimentati
tende a essere “integrata” dentro questi schemi, viene inquadrato come una
nuova forma di determinismo, che stavolta è però di tipo culturale e non più
genetico.
Cioè
l’uomo classificando come efficaci alcuni sui comportamenti tende a riportare
all’interno di questi schemi i fattori innovativi, piegando così
all’esigenza del successo ottenuto con la ripetitività e il ripristino
dell’equilibrio omeostatico messo in discussione dalla novità, la propria
libertà di scelta.
Ma
la storia non è un segmento ed il tempo non ha un inizio ed una fine. Questo
vale anche per la nostra identità personale. Il bisogno di identità soggettiva
non si risolve con la partecipazione a momenti o a rappresentazioni parziali
della realtà. Poichè la realtà ha per noi un valore esistenziale è
necessario entrare nella sua complessità, essere partecipi coscientemente della
complessità e delle forme in cui essa si manifesta e ci manifesta.
E’
messo in discussione il concetto stesso di realtà ed il significato che noi
diamo a questo termine ed il rischio che spesso corriamo è quello di perdere il
senso della realtà, di perderci, di alienarci..
Nella
società dell’immagine vengono usati termini propri di un linguaggio
“teatrale” per esprimere azioni ed immagini che muovono una gamma infinita
di stati emotivi, dalla rabbia, al disgusto, allo stupore, all’erotismo,
ecc..., ed il punto è che, per descrivere la nostra realtà esistenziale, è
veramente appropriato, usare termini di rappresentazione, come se ognuno di noi
fosse un personaggio con una parte da recitare.
Rappresentazione
della “nostra” realtà, quella biologica e quella culturale.
Ma
è una rappresentazione in cui noi entriamo ed usciamo dal personaggio, o forse
è meglio dire che non usciamo e non entriamo quasi mai completamente da “un
solo” personaggio; contestualmente, infatti, in ogni momento della nostra
esistenza, vestiamo parti di più personaggi, in una continua risoluzione e
dissolvenza, come si vede in alcune scene cinematografiche e la scena è il
nostro ambiente in termini fisici e culturali.
Per
fare questo noi costruiamo un modello di personaggio utilizzando gli elementi
per così dire archiviati nella nostra esperienza, come se dovessimo costruire
un puzzle; solo che questo puzzle ha i contorni sfumati e cambia forma ad ogni
aggiunta dei pezzi della nostra esperienza. Siamo cioè continuamente proiettati
da un’esperienza all’altra, senza che vi sia mai un punto di inizio ed un
punto di arrivo determinati nel tempo e nello spazio.
Realtà,
rappresentazione e modelli esistenziali interni all’ambiente antropologico, ed
il cui prodotto siamo noi con la nostra identità presente, l’unica realtà
esistente, al di fuori della memoria e del progetto.
Questione
che ci investe necessariamente del problema esistenziale.
“...Lo
spazio dopo il tempo è solo lo spazio dell’uomo. Non ci saranno morali extra
antropologiche in grado di modificare questo. La frantumazione dell’individuo
ha dato origine a un universo variopinto ricco di sfaccettature e di valori non
assegnabili in modo definitivo. ...” (Luigi
CAMINITI, Lo spazio dopo il tempo, Helios Magazine nr. 3/97).
Da
secoli filosofi e scienziati tentano di definire la realtà.
Qui
accenniamo appena ad un’analisi
che sarebbe troppo lungo sviluppare e diremo che per definire la realtà è bene
rifarsi al suo concetto.
Possedere
il concetto di realtà vuol dire
possedere la capacità di riconoscere il significato degli enunciati propri
della realtà, senza che anche l’abbandono di uno o di alcuni di questi
enunciati ce ne faccia sentire un’attribuzione arbitraria di significato.
Definendo
il concetto secondo la teoria linguistica di Wittengstein, che
porta l’esempio di una fune composta da più fili ognuno dei quali non
raggiunge la lunghezza della fune (21),
teoria che ci sembra meglio sviluppata con il “concetto ad agglomerato”
usato da Hilary Putnam (22),
allora la realtà è definibile come un agglomerato di leggi, ognuna delle quali
le dà una connotazione particolare che non la definisce complessivamente, ma
concorre complessivamente ad identificarla.
La
rappresentazione quindi manifesta un’identità che può essere semplice o
complessa a seconda che si tratti di identità di specie o di soggetto. Ad
esempio, è reale tutto ciò che tangibile, visibile, corporeo, immaginabile,
descrivibile, ecc., ma non solo.... è reale tutto ciò che, senza elementi di
contraddizione, noi sentiamo come reale.
Analogamente
parliamo di “oggetti della realtà”, anche questi identificabili secondo il
concetto di agglomerato di leggi. Così esistono gli uccelli, come “oggetti
tangibili”, e per ognuno di noi
che ne abbia visto uno, di un qualunque genere almeno una volta, non sarà più
un problema riconoscere anche un genere nuovo, poiché avremo appreso che il
concetto di uccello (è piumato, sa volare, fa le uova, ecc...) contiene un
agglomerato di leggi che ne identifica le proprietà. E’ così anche per
l’uomo.
Accanto
agli oggetti tangibili esistono poi quelli non tangibili, e tra questi gli
oggetti mentali.
L’insieme
dell’esperienza di questi oggetti e dei concetti agglomerato delle loro
particolari identità ci fornisce il concetto di realtà che, inerendo allo
spazio ed al tempo, “manifesta” l’esistenza.
Definita
in questi termini la realtà introduce una delle funzioni psichiche fondamentali
dell’uomo, prima ancora che della macchina: la Realtà Virtuale.
Il
concetto convenzionale di realtà virtuale ci rimanda ad un processo di
simulazione della realtà percepita sensorialmente.
Esempio:
le immagini televisive che mostrano un leone che uccide la sua preda.
Abbiamo
un supporto ambientale (televisore), che proietta le immagini (input visivi e
sonori) che arrivano ad un terminale (il nostro cervello) che, con un processo
di elaborazione spazio-temporale delle nostre pregresse esperienze (e, a nostro
avviso, anche di quelle vissute proprio nel momento dell’elaborazione) porta
al livello di coscienza quella realtà.
Nel
caso in esempio, quale è la realtà? E soprattutto quando per noi è realtà?
Forse
nella savana? No, questo è il luogo dove è stata filmata la caccia del leone,
non il luogo dove noi stiamo assistendo al film.
E’
allora la trasmissione televisiva? Neanche questa, poiché in essa viene
riprodotto ciò che precedentemente era stato catturato da un supporto
magnetico.
Allora
è il processo cerebrale? Neanche quella, poiché nel cervello avviene più o
meno lo stesso processo della trasmissione televisiva. Noi non facciamo parte
dell’azione di caccia, ed il fatto di non potere intervenire nell’azione ci
porta ad essere solo telespettatori (cioè terminale).
Ma
se aggiungiamo una nostra capacità interattiva con quello che vediamo sul
teleschermo?
In
questo caso avremo, ancora fino a questo punto, solo una situazione in cui
esiste la “possibilità di realtà”, cioè una possibilità di realtà
virtuale. Affinchè questa possibilità diventi effettivamente realtà sarà
necessaria la nostra azione fisica, ad esempio avere in mano un telecomando con
cui decidere se schiacciare o no un pulsante per fermare la mascella del leone.
Ecco
questa è una situazione di realtà virtuale, eppure, per quanto ci si possa
compenetrare nell’azione, difficilmente si avrà la coscienza di partecipare
realmente alla caccia del leone ed alla morte (o alla salvezza) della gazella.
La
realtà virtuale, almeno fino allo stato attuale delle nostre capacità
tecnologiche, sarà comunque solo una simulazione, una simulazione di cui noi
avremo coscienza.
Ma
nel momento in cui avviene la simulazione della realtà virtuale cos’è che ci
fa avere coscienza che per noi quella non è la realtà “vera”,
cioè che quella azione si sta svolgendo fuori dal nostro contesto
personale?
E’
il fatto che la nostra esistenza non è una rappresentazione mentale o un dato
di coscienza trascendentale che ci viene da chissà dove, ma consiste nel nostro
“essere al mondo” mente, corpo e psiche nello stesso tempo. Inscindibilmente
nello stesso tempo.
E’
la coscienza, che il nostro corpo invia alla mente, di un momento presente
legato alla memoria e che ci proietta nel momento futuro. E questo processo non
può prescindere dall’ambiente esterno che invia messaggi, dalla mente che li
elabora e li fa diventare pensieri e dal nostro corpo che, oltre ad essere
ricettore e trasmettitore di input è anche “presenza di coscienza” di
questo nostro essere al mondo qui ed ora.
La
realtà virtuale, costruita dal computer o dal nostro cervello, staccata dalla
nostra fisicità quindi non esiste. Ma collegata alla nostra fisicità ha una
funzione importantissima.
Tutto
quello che abbiamo prima descritto in rapporto ad un filmato televisivo è
sostanzialmente quello che continuamente facciamo nell’elaborare il pensiero.
Davanti
ad una situazione a cui dobbiamo rispondere noi elaboriamo una strategia di
risposta. Questa strategia, oltre al fatto di essere legata all’elaborazione a
livello cerebrale, non può prescindere dalla coscienza complessiva
fisico-psichico-mentale del nostro essere al mondo. Quando questo meccanismo si
inceppa si manifestano comportamenti alienati, sintomo di un’incapacità di
elaborare una nostra identità reale vissuta nel tempo e nello spazio con
intenzionalità e presenza di coscienza.
Quindi
la capacità di creare realtà
virtuali a livello mentale è sempre presente in noi, ed ha una funzione
dialettica con l’ambiente esterno che ci consente di conoscere il mondo e di
proiettarci in esso con intenzionalità, in una dimensione esistenziale che ci
fa cogliere la nostra appartenenza ad un sistema biologico e culturale che ci
struttura e si struttura attraverso la nostra azione; un sistema aperto e
continuamente mutevole, determinato biologicamente e culturalmente, ma non
univoco e rigido.
E’
significativa in questo senso una frase di Merleau-Ponty: “Io non mi conosco
se non nella mia inerenza al tempo e al mondo, cioè nell’ambiguità.”(23)
Un
sasso, così come una persona, per noi non esiste fino al momento in cui non ne
abbiamo esperienza. Quello che abbiamo definito come il nostro “mondo
interiore” è costituito dalle tracce attive impresse su quella “tabula
rasa” che è la nostra mente al momento della nostra nascita. Con il passare
degli anni l’esperienza fisica, emotiva ed il contesto culturale arricchiscono
il nostro mondo interiore di nuovi elementi che noi utilizziamo per metterci in
relazione con il mondo.
Questa
relazione avviene in massima parte attraverso una serie di messaggi che vengono
agiti dalla postura corporea e dalla gestualità, spesso inconsapevolmente.
Questo linguaggio del corpo ha delle regole di natura biologica e culturale
strettamente dipendenti l’una dall’altra e può essere decodificato a
partire dalla conoscenza proprio di queste regole e dei contesti in cui queste
sono operanti.
La
nostra esistenza consapevole ha origine quando l’uomo comincia ad avere
coscienza di sè attribuendosi un’esistenza soggettiva che presuppone almeno
una prima fase di codificazione della realtà: un soggetto chiamato “io” ed
un soggetto chiamato “altro”. Da quel momento la dialettica continua tra il
sè ed il resto del mondo produce tutte quelle fasi di accrescimento consapevole
dell’esperienza e l’aumento di complessità dei codici di comunicazione che
diventano progressivamente sempre più astratti e simbolici, che hanno anche
ampliato la capacità di “sentire” emotivamente la relazione tra il sè e
l’ambiente esterno, di normativizzare eticamente le nostre pulsioni istintive
ed incanalarle nell’alveo delle convenzioni sociali (ad esempio l’istinto
all’aggressività che diventa competizione sociale).
Questo
concetto di codificazione presuppone un concetto preliminare che è quello di
“organizzazione”.
E
l’organizzazione, a sua volta, presuppone il concetto di struttura, di sistema
e di norme di sistema che trascendono l’individuo stesso, che agiscono
attraverso lo scambio di informazione, di comunicazione, di schemi culturali a
cui l’individuo si adegua, o meglio si “conforma”.
A
proposito dei processi strutturali riscontrati in biologia, in Henry Laborit si
legge che: “...dal momento in cui
l’uomo si raggruppa in società, cioè costituisce un organismo più complesso
del suo organismo individuale, questo nuovo insieme si interpone tra la finalità
dell’individuo e quella della specie, che fondamentalmente coincideranno
sempre. L’individuo lotta con questo dilemma, che risulta dal fatto che egli
non esiste più se non per gli altri uomini, per le società che lo circondano,
nel tempo e nello spazio, e che queste società, come ogni organismo vivente,
hanno una sola finalità: il mantenimento della propria struttura senza la
preoccupazione della riproduzione bisessuata che motiva profondamente il
comportamento individuale. ... Di tutto quello che siamo nulla ci appartiene,
nulla siamo “unicamente” noi. “.(24)
Siamo
dunque solo macchine programmate in ogni più piccolo meccanismo? Secondo Henry
Laborit lo siamo in massima parte, ma a sollevarci dalla condizione meccanica
(ed assolutamente deterministica) interviene ciò che caratterizza la nostra
particolare natura umana: l’immaginazione.
Intendiamoci
non si sta certo sostenendo (nè lo sostiene Laborit) che l’immaginazione
stessa non sia il risultato di un processo combinatorio di natura biologica e
culturale, ma solo che essa viene elaborata necessariamente all’interno di un
sistema organizzativo di tipo sociale e, seppur condizionata da questa doppia
matrice, sarà comunque sempre un prodotto del tutto nuovo, dinamico ed
“individualizzato”, dando ad ognuno di noi la sensazione di unicità,
consentendo ad ognuno, a seconda del grado di informazione posseduta, di non
sottostare passivamente ai determinismi ma di controllarli ed indirizzarli per
il mantenimento del proprio equilibrio psichico.
Ma
ciò può avvenire solo all’interno di un contesto sociale, quindi culturale,
e risponderà comunque ancora alle leggi biologiche della nostra specie.
Nessun
uomo, pur volendolo, può immaginarsi unicamente come individuo biologico, ma
sarebbe un grave errore pensare che la complessità della struttura sociale e
culturale siano indici assoluti di emancipazione dalle proprie pulsioni
istintive.
L’organizzazione
sociale (preesistendo rispetto all’individuo), così come le leggi di
condizionamento biologico, agiscono sulla natura dell’individuo sin dalla
nascita, creando un prodotto assolutamente conforme alle norme che regolano la
struttura sociale in cui quell’individuo si è formato, non annullando le
pulsioni istintive ma codificandole in un sistema di inibizioni e proibizioni,
che impongono all’individuo di uniformarsi alle norme etiche al di fuori delle
quali egli non potrebbe vivere, nella sua dimensione umana.
La
società opera però una sublimazione tanto delle pulsioni istintive quanto
delle norme inibitorie stesse, le rende intellegibili e logiche, per cui anche
la trasgressione alle norme risponde ad un’esigenza di sopravvivenza della
struttura sociale; la trasgressione diventa un campanello di allarme delle
spinte disgregatrici del sistema, costringendo il sistema stesso a modificarsi
evolvendosi per riassorbire queste spinte disgreganti e quindi permettere agli
individui di conformarsi nuovamente alla struttura sociale.
Henry
Laborit pone in un altro suo saggio una domanda cruda ma essenziale: “Saremmo
ridotti a crederci degli individui che nella realtà non esistono perchè la
propria affettività è messa a confronto in maniera antagonista a quella degli
altri o alle regole nascoste dei gruppi umani?”(25). Non
esisterebbe allora la libertà individuale, ma saremmo tutti sottoposti al
controllo degli automatismi biologici e sociali?
Inutile
dire che la risposta a questa domanda è altrettanto cruda, ma altrettanto
essenziale. Lo studioso franco-vietnamita ragiona infatti in termini di presa di
coscienza e di accettazione di regole insite nella “specie”.
Sostiene
infatti che il fatto di prendere coscienza delle leggi che ordinano le società
umane, a cui ogni individuo non può fare a meno di sottomettersi, ed il fatto
di assumere la conoscenza sia dei meccanismi biologici che ci legano alla specie
sia di quelli che regolano i rapporti di dominanza all’interno dei gruppi
sociali, permetterà alla nostra immaginazione di agire autonomamente ed
indipendentemente dalle stesse leggi biologiche e sociali scritte nel libro
della nostra specie e nella struttura delle nostre società, e continua
sostenendo: “Se verrà il tempo in cui
ogni uomo, conoscendo ciò che lo lega alla materia, conoscendo le regole che
ordinano il comportamento sociale, potrà rendersi indipendente da questi
determinismi, cioè, utilizzarli coscientemente per superarli, invece di
sottomettersi ad essi inconsapevolmente, incatenandosi ad essi, se quel tempo
verrà, sarà possibile allora poter dire che si è realizzata una mutazione
della specie umana.” (H. Laborit, op. cit.).
Quel
giorno sarà sicuramente il giorno del passaggio da un’era evolutiva ad una
nuova, ma è facilmente prevedibile che quello stesso giorno nasceranno regole
di conformismo al nuovo ordine, sebbene si possa ipotizzare che nella nuova
dimensione evolutiva l’uomo avrà la possibilità di esercitare la propria
immaginazione in una forma più autonoma ed indipendente rispetto alla propria
dimensione biologica. Ma in questo senso non potremo mai parlare di libertà
totale, di scelta individuale, sottomessi come siamo sin dalla nascita ai
determinismi biologici e sociali.
E’
questa una constatazione inaccettabile? Quand’anche lo fosse, potremmo farci
ben poco. E’ un pò come avere scoperto di non poter volare solo agitando le
braccia e non accettare questo dato di fatto. Ed invece l’uomo è riuscito a
volare proprio quando, dopo avere accettato l’idea che esistevano delle leggi
naturali che impedivano o consentivano il volo, a seconda della specie, è
riuscito, studiandole, a svelare le leggi sulla gravitazione dei corpi e
sull’aereodinamica. Accettando allora la sua natura e imparandone le
particolari leggi è riuscito ad alzarsi in volo. Si è così liberato di una
sua visione mitologica del volo (il mito di Icaro), ed è riuscito a superare i
limiti della propria specie.
Dal
punto di vista del determinismo sociale non ha senso illudersi di poter trovare
la propria libertà attraverso la negazione degli altri (l’individualismo è
solo una forma di alienazione e quanto più diventa egoismo tanto più si
trasforma in solitudine), o solo attraverso la competizione sociale che porta
allo scontro in senso marxista, ma sarà necessario capire le leggi che regolano
la vita sociale, leggi che attengono al funzionamento della struttura sociale,
ma anche alla biologia ed alla psicologia individuale e collettiva (valga
d’esempio il comportamento dei singoli individui costretti in numero eccessivo
in uno spazio ristretto; è il caso in cui non solo si accresce la sensazione di
minaccia legata all’istinto di difesa territoriale, ma questa situazione
produce anche delle trasformazioni di natura biologica, con un’alterazione
delle “normali” funzioni solo quando si riformano le condizioni ottimali di
fruizione spaziale). Nelle condizioni citate nell’esempio si verificherà, tra
l’altro, un aumento della tendenza aggressiva verso gli altri, ma questo è il
dato di fatto, la conoscenza di questi meccanismi e di queste nostre funzioni
biologiche può consentire di riconoscere e prevenire la nostra propensione
all’aggressività, inibendo o ritualizzando questo nostro istinto e magari
indirizzandolo in espressioni positive di autoregolamentazione.
Potremo
allora affermare che, pur non riuscendo a liberarci dell’istinto
all’aggressività, grazie alla conoscenza delle leggi psicobiologiche che lo
inducono, saremo riusciti a superarlo, non semplicemente negando vanamente gli
altri ma comprendendo quanto di comune abbiamo con essi.
La
libertà pura e semplice quindi è solo un mito, ed un mito che perseguito
acriticamente porta alla negazione degli altri; ciò che invece ci rende
responsabili ed in grado di scelte autonome è la conoscenza. Senza conoscenza
non vi è libertà di scelta. Ma senza l’accettazione del nostro essere
individui sociali la libertà diventa ansia di solitudine, alienazione.
Una
percezione funzionale delle distanze è cosa meno ovvia di quello che potremmo
pensare. In genere lo facciamo in maniera inconsapevole. Quando vediamo una
persona o un oggetto che ci interessa strutturiamo il nostro pensiero per
entrare in comunicazione o in contatto con essi, non ci fermiamo ad osservare il
processo percettivo che ci indica a che distanza si trovano da noi, se è un
oggetto animato o inanimato, se duro, caldo, ecc. Eppure tutte queste cose sono
analizzate dal nostro cervello nel momento stesso in cui avviene la vista o
comunque il primo input sensoriale.
Tutto
questo può avvenire poichè siamo dotati dei cosiddetti
ricettori di distanza.
A
differenza di alcuni animali come i serpenti, che usano anche la lingua come
ricettore di distanza, l’uomo valuta questa dimensione con una limitata ma
incredibilmente efficiente dotazione di organi sensoriali. Il naso e
l’orecchio, che sono gli organi più arcaici nella storia della nostra
evoluzione, e gli occhi sviluppatasi più tardi ma che hanno
assunto un’importanza preminente. Il tatto con l’irradiazione e la
conduzione del calore, i muscoli e le membrane con la loro capacità di definire
il senso della distanza e della prossimità sono definiti ricettori immediati.
Ognuno
di questi organi ha funzioni e caratteristiche proprie per mezzo delle quali
costruiamo negli anni la nostra esperienza del mondo e di noi stessi.
L’uso
sociale di questa funzione sensoriale risente molto del tipo di cultura del
gruppo sociale.
Le
funzioni olfattive di tipo naturale nella cultura occidentale sono infatti
“offuscate” volontariamente attraverso l’uso di profumi e deodoranti più
conformi al nostro gusto indirizzato verso la sensazione di pulito. Questo non
impedisce però al nostro olfatto di percepire l’odore di certe molecole che
muovono i nostri stati emozionali (basti pensare all’effetto dei ferormoni
nell’approccio sessuale) e, seppure in misura ridotta rispetto ad altri
organi di senso, l’olfatto percepisce anche i segnali che inviano messaggi
legati agli stati aggressivi o ansiosi.
Tutto ciò non ha nulla a che fare con il paranormale!
E’ solo la normale quantità di irradiazione che emettiamo solo per il fatto
di essere vivi.
Il
nostro corpo emana odori, luce, calore, ma come avviene questa attività fisica?
La
chiave è il calore. Quando la temperatura ambientale è pari alla temperatura
corporea, normalmente di 37°C, vi è la tendenza all’equilibrio termico.
Questa condizione è però solo teorica perchè le normali funzioni ed attività
corporee tendono a far aumentare o diminuire la nostra temperatura corporea (che
in caso di patologie può aumentare anche di diversi gradi) anche se la nostra
fisiologia punta a mantenerla costante sui 37°C. Questa variazione della nostra
temperatura interna dipende in parte anche da quella dell’ambiente esterno.
Avviene infatti che (in condizioni di staticità teorica del nostro corpo)
quando l’ambiente ha una temperatura inferiore ai 36/37°C il nostro corpo
tende a convogliare più sangue verso gli organi vitali come il cervello o gli
organi addominali per mantenere
costante la loro temperatura e quindi la funzionalità osmotica dell’ossigeno
dal sangue alle cellule.
Al
contrario quando l’ambiente esterno è ad una temperatura superiore a quella
del nostro corpo (sempre in condizioni di staticità teorica) si sviluppa una
attività di raffreddamento messa in atto attraverso l’espulsione di liquidi
attraverso l’epidermide. La sudorazione quindi ha una funzione di regolazione
termica ma mentre avviene questo processo, dal nostro corpo si irradiano
molecole chimiche che volatilizzando nell’aria fanno percepire il nostro odore
e l’irradiazione stessa viene
percepita in fase di prossimità anche senza un vero e proprio contatto.
La
percezione del calore e del freddo quindi, nell’ambiente, è bidirezionale,
nel senso che noi non solo percepiamo la temperatura ma emaniamo calore che
viene irradiato nell’ambiente e quindi può essere percepito dagli altri.
Questa attività di percezione termica è regolata dall’ipotalamo, una delle
due ghiandole che hanno una funzione nella percezione termica. L’altra
ghiandola con questo tipo di funzione è la tiroide. Un disfunzione tiroidea
determina una distorta percezione della temperatura ambientale. Così se ci si
trova in una situazione di ipotiroidismo la sensibilità al freddo aumenta,
mentre al contrario diminuisce in situazione di ipertiroidismo.
Lo
spazio termico è sollecitato soprattutto dal tatto e questa attività
interagisce profondamente con i nostri stati emotivi, tanto che a determinate
emozioni corrispondono altrettanto determinate irradiazioni di calore. Il tatto
è uno dei sensi più importanti per la costruzione del nostro mondo interiore
poichè la testura determina la nostra memoria tattile, quella che ci permette
di delineare la consapevolezza della consistenza e della termicità del mondo
che ci circonda (ogni volta che ci troviamo davanti ad un lago, al mare o ad un
fiume non abbiamo bisogno di sperimentare se possiamo camminarci sopra o se
l’acqua è fredda o calda, lo abbiamo imparato da piccoli avendo avuto
esperienza anche indiretta dell’acqua, o diretta, toccandola per l’appunto).
Questa funzione sensoriale è anche quella più soggettiva poichè influenzata
da più fattori di carattere psicofisico.
La
percezione tattile può avvenire in quanto a questa funzione sono preposti i
nervi cutanei che inviano al cervello i dati relativi alla consistenza e
termicità di un oggetto.
Lo
spazio termico viene percepito con il concorso di più organi di senso. Infatti
il tatto, che può essere sia attivo che passivo, trasmette le informazioni
relative al calore irradiato ed al calore a contatto, ma anche l’olfatto può
farci percepire la variazione del calore poichè quando aumenta il calore le
molecole si dilatano e aumentano la loro volatilità nell’aria aumentando la
loro percezione tramite l’olfatto.
Così
anche la vista ci trasmette informazioni sullo spazio termico personale, infatti
il rossore della pelle che percepiamo in particolari stati emotivi (come
l’imbarazzo o l’eccitazione sessuale) è il segnale evidente dell’aumento
del calore corporeo.
I
messaggi sonori che arrivano all’udito, nell’uomo, raggiungono la piena
efficienza entro una distanza di circa sei metri. Da 6 a 30
metri la comunicazione vocale diviene sempre più lenta ed
unidirezionale; infatti la difficoltà di percepire distintamente i suoni e
quindi le parole impone all’ascoltatore di innalzare il proprio livello di
attenzione verso i messaggi che gli arrivano dal suo interlocutore ed inoltre
proprio questo sforzo dell’attenzione impone, se si vuole ottenere una
comunicazione quanto più efficiente possibile, di alternarsi nel discorso al
fine di non accavallare le parole che diverrebbero altrimenti indistinguibili.
Il
suono comincia a svanire superati i 30 metri. E’ a cominciare da questa
distanza che la comunicazione verbale perde la sua efficacia e lascia spazio
solo alla gestualità.
L’ambiente
fisico condiziona enormemente la percezione del messaggio sonoro per questo sono
stati studiati degli accorgimenti per ridurre l’affollamento sonoro che
provoca una riduzione della capacità di lettura o dell’attenzione, rimedi
come l’elasticità dei muri o la
coibentazione e protezione di muri e pavimenti o ancora l’orientamento
finalizzato di porte e
finestre.
Il
suono come la luce si propaga nello spazio con una variazione continua dovuta
appunto alle condizioni ambientali in cui vengono emessi questo tipo di
messaggi. A dare significato a segnali sonori e luminosi, come vedremo più
avanti, è la nostra memoria di passate esperienze e l’elaborazione cerebrale
che trasforma un semplice suono in una parola a cui noi riusciamo a dare
significato. Cambiando le condizioni ambientali o culturali può diventare
difficoltoso comprendere quello che avremmo dato per scontato in situazioni già
sperimentate. Le parole della lingua straniera che studiamo sui banchi di scuola
possono diventarci incomprensibili la prima volta che ci troviamo ad ascoltarle
fuori dall’ambiente scolastico, ad esempio se studiamo l’inglese e poi ci
troviamo ad scendere la prima volta dall’aereo a Londra molto probabilmente ci
dovremo fare aiutare dal nostro buon senso e dalla gestualità per comprendere
tutti i termini di una conversazione “in tempo reale”.
La
nostra vista ha la massima efficienza fino ad una distanza di circa 100 metri.
Oltre i 100 metri e fino ad 1 Km si ha un’efficienza funzionale che permette
di distinguere le figure nelle loro caratteristiche essenziali (ad esempio la
forma e il movimento) mentre diventano sempre meno distinguibili i particolari
ed i colori.
Un
particolare tipo di visione è la Visione Stereoscopica che dà l’illusione
della profondità che è invece una della dimensioni dell’esperienza visiva
(molto efficace sotto i 5 metri, comincia a perdere consistenza a distanze
superiori ed in ambienti non familiari, ad esempio in mare aperto o su una
distesa desertica).
Anche
l’affollamento visivo può essere controproducente sia per la nostra capacità
di attenzione che per gli stati emotivi che la vista di persone o cose possono
produrre in noi. Si diminuisce la sensazione di affollamento schermando la
visione (un semplice esempio è rappresentato dai pannelli divisori che sono
presenti in alcuni uffici come gli sportelli bancari).
Tra
tutti i nostri sensi la vista è sicuramente quello più importante nonostante
il suo sviluppo evolutivo sia quello più recente.
Esiste
un rapporto immediato tra la visione e l’apprendimento, nel senso che
apprendiamo tutto ciò che vediamo e tutto ciò che abbiamo appreso influenza il
nostro modo di vedere le cose. In questo senso parliamo di spazio visivo e di
mondo visivo.
Tra
il Mondo Visivo e gli altri messaggi sensoriali si instaura una relazione
strettissima. La memoria delle
nostre esperienze viene infatti “archiviata” con tutto il complesso di
memorie sensoriali particolari già acquisite che in qualche modo sono
riconducibili al messaggio che stiamo percependo in un determinato momento.
Avviene così che uno stimolo sensoriale viene trasformato dal nostro cervello
in un’immagine corrispondente, selezionata tra quelle “archiviate” nella
nostra memoria.
A
questa immagine però la nostra mente non associa solo i dati relativi alla
forma ma anche tutti gli altri che attengono alla consistenza, alla collocazione
spaziale, al movimento e soprattutto al bagaglio di esperienze emotive a cui
abbiamo imparato nel tempo ad associarla (vedi esempio dell’auto che passa,
nel capitolo successivo).
Così
come nel caso dei suoni, anche le immagini sono la risultante di una continua
variazione di segnali luminosi che vengono ricevuti dalla retina.
La
visione quindi è il risultato di una sintesi di messaggi, legati
all’esperienza ed alla cultura, che diventano forma.
Un
esempio di questa sintesi variabile per esperienza e cultura possiamo
riscontrala nell’attività dei cercatori di funghi o di impronte animali
durante la caccia.
E’
infatti comunemente noto che una persona nata e cresciuta in una metropoli è
estremamente penalizzata in questi due tipi di attività rispetto ad una altra
persona cresciuta in un ambiente di montagna o in una savana africana o
australiana (come ad esempio gli Aborigeni). Seguire le impronte di un animale
è infatti un’attività che si apprende imparando a prestare attenzione ad una
serie di segnali molto particolari che l’animale lascia sul terreno o sugli
arbusti al suo passaggio.
Un
altro esempio, che mette insieme la maggiore o minore familiarità con
l’ambiente e le condizioni atmosferiche, è il cosiddetto effetto Fata Morgana
che si verifica ogni tanto nelle acque dello Stretto di Messina antistanti il
Lungomare di Reggio Calabria. In condizioni di cielo terso, dovuto all’aria
fredda e asciutta della tramontana, la costa messinese sembra possa essere
raggiunta in pochi minuti di passeggiata, in effetti la distanza è di oltre
sette chilometri, quest’effetto ottico è un’illusione che agli occhi di chi
non ha conoscenza dei fenomeni atmosferici che lo determinano e familiarità con
il paesaggio consueto, appare del tutto reale. In questo caso vi è un difetto
della percezione della prospettiva aerea di natura sia fisica che culturale.
Gli
occhi inoltre esercitano una funzione “ricevente” ed una “trasmittente”.
Tramite lo sguardo, infatti, inviamo messaggi che indicano il nostro
atteggiamento emotivo e la nostra disposizione nei confronti
dell’interlocutore; con lo sguardo possiamo: punire, premiare, incoraggiare,
intimidire, ecc.
Dal
punto di vista fisiologico l’atteggiamento di interesse o di repulsione viene
manifestato, rispettivamente, dalla dilatazione o dal restringimento
dell’iride.
Un
esempio abbastanza comune è immediatamente riscontrabile osservando questa
funzione durante l’approccio o i rituali amorosi.
IL FILTRO SENSORIALE
Ognuno
dei segnali che ci arriva dall’ambiente attiva in noi la predisposizione ad
una risposta. A differenza degli animali però, in cui questa risposta ad un
determinato segnale è quasi sempre la stessa ripetuta praticamente
automaticamente, nell’uomo l’istinto si trasforma in una condotta
riflessiva, cioè avviene una “sospensione” dell’azione che media la
risposta suggerita immediatamente dal bagaglio filogenetico. L’uomo adottando
questo comportamento di sospensione esercita un’azione valutativa,
sperimentale.
Nei
momenti in cui si attiva questa sospensione il nostro cervello elabora una
complessa attività in cui avviene il recupero nella nostra memoria di
situazioni analoghe a quelle che stiamo vivendo per cercarvi quella che in
precedenza ci ha fornito la risposta efficace per i nostri bisogni in quella
determinata circostanza. Questo processo di sospensione della risposta agli
stimoli sensoriali avviene sin dalla nascita e diventa sempre più ricca e
complessa con il passare degli anni accumulando esperienze che formano il nostro
“mondo interiore” quella che chiamiamo coscienza. “La coscienza, pertanto,
è attività creativa e anticipatoria di situazioni o comportamenti futuri. La
sospensione è lo spazio in cui si inserisce la storia e la cultura del gruppo
di appartenenza e la biografia particolare del singolo, la memoria della specie
e quella dell’individuo”(26).
Questa
conoscenza del mondo esterno avviene attraverso la nostra percezione sensoriale.
Il singolo segnale attiva, a secondo della tipologia, l’organo di senso adatto
(ad esempio un suono attiva l’udito attraverso l’orecchio) ma appena
superato lo stato fisico dell’input sensoriale quel segnale viene elaborato
nella nostra mente attivando tutte le nostre esperienze pregresse e richiamando
alla nostra memoria “contemporaneamente” le esperienze vissute (più sono
analoghe maggiore e la probabilità di avere una risposta già sperimentata) e
riproducendo nel nostro “mondo interiore” le esperienze nel loro complesso
sensoriale, spazio-temporale, culturale.
Facciamo
un esempio: mentre stiamo all’interno di una stanza ci arriva, proveniente
dall’esterno, il rumore di un’auto che passa. Il primo segnale che ci arriva
è di tipo fisico, cioè dei suoni, il rumore di un motore e dei pneumatici che
solcano l’asfalto.
In
sé un rumore non è altro che una vibrazione sonora che attiva la membrana del
timpano, con una determinata frequenza di onde sonore. Se accadesse solo questo
noi non avremmo la capacità di associare a quel suono il suo significato
“circostanziale” poiché ogni impulso sonoro di pari frequenza, durata ed
intensità sarebbe sempre uguale e per così dire “neutro” per ciò che
riguarda il significato. Ma quando il rumore dell’auto che passa arriva al
nostro udito, nella nostra mente vengono richiamate le memorie pregresse che
inquadrano quel rumore nella nostra esperienza e focalizzano l’immagine
dell’auto in movimento. Cioè vengono attivate, contemporaneamente, le memorie
del suono, dell’immagine, del movimento, dello spazio che associate ci
richiamano l’immagine dell’auto in movimento. Pur essendo al chiuso di una
stanza è come se noi avessimo esperienza diretta dell’auto che passa, è come
se in quel momento noi la vedessimo passare.
Questa
risposta all’input sonoro può avvenire in quanto noi abbiamo già esperienza
sia dell’oggetto “auto” sia dello spostamento dell’oggetto nello spazio,
cioè del movimento. Ma non basta. Se la nostra esperienza si limitasse
all’immagine dell’oggetto ed al movimento la nostra “rappresentazione
mentale” sarebbe carente, limitata, in effetti noi abbiamo esperienza anche
della consistenza al tatto di quell’oggetto (sappiamo che è un solido e non
un liquido, sappiamo che se l’auto è in movimento il cofano del motore è
caldo e non freddo, ecc.) e tanto maggiore è l’esperienza pregressa che quel
rumore richiama alla nostra mente tanto più precisa è la ricostruzione mentale
che riusciamo a fare di essa, fino al punto da riconoscere esattamente (e quindi
ricostruirla mentalmente anche senza vederla) l’auto che passa; se è quella
di un nostro familiare che sta rientrando dal lavoro riusciamo a ricostruire
complessivamente l’immagine dell’oggetto in tutte le sue caratteristiche e
quindi a predisporre fisicamente ed emotivamente la nostra risposta all’input
sonoro (esempio: possiamo andare alla porta per accogliere la persona che è
tornata in auto dal lavoro o rimanere fermi e imbronciati perché è in
ritardo!).
Ciò
avviene con tutti i tipi di stimoli sensoriali e in conseguenza di ciò noi ci
predisponiamo non solo per una risposta fisica (ci alziamo ed andiamo alla
porta) ma attiviamo anche le nostre risposte emotive (la persona in auto arriva
e noi saremo felici, ansiosi, preoccupati, irritati, a secondo dello stato
d’animo che quell’esperienza innesca nella nostra mente).
Abbiamo
detto che la complessità della risposta allo stimolo sensoriale dipende dal
fatto di poter recuperare nella nostra memoria un’analoga esperienza pregressa
passando in rassegna in pochi istanti miliardi di impulsi che, attraversando la
fitta rete di sinapsi delle varie zone del nostro cervello, escludono tutte le
informazioni che non hanno attinenza con l’input attivo al momento, portando
allo stato cosciente l’esperienza riconosciuta utile.
L’accrescimento
delle nostre esperienze è però dovuto allo sperimentare esperienze nuove, non
vissute prima.
Mentre
stiamo sperimentando le nostre risposte saranno più indecise e causeranno anche
degli stati emotivi diversi che dipenderanno dal fatto di avere o meno, ad
esempio, una sensazione di minaccia (uno sconosciuto che ci appare
all’improvviso davanti fa scattare in noi paura e istinto alla fuga, ma se lo
sconosciuto ci appare sorridente e con un mazzo di fiori in mano potrà causare
in noi imbarazzo, curiosità o piacere, non certo paura). In questo senso la
“sospensione” del nostro comportamento istintivo ci spinge a conoscere e
razionalizzare la nuova esperienza e passeremo all’azione con atti di
sperimentazione (guarderemo con circospezione lo sconosciuto per cogliere un
segnale di aggressione e se ciò avviene mettere in atto la fuga, o nel caso in
cui questa ci viene ostacolata reagiremo noi stessi in maniera aggressiva, ma se
lo sconosciuto ci sorride e ci da il buongiorno, ci fermeremo per saperne di più)
e questo accrescerà il bagaglio del nostro mondo interiore.
Quando
l’ambiente esterno ci invia dei segnali questi non necessariamente arrivano
allo stato di coscienza attivando quindi un’azione, mentale o fisica che sia,
ma nessuna percezione sensoriale può lasciare inalterato il nostro stato
emotivo, anche se il più delle volte questa attività inconscia, questo
processo emotivo non da luogo ai sentimenti
di cui abbiamo coscienza.
La
coscienza dello stato emotivo e il processo cerebrale dell’emozione sono
fenomeni che appartengono a funzioni diverse dell’attività cerebrale e
vengono agite in aree diverse del cervello, questo non vuole affatto dire che vi
sia una qualche indipendenza tra le molteplici attività cerebrali che
concorrono a produrre un emozione o un sentimento. Il sistema “mente” è un
sistema che funziona nella sua globalità salvo che per alcune attività si
arriva ad avere coscienza del sentimento e per altre invece no.
In
particolare osserva Joseph Ledoux: “Non
abbiamo quasi nessun controllo diretto sulle nostre risposte emotive: chiunque
abbia provato a fingere un’emozione o sia stato il destinatario di
un’emozione finta sa che il tentativo fallisce sempre. Pur avendo noi uno
scarso controllo cosciente delle nostre emozioni, queste possono, al contrario,
ampliare la nostra coscienza: infatti, in questo preciso momento della nostra
storia evolutiva, i circuiti cerebrali sono tali che le connessioni tra i
sistemi emotivi e i sistemi cognitivi sono più robuste di quelle che fanno il
percorso opposto.”(27).
Quindi
quando parliamo di linguaggio del corpo in effetti stiamo discutendo di quella
parte dei nostri sentimenti che vengono in parte portati allo stato di
coscienza, ma sottintendiamo anche tutta quella attività emotiva che avviene
nella parte più recondita del nostro cervello e che condiziona, spesso
inconsciamente, il nostro comportamento.
Diventa
utile per una consapevole relazione
interpersonale conoscere le cause del nostri sentimenti e delle manifestazioni
psicosomatiche, in modo da poter in un certo senso orientare
il nostro comportamento verso gli obiettivi che ci prefiggiamo di
raggiungere.
E’
di queste cause o meglio delle condizioni fisiche e culturali che hanno
incidenza sui nostri sentimenti e sul nostro comportamento che tratteremo nel
prossimo capitolo.
LO SPAZIO VITALE: RICONVERTIRE LA CITTÀ
Tra
gli elementi fondamentali dei modelli comportamentali umani la “marcatura”
del territorio è quello che più ci accomuna
ai nostri coabitanti terrestri, soprattutto ai primati.
Al
contrario degli animali che rispondono alle leggi territoriali quasi
esclusivamente con fini di difesa, procacciamento del cibo ed efficacia
riproduttiva, per l’uomo il territorio ha un grado di complessità simbolica e
funzionale molto più elevato e la gestione emotiva del territorio mette in
relazione fattori sensoriali e culturali in rapporto alle distanze ed al
contesto socioculturale, come vedremo più avanti.
Possiamo
ben dire però che alcuni elementi della gestione emotiva del territorio sono
comuni a tutto il mondo animale, uomini inclusi. La difesa del territorio, ad
esempio, è sempre messa in relazione allo spazio necessario per trovare cibo
sufficiente ed impedire che altri maschi del gruppo diventino concorrenti
sessuali. Mano a mano che questi due fattori (assieme o singolarmente)
cominciano a raggiungere il punto critico aumenta di pari passo l’aggressività
degli individui coinvolti (soprattutto maschi) che sfocia in scontri prima
rituali poi sempre più violenti e cruenti, fino all’abbandono di parte del
gruppo del territorio divenuto insufficiente; ma quando questi fattori trovano
degli ostacoli insormontabili, quali l’impossibilità di fuga per fattori
ambientali (un’isola che non comunica con nessun mezzo con la terra ferma!),
si assiste ad un andamento parabolico dei fenomeni di aggressività; cioè ad
una lunga durata degli stimoli che inducono aggressività in condizioni di
saturazione di spazi e risorse corrisponde una progressiva diminuzione dei
comportamenti aggressivi. Ma non è solo l’azione aggressiva nei confronti dei
rivali, prima in ascesa, a diminuire ma tutta la funzionalità reattiva dei
soggetti coinvolti, sia quella comportamentale che quella fisiologica,
soprattutto la funzione ormonale legata all’attività delle ghiandole del
surrene, dell’ipotalamo e dell’ipofisi. Succede infatti che uno stress
prolungato nel tempo causi una ipersecrezione di cortisolo (ormone surrenale
prodotto per le normali funzionalità in cui è necessario mettere in atto
un’azione, specie se di tipo aggressivo) che con il tempo non riesce ad essere
più smaltito. Il risultato di questa condizione sarà la perdita progressiva
degli stimoli aggressivi, della competizione a fini di riproduzione sessuale e,
oltre un certo limite, dello stimolo all’alimentazione, con la conseguenza che
si può arrivare addirittura alla morte per inedia. Il nostro rapporto con
l’ambiente è davvero pervaso da stimoli emotivi.
Avere
corrette relazioni sociali, ridurre il tasso di aggressività e poter migliorare
il nostro rapporto di autostima dipende molto quindi dall’ambiente in cui
nasciamo e cresciamo, in quello in cui ogni giorno agiamo.
Attraversando
a piedi, le vie della nostra città in un momento di tempo libero (cosa che
ormai ci accade sempre più raramente), ci accorgiamo che, posando la nostra
attenzione su vecchi edifici, botteghe di artigiani, spazi verdi, ci ritornano
alla mente momenti della nostra esistenza passata, della nostra adolescenza,
che, forse per un’illusoria idealizzazione del passato, hanno la capacità di
rallentare anche il fluire dei nostri pensieri, di riportare in noi delle
sensazioni piacevoli spesso, nostalgiche a volte.
La
familiarità dei colori, degli odori, o anche dei suoni, ci creano quella
sensazione di identità, di appartenenza ad un luogo che ci fa sentire “a
casa”.
Questa
dimensione psichica è ormai sempre più rarefatta; la città, come noi stessi,
cambia ogni giorno, si arricchisce di nuovi elementi urbanistici e di nuove
situazioni comunicative. La velocità con cui questi cambiamenti avvengono ormai
è tale che ci provoca sempre più stati di estraneità che hanno delle
immediate ripercussioni sul nostro stato d’animo e sulla nostra capacità di
interazione comunicativa non solo con le persone, ma anche con i luoghi, con gli
oggetti.
La
velocità, è forse questo l’elemento che caratterizza più di altri il nostro
tempo e la nostra società.
La
velocità e la crescita della concentrazione demografica portano con sè effetti
del tutto nuovi per noi che viviamo in dimensioni sdoppiate della coscienza:
quella della nostra memoria che vuole l’azione comprensibile e sequenziale,
adeguata alla nostra formazione psichica elaborata culturalmente in una
dimensione spazio-temporale in cui le relazioni e le appartenenze erano di
natura semplice ed immediata e quella del nostro vissuto presente che invece
deve fare i conti con tutte quelle trasformazioni avvenute in tempo
relativamente breve, sia nei sistemi di produzione che in quelli della
comunicazione e che richiedono intuizione, azione rapida e complessa.
Attraversiamo
così quotidianamente le nostre città, sulle nostre automobili, metropolitane,
treni e con l’ambiente circostante non abbiamo quasi alcun rapporto
comunicativo cosciente. Certi luoghi sono dei non-luoghi, solo spazi di
transito, spazi di fruizione funzionale, non ricordiamo neanche la faccia della
persona che ci stacca il biglietto della metropolitana o del ragazzo che ci
porge la tazzina del caffè di un bar. Spazi atopici, non-luoghi, che ci
trasformano, a lungo andare, in non-persone.
Se
un urbanista fosse chiamato un giorno a progettare una città ideale del Terzo
millennio, che racchiudesse in sè non solo gli elementi necessari ad
ottimizzare l’organizzazione delle attività produttive ma anche quelli che
riescono a dar senso di appartenenza e sicurezza alle singole persone che ci
dovessero andare a vivere, cosa ne verrebbe fuori? Quali materiali dovrebbe
utilizzare? Che tipologia sceglierebbe di adottare o di creare per le
abitazioni, le strade, le piazze, i parchi, i servizi?
Che
tipo di organizzazione del lavoro dovrebbero progettare gli imprenditori del
futuro?
Le
scelte da fare di certo non avrebbero solo conseguenze sul piano
dell’efficienza e della funzionalità, ma risulterebbero fondamentali anche
per il tipo di relazioni umane che “dentro” la città si andrebbero a
sviluppare.
Gli
odori, i colori, i suoni, ad esempio, sarebbero fattori decisivi non solo per il
livello di vivibilità intrinseca della città, ma anche per il tipo di
sensibilità estetica che nascerebbe tra la gente di questa “città ideale”.
Armonizzare
questi elementi avrebbe conseguenza anche sull’armonia dei rapporti
intersoggettivi; in un certo senso l’ordine e l’armonia estetica
dell’ambiente sarebbe un modello a cui specularmente si adatterebbe la
personalità della gente che ci andrebbe a vivere.
Città
perfetta, società perfetta. Bella ed ordinata. Non è forse questo il sogno,
neanche tanto nascosto, di ognuno di noi? Una città virtuale per una società
virtuale.
Una
certa tendenza al fascino del neogotico, potrebbe far pensare che questa ipotesi
configura una società senz’anima, senza vitalità.
Meglio
quindi l’odore aspro delle metropoli, la frenesia delle moltitudini di persone
che anima i giorni e le notti della città occidentale in cui oggi viviamo? Ed
intanto prepararci tecnologicamente a “salpare”, quando questo nostro
pianeta sarà un’enorme slum, per lo spazio interstellare, alla ricerca di un
altro pianeta da colonizzare e “continuare” la vita di sempre in un nuovo
“west”?
Ma
intanto la ragioniera Tiziana Rossi, che ogni mattina esce di casa, si tuffa nel
traffico frenetico, arriva sul posto di lavoro, gareggia con il ritmo di
produzione, subisce e trasmette stress ed aggressività che questi ritmi portano
con sè, per arrivare alla sera distrutta ed aspettare il giorno dopo per
ricominciare, cosa dovrà sperare per il suo “oggi”?
Non
ci saranno urbanisti che, su un foglio di carta bianca, disegneranno la “città
ideale” in cui potrà vivere Tiziana Rossi e lei forse non avrà neanche il
tempo di veder partire un’astronave su cui imbarcarsi verso il “nuovo
west”. Continuerà ad alzarsi la mattina, ad uscire di casa per arrivare alla
sera nella solita routine.
Ma
non per questo dovrà stare inerte ad aspettare “il grande Slum”.
Dovranno
aiutarla gli urbanisti ed i politici che oggi, non tra cento anni, dovranno
progettare e trasformare angolo per angolo, strada per strada, piazza per
piazza, luoghi e ritmi di lavoro per far in modo che la città sia luogo di
incontro, di scambi culturali e artistici ed anche di progetto per le attività
produttive fatte per l’uomo.
Certo
qualcuno dovrà continuare a raccogliere le immondizie, seminare e raccogliere
le patate ed il grano, trasformare materie prime e produrre macchine (quanti
immigrati ci circondano per questo!) e quindi continueremo ancora a vivere tra
la puzza, il rumore ed il grigiore delle nostre città, non è immaginabile di
lasciare tutto questo per vivere nel sogno di una “città ideale” che non
esiste.
Ma
il punto è: alla città ideale non ci si pensa perchè non può esistere o non
esiste perchè nessuno vuol più fingersi pazzo per poter immaginare di
realizzarla?
Progettare
una città oggi sembra quasi un pensiero anacronistico, impossibile da
concretizzare, e certo lo è se si continua a pensare alla progettazione
urbanistica come ad un’opera da realizzare stando seduti dietro un tavolo da
disegno con un foglio bianco davanti da riempire con tracciati, cellule e linee
che rappresentano un’ipotesi di città da programmare su uno spazio vuoto in
cui la città deve essere pensata o meglio “inventata”. Il più delle volte
si arriva a creare non dei luoghi in cui vivere ma delle cellule cementificate
in cui la gente dovrà essere poi collocata. Ma se spostiamo la nostra
attenzione dalla creazione dal nulla di centri abitati alla riqualificazione ed
alla progettazione dell’uso dell’esistente, ci troviamo immediatamente a
dover fare i conti con le persone, i gruppi sociali, le funzioni sociali, le
caratteristiche culturali degli abitanti di questi centri. Ecco che non si potrà
prescindere, nella progettazione, dalla cultura, dalle abitudini e dalle
aspirazioni sociali ed economiche di quanti saranno i fruitori del progetto
urbanistico.
Nel
1964, a Delo in Grecia, l’architetto Doxiadis, inaugurò una serie di incontri
annuali che riunivano numerosi esperti per elaborare uno studio degli
insediamenti umani. Le conclusioni di quel primo congresso furono, come riporta
nel saggio “La dimensione nascosta” di Edward T. Hall, le seguenti:
“1) I due programmi elaborati in
Inghilterra e in Israele per la “Città Nuova” sono basati su dati
inadeguati, vecchi di un secolo. Tanto per dirne una, le città erano troppo
piccole e strette, ma anche le dimensioni maggiori che vengono ora proposte
dagli urbanisti inglesi si fondano su ricerche troppo limitate.
2) Benchè il pubblico sia sempre più
consapevole della situazione disperata delle megalopoli in continuo
accrescimento ed espansione, non si sta provvedendo in alcun modo.
3) L’aumento catastrofico del numero
di automobili e quello parallelo della popolazione stanno creando una situazione
caotica, nella quale non si scorgono meccanismi di autocontrollo e correzione.
Perchè o la città ha una struttura raccolta e allora le vie si trasformano in
arterie, che scaraventano masse crescenti di automobili fin dentro nel suo
cuore, stipandolo e quasi paralizzandolo, come si vede a Londra e nel centro di
New York, oppure la città è più disseminata e scompare sotto un labirinto di
corsie e di viali di scorrimento, come avviene a Los Angeles.
4) Se vogliamo che i nostri sistemi
economici continuino ad espandersi, poche attività potrebbero dare un così
largo impulso alla promozione di industrie, servizi e capacità come la
ricostruzione delle città del mondo.
5) La pianificazione, l’insegnamento e
le ricerche di echistica non solo devono essere coordinati e finanziati dai
governi, ma devono far parte dei loro impegni prioritari.” (E.
Hall, op. cit.).
Questo
si sosteneva a Delo più di trent’anni fa. Buoni profeti inascoltati? Ci
sembra proprio di si!
Oggi
i problemi sono cento volte più gravi di quando si tenne il primo congresso di
Delo, ma non ci sembra che si possa fare a meno di riprendere il cammino
ricominciando proprio da quelle analisi. E per continuare a ricordare la citata
opera di Edward Hall, ci sembra più che mai necessario mettere mano a queste
problematiche coinvolgendo negli studi di progettazione e pianificazione
urbanistica (e non solo) gruppi interdisciplinari di esperti che comprendano
oltre che architetti ed urbanisti, anche psicologi, antropologi e sociologi, con
un’aggiunta che forse Hall aveva data per scontata, pur non avendola
espressamente prevista, cioè gli esperti in sistemi di comunicazione, questi
ultimi saranno fondamentali per poter progettare (e non solo programmare!) la
città del Terzo millennio, poichè se è certo che la città del passato è un
illusorio e fuorviante modello di ispirazione, è pur tuttavia comprensibile che
la possibilità di costruire e conservare rapporti di civile convivenza in una
dimensione urbana che non distrugga l’identità personale passa attraverso
l’organizzazione, ed in primo luogo organizzazione significa comunicazione. La
tecnologia, anche in questo caso corre più della nostra capacità di elaborare
l’esperienza, ma la sfida da cogliere è proprio questa: realizzare un nuovo
umanesimo senza per questo dover rinunciare (cosa del tutto possibile!) al
progresso della scienza. Quindi la ricerca deve continuare.
E’
possibile organizzare lo spazio urbano programmandone la fruibilità? Ad esempio
per tentare di risolvere i problemi di intasamento del traffico veicolare, o
anche per favorire processi di socializzazione?
E’
una domanda che da molti anni sta sul tavolo di centinaia di studiosi in tutto
il mondo. Urbanisti, architetti, ingegneri.
E
ancora. E’ possibile individuare “le forze” che ci inducono ad
allontanarci piuttosto che avvicinarci ad un oggetto o ad una persona, o ci
spingono in una direzione piuttosto che un’altra mentre camminiamo per strada
o mentre ci muoviamo più semplicemente in casa?
Ricercatori
americani hanno individuato il percorso che seguono i pedoni attraversando una
piazza ed hanno verificato che questo percorso non è necessariamente quello più
breve, ma quello più “battuto” o, inserendo dei simboli direzionali (ad
esempio delle strisce pedonali), quello “normativo”.
Non
vi è dubbio che questo tema investa discipline non consuetamente utilizzate per
affrontarlo: sociologia, psicologia, biologia, matematica, storia, antropologia,
e, a seconda dei casi, altre ancora.
Siamo certi che un urbanista e un architetto che si
rispetti non si accinge mai al suo lavoro senza un’adeguata analisi
dell’ambiente da progettare fatta utilizzando proprio queste discipline, ma la
maggior parte non le adotta complessivamente e, soprattutto, ancora manca una
cultura e una metodologia di ricerca sistematica delle relazioni di prossimità.
Se
ci trovassimo a disporre di uno spazio “vuoto” da progettare secondo uno
scopo intenzionale di fruibilità, tutto sarebbe molto semplice. Potremmo creare
un modello ed inserirvi delle coordinate funzionali relative al suo uso, così
ogni azione fisica o comportamentale sarebbe prevedibile e logica (per fortuna
la realtà e molto più complessa e sfumata di ogni sua possibile
teorizzazione).
Ma
lo spazio non è mai vuoto e noi ci troviamo sempre a che fare con delle
relazioni tra gli oggetti ed i soggetti già preesistenti. Ci troviamo ad
operare cioè in uno spazio preordinato, dove esistono componenti fisiche di
tipo naturale, architettonico o storico, che fanno emergere un ambiente vissuto
in cui l’individuo si muove seguendo dei percorsi già tracciati nella sua
personalità e dai quali si può discostare solo relativamente e gradualmente,
pena l’incomunicabilità e l’emarginazione.
Ad
esempio, vi immaginate come vi accoglierebbero i vostri vicini di casa se, su un
suolo edificabile, anzicchè costruirvi una villetta con giardino vi vedessero
sfaccendare tra le vostre cose in una tenda indiana (e ciò indipendentemente
dalla funzionalità che quel tipo di abitazione possa avere per voi)?
Per
alcune persone poi è pressoché impossibile uscire dal bagno nudi in casa
propria, anche se si trovano da soli. Quel senso di pudore che glielo impedisce
è costituito da vere e proprie presenze psichiche che influenzano il loro
comportamento e la funzione emotiva degli oggetti e dello spazio.
Chi
si accinge a studiare il comportamento sociale e le caratteristiche
antropologiche di un gruppo non può fare a meno di tenere in debita
considerazione questi elementi e di indagare le componenti fondamentali della
matrice comportamentale.
Come
abbiamo visto, la realtà individuale è sostanzialmente articolata su due
componenti complesse che si influenzano reciprocamente “determinando” il
comportamento individuale e sociale: una componente biologica ed una culturale.
La
componente biologica predispone i nostri strumenti percettivi indirizzandoli
funzionalmente in base alle nostre esigenze di specie, parleremo in questo caso
di Passato Biologico (Infracultura), per indicare, per così dire, la nostra
“dotazione strumentale” con la quale percepiamo lo spazio e mediante la
quale interagiamo con lo spazio preordinato appropriandoci di un Codice della
Percezione (Precultura), mediante il quale gestiamo la nostra Organizzazione del
Microsistema (Microcultura).
Quest’ultima,
sulla base delle prime due, ordina la nostra esperienza spaziale su tre livelli:
-
Lo Spazio Preordinato
-
Lo Spazio Semiordinato
-
Lo Spazio Informale
Una
funzionale percezione ed organizzazione di questi tre livelli ci dà la
sensazione di adeguatezza del nostro essere in rapporto con l’ambiente, se
invece questa condizione non si realizza ci ritroviamo in una dimensione
distorta e ne subiamo le conseguenze in termini di ansia, stress ed aumento
dell’aggressività.
Esistono
differenze culturali che influenzano la percezione dello spazio. A volte sono
così fievoli, come nel caso di uno stesso
ambiente culturale, ad esempio la campagna e la città di una stessa area
geografica, che è difficile individuarne le manifestazioni nei singoli
individui, ci limitiamo ad osservare che “si ha una mentalità diversa”.
Figuriamoci se queste differenze sono riferite a culture molto diverse e
distanti tra loro come la cultura occidentale e quella orientale o culture con
forte presenza tecnologica e culture pretecnologiche.
Costruire
modelli comportamentali, per prevedere le interazioni nascenti da interventi
sull’ambiente e sull’organizzazione sociale, è una bella sfida a cui sono
chiamati a rispondere oggi una pluralità di studiosi di varie discipline, come
abbiamo già detto. Quel che è certo è che non si potrà più fare riferimento
ad analisi settoriali per valutare il cosiddetto “impatto ambientale” di una
qualunque scelta senza tenere conto che la società è costituita da individui e
l’individuo è quanto di più complesso, unico ed irripetibile ci è dato di
conoscere.
SIGNIFICATO, FUNZIONI EMOTIVE E
CULTURALI DELLE DISTANZE SPAZIALI
Vediamo
meglio come funziona a livello culturale il nostro modo di percepire e vivere lo
spazio.
Come
abbiamo già detto la nostra elaborazione dell’esperienza spaziale è il
frutto di un’organizzazione del microsistema (Microcultura) inquadrato in:
Spazio Preordinato, Spazio
Semiordinato, Spazio Informale.
Le
maggiori difficoltà nella realizzazione delle condizioni di adeguatezza in
questo sistema sono dovute al grado di esperienza del codice di comunicazione
(essenzialmente soggettivo) ed al grado di irrazionalità residuale nel livello
di organizzazione del comportamento.
SPAZIO
PREORDINATO - Nello Spazio Preordinato vi è una reciproca e continua
interferenza costitutiva tra l’uomo e l’ambiente. Elementi che stanno
inscritti nella storia culturale dei popoli sono leggibili nel tipo di
organizzazione e fruizione dell’ambiente.
Se
prendiamo ad esempio il modello di città di tipo europeo e ci caliamo dentro
come osservatori che scendono dal cielo, possiamo fare una sorta di
ingrandimento delle funzioni logiche ed antropologiche dello spazio.
La
città europea, basata sul modello a quadrilatero mutuato dall’urbanistica
dell’antica Roma, ha una divisione degli spazi che sono rispondenti alle
funzioni rituali, produttive, al soddisfacimento dei bisogni primari, al riposo
e/o divertimento.
In
qualunque città di questo tipo un europeo si dovesse trovare, seppur per la
prima volta, la sua capacità di orientamento non subirebbe intralci
insormontabili. C’è sempre una cattedrale, un municipio che in genere segnano
il “centro” della città, ma ci sono altri luoghi riconoscibili come uffici,
ospedali, alberghi che riconosciamo avendo esperienza culturale delle loro
funzioni.
Ma
perchè la città europea ha questi modelli? Se ci pensiamo bene dobbiamo
ricondurre il modello di città al modello di abitazione che nel nostro passato
così come nel nostro presente, pur nel mutare delle abitudini di vita, continua
ad essere organizzata per soddisfare i nostri bisogni primari e secondari (il
modello contadino abbiamo iniziato ad abbandonarlo solo da circa mezzo secolo!).
Una casa europea (che un tempo era un ambiente unico dove si svolgeva anche
l’attività produttiva) è organizzata con una divisione dello spazio
funzionale alle attività: alimentari (cucina), produttive-sociali (salotto),
ricreative (soggiorno/stanza da letto), funzioni igieniche e salutari (bagno).
In ognuno di questi luoghi si realizza, anche ritualizzandola, un’attività.
Si mangia in cucina e non in camera da letto (città: ristorante), ma in cucina
si riunisce anche tutta la famiglia (in genere!) nello stesso tempo per
consumare i pasti (città: luoghi di rito), si ricevono gli ospiti e si trattano
affari nel salotto (città: uffici, municipio), ci si riposa o si ascolta musica
in camera da letto o nel soggiorno (alberghi, pub). La maggiore o minore
conoscenza della città e della casa determina anche una familiarità più o
meno estesa con i codici di comunicazione verbale e simbolica con
quell’ambiente e con le persone che lo popolano e questo determina un nostro
rapporto culturale ed emotivo con lo spazio e nello spazio.
SPAZIO
SEMIDETERMINATO – Anche all’interno dei luoghi particolari di una casa (o ad
esempio di un ufficio) esiste un particolare rapporto di tipo culturale ed
emotivo che ci lega allo spazio, alle persone ed agli oggetti che lo occupano
(spesso anche ai vuoti, alle assenze).
Vi
sono delle zone spaziali nascoste in cui agiscono le nostre emozioni e il
livello della nostra abitudine a percepire quei luoghi. Così avremo delle Aree
di uso immediato (tavolo/sedia) che a secondo della loro collocazione e distanza
da noi modificano il nostro senso di costrizione. Aree che misuriamo non solo
funzionalmente ma anche emotivamente in rapporto ai punti a portata di mano
(area di lavoro) che fanno sentire o meno un senso di limitatezza. Aree di
immediato contatto senza alzarsi, in cui ci muoviamo in modo adeguato riducendo
i fattori che possono ad esempio ridurre la nostra capacità di concentrazione.
Dentro
questi spazi esistono zone che sono funzionali ai nostri bisogni emotivi, come
la Zona di Fuga sociale (quella in cui si tende a mantenere l’isolamento), la
Zona di Attrazione sociale (quella in cui si tende a riunirsi).
Ripetiamo
per chiudere questo argomento che le differenze culturali ci fanno percepire e
quindi attivano reazioni emotive del tutto diverse. Ciò che in una cultura
rappresenta uno Spazio Preordinato in un’altra può essere Spazio
Semiordinato. Un esempio può essere tratto dalla collocazione dei mobili
rispetto alle pareti nelle culture occidentali ed orientali; nelle stesse
culture la differente concezione filosofica ha prodotto modelli urbanistici ed
architettonici del tutto differenti (es. la topografia centrifuga orientale in
contrasto con quella a linee perpendicolari occidentale, ed ancora la concezione
orientale dei giardini come panorama avvolgente entro cui ci si “muove”
rispetto a quella occidentale di sfondo attraverso cui si “passa”).
SPAZIO
INFORMALE. Abbiamo già fatto un esempio sul processo mentale che ci spinge ad
una determinata azione in presenza di uno stimolo sonoro (rumore del motore di
un’automobile) ed abbiamo visto quante risposte emotive può attivare un
semplice suono. Partendo dai citati studi di Edward Hall, prendiamo ora in esame
gli spazi in cui questi scambi sensoriali avvengono e mettiamoli in relazione al
nostro comportamento metaistintuale.
Parleremo
di distanze differenti per differenti situazioni in cui ci possiamo venire a
trovare e vedremo che ognuna di queste di distanze contiene in se due fasi, la
fase di vicinanza e quella di lontananza, in cui avvengono dei processi
biologici e fisiologici che condizionano il nostro comportamento ed attivando le
nostre emozioni influenzano le nostre risposte posturali, gestuali e
comportamentali.
Prima
di entrare nei dettagli di queste distanze, sarà utile ricordare che tutta
l’attività del nostro organismo è regolata attraverso la secrezione ormonale
necessaria per attivare o inibire le nostre risposte agli stimoli esterni, siano
essi di natura fisica che mentale. Il nostro sistema endocrino fa un lavoro
incredibilmente, un vero e proprio esercito di pronto intervento al servizio dei
nostri bisogni fisiologici ed emotivi.
Nel sistema prossemico Hall individua
quattro zone di azione, comuni a tutte le persone appartenenti alla medesima
cultura, ognuna di queste zone suddivisa in una fase di vicinanza e in una di
lontananza:
1) Zona di Distanza Intima
2) Zona di Distanza Personale
3) Zona di Distanza Sociale
4) Zona di Distanza Pubblica
La Distanza Intima, compresa tra 0 e 45 cm,
comporta un grande coinvolgimento con gli altri; si percepiscono rumori ed umori
intimi, come il respiro, gli odori, il sudore o il profumo della pelle e
addirittura il calore del corpo dell’altro.
Fase
di Vicinanza - I soggetti si trovano ad una distanza inferiore ai 15 cm.
L’iride si ingrandisce oltre il naturale. La vista, l’olfatto, il calore dei
corpi, il rumore, l’odore ed il sentire il respiro sono segnali combinati in
un contatto o prossimità del contatto. Il contatto, la trasmissione di odori e
calore nonchè l’attività muscolare possono agire per inviare e ricevere
messaggi (ad esempio durante l’amplesso amoroso).
Fase
della Lontananza ( 15-45 cm). La visione è distorta e comprende la testa, le
spalle ed a volte le mani. La modulazione della voce è molto bassa, si coglie
il calore e l’odore dell’altro.
La
Distanza Personale: è compresa tra i 45 e 120 cm, segue il principio del
non-contatto; è quella che contraddistingue i rapporti di famiglia e con le
persone più conosciute, è così definita perchè è questa la distanza in cui
si trattano solitamente questioni personali.
Fase
di Vicinanza (45 - 75 cm). Vi è la possibilità di toccare l’altro. La
visione non è più distorta e comprende un angolo visuale di 15°, rendendo
molto chiara la tridimensinalità dell’immagine. In questa fase è possibile
un contatto solo nel rispetto delle norme che regolano i ruoli sociali.
Fase
di Lontananza (75 -120 cm). E’ la fase delle relazioni in cui si “tiene a
distanza” l’interlocutore. Lo sguardo domina la parte superiore del corpo e
non entrano in gioco nè l’olfatto nè la percezione del calore. La voce è
modulata con un tono più alto e consente una perfetta intesa verbale.
La
Distanza Sociale è compresa tra 120 cm a 360 cm. In questa distanza fra gli
interlocutori non è presente l’intenzione di giungere a contatto; viene
solitamente adoperata nelle trattative di questioni impersonali, come ad esempio
in incontri di lavoro o fra semplici conoscenti.
Fase
della Vicinanza ( 120 - 210 cm ). L’intera figura è percepita, a cominciare
dai particolari della testa, man a mano che ci si sposta dal 120 ai 210 cm. E’
la posizione in cui si trattano affari impersonali ed assume molta importanza la
posizione rispetto all’interlocutore (ad esempio stare in piedi a guardare
l’altro seduto ha un effetto di dominio), si produce inoltre anche un effetto
ipnotico del movimento degli occhi e della bocca durante la conversazione. La
voce viene modulata con normalità e senza alcuno sforzo di caratura.
Fase
della Lontananza ( 210 - 360 cm ). E’ la fase dei rapporti formali. Il corpo
viene percepito a colpo d’occhio e per intero. Entrano in gioco sia gli
effetti della visione foveale che quelli della visione periferica, per cui
diventano estremamente importanti i segnali della postura degli arti e la
posizione dello sguardo (effetto LASCIAPASSARE).
E’
altresì importante il tono della voce che se alzato adeguatamente può
ripristinare gli effetti di conversazione presenti nella Distanza Personale.
La
Distanza Pubblica è compresa da 360 cm ad aumentare. Oltre questa distanza fra
le persone non sono percepibili molti dettagli relativi al corpo e un
coinvolgimento intenso è sempre meno probabile; un esempio è dato dal
rapporto tra un personaggio noto ed il suo pubblico.
Fase
Di Vicinanza ( 360 - 750 cm). E’ la fase del cosiddetto “stile formale”,
sia nell’atteggiamento del corpo che nella modulazione del linguaggio. A circa
5 metri il corpo comincia ad apparire piatto e la visione periferica tende a
mettere a fuoco più soggetti che stanno dentro l’angolo dei 60°.
Lo
spostamento tra il margine minimo (360 cm) e quello massimo (750 cm) è un
chiaro segnale della propensione alla “fuga”, in caso di minaccia fisica o
psicologica.
Fase
della Lontananza ( oltre 750 cm ). La comunicazione verbale può avvenire solo
con precisi accorgimenti di modulazione vocale e sintesi dei concetti. Anche la
mimica facciale o la positura degli arti diventano pressoché irrilevanti.
Mentre assume una grande importanza la positura del corpo e la gestualità. Man
a mano che ci si allontana oltre i 7,50 metri le singole persone tendono a
perdere l’effetto di attrazione dell’attenzione che viene sostituito dal
complesso del contesto ambientale.
Via
via che ci si allontana dalla Distanza Intima verso la Distanza Pubblica assume
sempre maggiore rilevanza la Velocità con cui ci muoviamo nello Spazio, per i
suoi effetti sulla Comunicazione.
IL PROGETTO E L’AZIONE
Se
in Occidente l’occupazione non cresce la causa non sta solo nel mercato
stagnante e nelle imprese che non investono, ma è anche una conseguenza della
trasformazione culturale della società. Le potenzialità di trasformare,
modellare, inventare la materia inorganica e biologica permesse dalla nuova
tecnologia, spingono i giovani ad immaginarsi più come creativi che come
produttori.
Sarà
bene prepararsi ad un lungo periodo di insicurezza sociale ed economica, questo
ci viene ripetuto quotidianamente da politici ed economisti, nostrani e non, e
devo confessare che, in conflitto con il mio connaturato ottimismo, sono tra
quelli che non vede una situazione rosea nel breve futuro. Purtroppo quando si
parla di “breve tempo” in economia si ragiona in termini di periodi che
vanno dai cinque ai dieci anni. Con la situazione economica attuale ed il tasso
di disoccupazione e sottoccupazione del 10/12%, che nel sud Italia arriva a
picchi di oltre il 50%, questi “brevi periodi” sono una vita per le persone
che, in carne ossa ed aspirazioni, compongono queste fredde percentuali.
Un
disoccupato che oggi ha circa 30 anni ha pochissime possibilità di trovare un
lavoro stabile e meno che mai corrispondente al suo livello medio di cultura ed
alle sue aspirazioni.
Questo
è quello che ci vogliono dire i soloni della politica e dell’economia quando
addolciscono la pillola con termini tecnici ed arzigogolati quali “flessibilità”,
“gabbie salariali”, “lavoro intirinale”, etc.. Significa che lavoro non
ce n’è e che qualche lira la si può tirar sù solo adattandosi alle esigenze
temporali delle imprese. Quando poi sentiamo gli enfatici inviti a creare
impresa rivolti ai giovani ci sembra di sentire un canto stonato, come dire:
ragazzi arrangiatevi! Fare impresa è già difficile in una condizione di
espansione economica, figurasi in una fase di recessione e con i nuovi mercati
dell’est europeo ed asiatico che sono bacini infiniti di manodopera a buon
mercato! Senza contare che per avviare nuove imprese, oltre ovviamente ai soldi,
sono necessari esperienza, competenze tecniche e gestionali che un giovane
disoccupato, soprattutto nelle aree depresse, riuscirà ad avere solo in
modestissime realtà, magari traendole da un’impresa familiare già esistente.
Allora
la questione del lavoro, in queste condizioni, va affrontata con una concezione
nuova dell’intervento dello Stato, oggi più che mai necessario, per fare in
modo che queste prospettive pessimistiche assumano una dinamica il più
possibile accelerata, tanto accelerata da riuscire a ridurre al massimo i tempi
della ripresa economica e del rilancio della domanda interna, dei consumi.
Questi ultimi ormai, vissuti come indicatore della qualità della vita, assumono
valenza psicologica e non è più possibile pensare ad una politica sociale che
metta al bando la tendenza al consumo, ma è necessario andare incontro a questi
bisogni e promuovere la capacità di scelta consapevole della gente.
E
qui si inserisce un altro punto cruciale. Che tipo di domanda e che tipo di
consumi è possibile incrementare oggi nei paesi occidentali?
Fino
agli anni sessanta, primi anni settanta, la produzione industriale era
indirizzata verso prodotti che trovavano mercato in una società in cui il
benessere sociale veniva identificato (giustamente) con la disponibilità di
beni atti a migliorare le condizioni di vita delle famiglie: automobili,
lavatrici, frigoriferi, televisori, etc. Questo tipo di produzione aveva creato
un aumento dell’occupazione nei settori industriali corrispondenti, a
discapito, soprattutto, ma non solo, delle campagne meridionali e dei mestieri
artigianali che ruotavano attorno all’economia di tipo agrario. Mestieri come
l’arrotino, il fabbro o il calzolaio persero rapidamente il loro peso
economico e questo mise le persone che li esercitavano nelle condizioni di
ricollocarsi in un’economia rivolta ad un mercato di massa; ma la
trasformazione economica di quegli anni non creò gravissime conseguenze dal
punto di vista del tasso medio di occupazione, pur creando problemi di
adattamento a situazioni sociali e culturali del tutto nuove per i lavoratori
costretti ad abbandonare il tipo di vita “tranquilla” delle campagne per
gettarsi nel caos e nei ritmi frenetici delle città, con la conseguenza non
meno drammatica, in Italia, dell’emigrazione dal sud al nord del paese,
condizione che portava con sè anche enormi disagi di tipo materiale e sociale,
che oggi colpiscono evidentemente i lavoratori immigrati.
Negli
anni settanta poi la crisi energetica fu una premessa (in parte fittizia) per
bloccare le rivendicazioni sindacali che avevano caratterizzato, anche con forme
di lotta molto dure, la fine del decennio precedente. Chi ricorderà la
cosiddetta “politica dell’austerità” (ed esempio il periodo della
circolazione delle auto a giorni e targhe alterne!) avrà più facilità a
capire che è proprio in quel periodo che comincia a crearsi tra la gente un
senso di insicurezza e di sfiducia nel progresso (aiutato sul più politico dal
picco degli anni di piombo, del terrorismo) ed il cosiddetto “ritorno al
privato” che ha generato negli anni ottanta quella corsa sfrenata
all’individualismo, all’arrampicata sociale a tutti i costi, allo yuppismo.
In
questo contesto la corruzione politica, emersa con le “tangentopoli” (non
solo in Italia), è figlia di un distacco sempre crescente della politica dai
bisogni reali della gente, ma è anche una chiave di lettura per capire i due
problemi fondamentali che oggi sono all’ordine del giorno: la disoccupazione
in crescita e la crisi della sinistra, anche questa non solo italiana.
Partiti
come la Democrazia Cristiana hanno dominato la scena politica ed istituzionale
per quasi cinquanta anni ed al loro crollo la politica italiana ha imboccato una
strada che, facendo leva sull’insicurezza sociale (e quindi sul bisogno di
nuove certezze della gente), vede oggi le espressioni politiche moderate e di
destra come forze sempre più consistenti.
Ma
quale è stata la forza fondante della Democrazia Cristiana che gli ha permesso
di stare al potere per così lungo tempo?
Senza
pretendere di fare dettagliate analisi politiche, diciamo che la Democrazia
Cristiana nasce nel periodo della ricostruzione del secondo dopoguerra e si
rafforza nel periodo del cosiddetto “boom economico” degli anni sessanta,
cioè due periodi in cui la spesa pubblica è stata una imponente leva di
sviluppo e di crescita dell’economia.
La
spesa pubblica significava gestione non solo di risorse economiche ma anche di
consenso politico (utilizzati troppo spesso per creare fortune economiche e
politiche personali o di gruppi ristretti).
Oggi
la parola d’ordine è proprio il contrario, cioè: ridurre al minimo la spesa
pubblica e lasciare spazio all’iniziativa privata.
E
questo avviene quando in quasi tutti i paesi europei la sinistra è al governo,
Italia compresa fino alla passata legislatura. Senza la spesa pubblica che
incentiva la ripresa economica e crea domanda, produzione e quindi occupazione
è gioco forza che chi governa è destinato all’impopolarità. La sinistra
infatti perde ad ogni tornata elettorale consensi in misura importante.
Ma
senza l’intervento dello Stato nell’incremento della produzione le realtà
ed i soggetti già strutturati economicamente sono destinati ad aumentare le
proprie capacità di crescita, mentre le realtà ed i soggetti più deboli
vedono sempre più diminuire le opportunità di riscatto e di benessere sociale
ed economico (aggiungendo a questo quella grande parte di economia drogata dalla
presenza mafiosa che rafforza questa tendenza).
Certo
oggi è necessario pensare ad un tipo di investimenti che sia correlato non solo
ai bisogni materiali ma anche a quelli psicologici della gente. Quindi quando si
parla di occupazione è necessario guardare verso settori economici a forte
innovazione tecnologica, capaci di mettere sul mercato un tipo di occupazione
“appetibile” soprattutto da giovani che hanno un titolo di studio medio-alto
ai quali non si può offrire un futuro di Lavoratori Socialmente Utili (cioè
assistiti), sono necessari lavori che consentano di “creare” un’offerta di
servizi e prodotti idonei alla complessa realtà economica e sociale dei paesi
occidentali. Tutto ciò è possibile, esistono settori quali la ricerca,
l’ambiente, il cosiddetto terzo settore, i servizi alle imprese che consentono
di innescare questo meccanismo di sviluppo.
Uno
dei tanti spunti su cui è possibile riflettere come occasione per indirizzare
gli investimenti, soprattutto pubblici, è il S.I.T. (Sistema Informativo
Territoriale) uno strumento in grado di creare innovazione nella pubblica
amministrazione, razionalizzazione e risparmio di risorse economiche pubbliche
che potranno essere destinate ad ulteriori investimenti e una qualità
complessiva dei servizi pubblici di alto livello che andrà a beneficio del
miglioramento complessivo della vita, tutto questo creando contemporaneamente
occupazione a forte tasso di specializzazione e conoscenze tecniche e
socioeconomiche, cioè non solo quello che serve per i nostri giovani
disoccupati, ma soprattutto quello che essi cercano.
Naturalmente
questo tipo di sviluppo non può non guardare a quei paesi (per noi soprattutto
nel Mediterraneo) che, o perchè in via di sviluppo o perchè in condizioni di
forte arretratezza industriale e sociale, premono con sempre maggiore forza alle
nostre frontiere.
Integrare
questi bisogni è forse la sola possibilità che abbiamo per dare una spinta
forte in avanti e creare nuova occupazione e nuove condizioni di sicurezza e
giustizia sociale, interna ed internazionale.
Questi
obiettivi non sono perseguibili unicamente attraverso una politica di difesa
dello stato sociale (peraltro oggi messa sempre più a rischio)
ed una politica economica capace di rilanciare produzione, consumi ed
occupazione, ma è necessario uno sforzo imponente per mettere la gente, i
giovani in primo luogo, in condizioni di affrontare la realtà come un elemento
di ricerca dei propri limiti da superare, ridando il gusto della scoperta e la
curiosità verso le capacità dell’uomo in continua interazione con il mondo,
bisogna insomma restituire la voglia di sfidare il presente per costruire il
futuro.
I
venti di destra nel mondo invece ci fanno ripiombare in scenari di scontro tra
culture, dove il razzismo fa da specchio al terrorismo e dove la guerra nasconde
la sete di potere delle lobbies mondiali e dei governi fantoccio assoldati al
loro servizio.
Ma
oggi molto più che nel passato riusciamo a cogliere contemporaneamente
informazioni provenienti da ogni parte del mondo, dove esistono realtà sociali
e culturali anche estremamente diversificate, con una rapidità che appena
cinquanta anni addietro non sarebbe stata possibile e questo ci porta ad
amplificare il contrasto tra la crisi dei valori tradizionali (che ancora
sentiamo troppo vicini nel tempo) delle società ad alto tasso di sviluppo
industriale e le inquietudini spesso drammatiche che scuotono realtà sociali e
culturali che stanno vivendo solo oggi quei momenti di trasformazione economica
e politica che l’Europa ed il Nord-America hanno vissuto in un passato lontano
molti decenni, che solo apparentemente sembrano assimilabili.
Quando
guardiamo ai cosiddetti Paesi in via di sviluppo l’errore più grande che
spesso commettiamo è quello di giudicare le loro vicende politiche e sociali,
impregnate di forti tensioni ideali spesso drammatiche, con i nostri parametri
sociologici e morali.
Nel
passato questa diversità di valori saltava subito agli occhi degli studiosi più
sensibili poichè le società subivano delle trasformazioni estremamente lente
ed altrettanto lenta era la circolazione delle informazioni, per cui uno
studioso, che prendeva coscienza dell’anabasi culturale ed esistenziale, aveva
tutto il tempo di riflettere sul manifestarsi dei fenomeni di trasformazione ed
anche di teorizzare su di essi con sufficiente distacco; oggi è necessario un
maggiore impegno di astrazione per non essere travolti dalla quotidianità e
cadere nell’errore di giudizi affrettati e definitivi. Occorre insomma
costruire un nuovo modello antropologico di riferimento uscendo definitivamente
dal nostro retaggio medioevale.
Erich
Fromm, nell’opera “Fuga dalla libertà”, mette in relazione la scelta di
sottomissione dell’uomo moderno con il senso di solitudine che gli deriva
dalla presa di coscienza della sua individualità.
Individualità
distinta come essere biologico e come individuo sociale.
Come
essere biologico l’uomo tende ad identificarsi come entità che, pur facendo
parte del mondo naturale, ha tuttavia sviluppato una capacità di
condizionamento tale della natura stessa da porsi su un piano quasi parallelo
rispetto al resto del mondo biologico.
Il
dominio dell’uomo sulla natura, anzicchè rivoluzionare la sua concezione di
vita ed affermare una coscienza di identificazione dell’uomo con
l’ecosistema (identificazione avulsa da qualunque relazione tra scienza e
valori etici), ha rafforzato una concezione esistenziale che colloca l’umanità
su un piano metafisico intermedio tra il mondo biologico e la divinità; solo la
sconfitta della morte non ha fatto scavalcare all’umanità questa soglia che
ancora lo separa dall’essere dio (ma in futuro... chissà?). Come individuo
sociale egli ha sviluppato un sistema economico ed un’organizzazione sociale
talmente complessi da divenire sempre più impersonali ed astratti, controllando
completamente ogni aspetto della vita pubblica e privata, e tali da far apparire
l’individuo come un piccolissimo ed insignificante ingranaggio di una macchina
gigantesca in grado di funzionare a prescindere dall’esistenza di ciascuno
degli individui che la compongono.
Questa
realtà ha portato l’individuo a rinchiudersi sempre più in un suo mondo
privato tentando di sfuggire alla sensazione di oppressione, che proprio la
coscienza della solitudine gli provoca, vivendo questa solitudine come una forma
di difesa “dai nemici esterni” che lo costringono a conformasi ad un modo di
vivere che gli crea alienazione impedendogli di esprimere il suo bisogno di
individualità.
Ma
il vizio principale di questo atteggiamento non è quello di sentire il bisogno
di esprimere la propria individualità, ma quello di credere che quest’ultima
si debba esprimere secondo le tipologie di relazione sociale che sono imposte
dall’omologazione culturale.
Un
individuo infatti che cerca di competere, in una società in cui il potere si
esercita controllando il sistema di comunicazione globale, utilizzando i
parametri imposti dallo stesso sistema, necessariamente si trova a sbattere
contro il muro di gomma che questo sistema ha innalzato intorno a lui e che è
rappresentato dalla polverizzazione dei centri decisionali, dai vari livelli
delle relazioni sociali, nel mondo del lavoro, in quello della produzione
artistica, in quello della politica o in quello della morale, per citarne
alcuni.
Sconfitto
dalla incapacità di riappropriarsi della facoltà di autodeterminazione usando
gli strumenti di competizione del sistema, egli si sente sempre più piccolo,
insignificante ed inadeguato dentro questo meccanismo, senza capire che proprio
il fatto di averne accettato le regole lo porta alla sconfitta. Egli torna a
rinchiudersi in sè stesso maturando un impalpabile odio verso il mondo esterno
ed in sostanza verso sè stesso e cadendo lentamente in uno stato di rinuncia
alla vita che si esprime a volte con la via della droga o della violenza, ma il
più delle volte in un muto ed acritico conformismo al sistema di vita
massificato che lo porta a quella morte meno cosciente della morte biologica ma
altrettanto reale che è l’annullamento del sè stesso originale. Tutto ciò
senza peraltro riuscire a vincere la sensazione di alienazione, di solitudine e
di paura che anzi viene rafforzata a livello inconscio.
Questo
bisogno di identità che, se frustrato origina alienazione e senso di inutilità,
deve trovare la sua maniera di esprimersi e questa può essere realizzata nella
capacità di ogni individuo di avere coscienza di sè stesso come parte del
tutto in senso sia biologico che culturale e messa in atto attraverso i
sentimenti positivi, primo tra tutti l’autostima e l’accettazione degli
altri. Non è un’impresa facile da realizzare perché, come abbiamo visto,
innanzitutto è necessario conoscere i meccanismi che determinano il nostro
comportamento, tanto quelli naturali che quelli culturali, avendo consapevolezza
di questi meccanismi, ancorchè sentirci schiacciati da questi
“determinismi” potremo tentare di utilizzarli indirizzandoli positivamente
per affermare il “nostro modo di essere noi insieme agli altri” ed il
“nostro modo di amare la vita”.
ECCO L’ALIENO: L’HOMO NOOLITICUS
Nei
nr. 2 e 3 /96 di Helios Magazine il prof. Domenico Rodà ha presentato una parte
dei suoi studi sulle comunità grecaniche della provincia di Reggio Calabria.
Un’affascinante analisi glottologica ed un lavoro di grande interesse
antropologico sui discendenti degli antichi coloni greci della costa ionica
reggina che in epoca medioevale, minacciati dai saraceni, si ritirarono nelle
zone impervie dell’Aspromonte e lì diedero vita a villaggi e piccole comunità
rurali organizzate, sia dal punto di vista urbanistico che produttivo, sul
modello che ancora oggi è possibile rintracciare in alcune zone della Grecia
nord occidentale o della Cappadocia. Queste comunità, a causa di una condizione
di isolamento dovuto alla posizione geografica (l’entroterra aspromontano),
alla quasi totale assenza di reti stradali, ed al progressivo spostamento delle
vie commerciali dall’asse italo-greco alle rotte marittime dell’Atlantico,
del Mediterraneo occidentale, e successivamente al Golfo Persico, hanno potuto
conservare idiomi e tradizioni risalenti al periodo ellenistico.
Isolamento,
questa è la parola chiave misteriosa pronunciata, con malcelata nostalgia, da
quanti guardano al passato con gli occhi della propria memoria giovanile che
poco ha a che fare con la storia vera.
La
cosa che colpiva maggiormente, nelle ricerche del professore Rodà, era
soprattutto il fatto che quelle condizioni di isolamento si siano potute
mantenere fino agli inizi degli anni settanta del XX° secolo, proprio 1970 per
essere chiari, fino a quando cioè in quei paesi non arrivò l’energia
elettrica e le strade percorribili con le automobili.
Lasciamo
l’Aspromonte e le sue martoriate ed affascinanti pendici e facciamo un salto
nel tempo e nello spazio. New York anni ‘50, erano gli anni del rock e di
Elvis.
Liverpool
anni ‘60, erano gli anni dei Beatles e dei Figli dei Fiori negli U.S.A. e
nelle grandi città europee, ed anche gli anni in cui i primi uomini lasciavano
la Terra e scendevano sulla Luna.
Parigi
1968, scoppiava il Maggio della contestazione giovanile.
Aspromonte
anni ‘70, arriva l’energia elettrica e con questa i primi elettrodomestici e
la televisione.
Come
avranno visto il mondo che si affacciava dai teleschermi quegli uomini, quelle
donne, quei giovani e quelle ragazze che fino ad allora erano stati tagliati
fuori dall’occidente reale, pur facendone parte di fatto?
Questa
risposta necessiterebbe uno spazio ben più consistente di queste poche righe,
ma le condizioni di arretratezza economica in cui si trova oggi questa parte del
Mezzogiorno d’Italia, se non esclusivamente, certamente trova le sue cause
anche in questo stato di isolamento.
In
sostanza, in un medesimo tempo, la realtà, a Parigi e ad Africo Vecchio di
Reggio Calabria non era percepita allo stesso modo.
Il
mondo aveva dimensioni, colori, suoni e ritmi assai differenti in queste due
realtà occidentali. E la capacità di comprensione e di partecipazione
economica e politica evidentemente ha seguito destini diversi.
Oggi
siamo nella cosiddetta era della multimedialità, le comunicazioni telematiche,
la televisione digitale. I progressi della tecnica nel campo dell’ingegneria
genetica e molecolare, delle nanotecnologie, ecc. stanno portando (o dobbiamo
dire che hanno già portato) l’uomo ad inventare una nuova specie: l’Homo
Nooliticus (28).
Che
stia comparendo una nuova specie umana sulla terra, può apparire una
affermazione paradossale, perchè ancora i nostri riferimenti culturali
(soprattutto quando affrontiamo il discorso su noi stessi!) associano la
comparsa di specie biologiche nuove a tempi commensurabili nell’ordine di
milioni di anni, invece i progressi della scienza e della tecnologia realizzati
nell’ultimo secolo ci hanno posto davanti ad uno degli eventi più rilevanti
della storia dell’umanità: la tendenza a zero del fattore tempo.
Nella
filosofia contemporanea il tempo viene definito come inesistente,
nell’esplorazione spaziale l’abbattimento del tempo come limite della
velocità è il vero traguardo a cui si tende, nella comunicazione multimediale
il traguardo è la comunicazione globale (audio, video e sensoriale) in tempo
reale.
Questo
contesto può produrre diversi tipi di effetti nell’individuo e nei gruppi
sociali tecnologizzati: inconsapevolezza, incredulità, mera constatazione,
angoscia, entusiasmo.
Siamo
in un’epoca di transizione, questo termine spesso abusato, ha però un
indubbio valore se collocato in una scansione spazio-temporale che divide non
solo i paesi, non solo le ricchezze e le povertà, ma anche le generazioni
contemporanee.
Ricordo
che un’anziana signora, negli anni settanta, dopo aver conversato per telefono
con una sua parente ammalata di influenza, finita la conversazione, si rivolse a
me chiedendomi seria e preoccupata se per caso non potesse essere stata
contagiata per telefono. La mia risata di ragazzo impertinente la mandò su
tutte le furie. Ma la sua preoccupazione era sincera. Lei usava il telefono
perchè glielo avevano fatto installare i figli, ma di cosa fosse veramente, di
come funzionasse, di dove andasse a finire quel filo attaccato alla parete, non
aveva la minima idea. Certo, neanche se lo chiedeva, era lì, funzionava in modo
abbastanza semplice e questo le bastava senza troppe domande e se non avesse
avuto la mia maleducata risata forse non se le sarebbe mai neanche poste, tanto
le risposte non poteva capirle, erano fuori dal mondo di cui lei conosceva il
funzionamento.
E’
successo anche a me con i primi contatti con la tecnologia informatizzata e con
alcuni concetti sulla biologia, ma guardo ormai senza stupore ai ragazzini delle
scuole medie inferiori che già hanno superato la fase dell’uso del computer
per entrare senza difficoltà particolari nella fase della programmazione dei
software informatici padroni dello strumento e dei nuovi linguaggi che esso
impone.
Specularmente
però esiste un’altra “realtà” nello stesso luogo e appartenente alla
stessa generazione.
Ripetendo
i metodi di indagine sociologica partecipativa molto in uso negli anni settanta,
ogni tanto, entro “in incognito” nei gruppi giovanili di diversi ambienti
sociali per osservarne i comportamenti, i linguaggi, la gestualità quale forma
non solo complementare ma spesso alternativa di comunicazione intersoggettiva.
Così
mi capita di osservare i “corner-boys” dei ceti sociali marginali, ma anche
della media borghesia dei quartieri periferici, che esprimono con i loro
linguaggi e atteggiamenti distanze siderali dai loro coetanei
“tecnologizzati”, con ricadute sul piano economico, sociale, politico ed
esistenziale del tutto differenti.
E’
una nuova forma di sottoproletariato, che nè Marx nè Taylor avevano la
possibilità di prevedere. Un sottoproletariato che anche quando riesce ad
inserirsi, in un qualsiasi modo, nel ciclo produttivo e quindi procurarsi un
reddito di sussistenza, rimane comunque ai margini estremi della società, una
società che già oggi non funziona più secondo i modelli organizzativi che
tutti noi abbiamo studiato sui libri di scuola, che loro stessi hanno studiato
sui libri di scuola, di una scuola spesso inconsapevole ed impreparata a gestire
questo nuovo fenomeno, istituzionalmente in colpevole ritardo, colpevole perchè
la scuola dovrebbe formare ragazzi attrezzati per gestire il futuro e non lo fa.
E
qui sta anche la chiave di lettura del nuovo sottoproletariato urbano, che fino
ai primi anni sessanta era rappresentato da individui privi di scolarizzazione e
di reddito, oggi sono scolarizzati inutilmente e per questo incapaci di
inserirsi nel ciclo produttivo, ma anche incapaci di capire perchè la società
gli indica modelli di comportamento improntati a dinamismo e (anche se si tende
a non usare più una definizione ritenuta politicamente scorretta) a
“competizione sociale”. Per questo si chiudono in sè stessi, in forme di
autodistruttività, di passività, spesso anche di violenza. Questi ragazzi
fuggono da un mondo che non conoscono e non riescono a capire, ma non hanno dove
andare; senza politiche di nuova solidarietà sociale, messe in atto oggi,
questi ragazzi saranno emarginati per tutta la vita e la società si troverà a
dover provvedere a loro in termini di assistenza nei prossimi anni. E l’assistenza
non è una scelta tra due possibilità, ma una forma obbligata di contenimento
dei danni quando si è ormai in ritardo per attuare soluzioni.
Da
un lato i corner-boys, nuovo proletariato, dall’altro la nuova borghesia,
ragazzini giovanissimi che sono perfettamente in grado, spesso in forma
autonoma, di appropriarsi delle tecniche di comunicazione multimediale con
grande facilità, perchè hanno disponibilità in famiglia o nei gruppi di amici
che frequentano di conoscere ed utilizzare la tecnologia avanzata, di imparare
l’inglese e di incuriosirsi verso il mondo ed aprirsi ad esso.
Questi
ragazzi, coetanei, che vestono gli stessi abiti, guidano gli stessi scooters,
usano gli stessi telefonini, guardano la stessa televisione, questi ragazzi sono
abitanti di pianeti diversi, parlano due lingue diverse, si muovono in
dimensioni spazio-temporali differenti, seguono un’evoluzione di specie
differenziata.
La
specie Homo Nooliticus forse ancora non è quella predominante sul pianeta, ma
comincia già a dimostrare le sue potenzialità e tutto fa prevedere una sua
diffusione sul pianeta in tempi rapidissimi.
Un
pianeta in cui le diseguaglianze sono destinate a radicalizzarsi se oggi non si
pone rimedio attraverso politiche di cooperazione e solidarietà internazionale
e locale improntate su modelli di sviluppo equilibrato tra produzione di beni e
salvaguardia dell’ambiente, su un’equa distribuzione delle risorse ma anche
delle conoscenze e delle potenzialità tecnologiche, se non si abbandona,
soprattutto nel cosiddetto Terzo Mondo affamato e sfinito, la sciagurata e
demagogica moralizzazione delle politiche demografiche.
Senza
queste scelte forse l’Homo Nooliticus non prenderà il sopravvento sul pianeta
Terra (su altri?..) ma solo perchè il nostro ecosistema non gliene darà il
tempo.
Non
vogliamo qui approfondire il fatto che il confine tra due millenni è solo uno
stato psicologico, che semplifica fin troppo la nostra coscienza storica,
abituati come siamo a ragionare non in termini di storia complessiva del mondo
ma solo in termini di eventi e categorie limitate agli ultimi duemila anni.
Eventi peraltro con un baricentro geografico e culturale collocato
nell’Occidente. Dobbiamo comunque ammettere che, qualunque ne sia l’origine,
uno stato emotivo determina il manifestarsi di fenomeni che hanno una loro
logica ed autonomia. Questa fine di millennio, nella manifestazione formale e
rituale, si sta caratterizzando, e non potrebbe essere diversamente, con
simbologie e costruzioni logiche mutuate dalla tradizione storica risalente alla
fine del primo millennio. Non potrebbe essere diversamente non solo per un fatto
di conoscenza storica acquisita nella tradizione occidentale del fenomeno, ma
anche e soprattutto perchè riferendosi ad una dimensione spazio-temporale
definita in relazione ad un evento religioso (la nascita di Cristo) il passaggio
epocale assume connotazioni filosofiche e rituali di tipo trascendentale e
comunque legate alla simbologia religiosa giudaico-cristiana.
Ecco
allora che la fine del millennio è intrisa di presagi di catastrofe e di fine
del mondo, a dispetto del fatto che mai come in questo momento storico
l’umanità ha avuto tante potenzialità di progresso proprio nel campo della
sicurezza e del complessivo miglioramento delle condizioni economiche, sociali
ed ecologiche.
Non
vogliamo minimizzare i problemi legati alla diffusione delle guerre cosiddette
“locali”, alla crescita delle diseguaglianze economiche tra paesi
industrializzati e paesi poveri o alla drammatica crisi internazionale in atto,
ma solo sostenere che, rispetto al passato, vi è una maggiore consapevolezza di
questi problemi ed una reale volontà (non senza contraddizioni e forse più
dettata dalla paura che dalla fiducia) di affrontarli e risolverli con un
impegno globale.
Nessun
facile ottimismo, insomma, ma neanche catastrofismo. La fine del secondo
Millennio è un fatto storico relativo. Se dovessimo ad esempio ridefinire il
calendario facendolo partire, anziché da un evento religioso, da uno degli
avvenimenti laici che hanno cambiato la condizione dell’uomo nella storia
dell’umanità, come ad esempio la capacità dell’uomo di abbandonare il
proprio pianeta e spingersi verso altri mondi cominciando l’esplorazione dello
spazio, dovremmo ammettere che non solo non siamo alla fine del Secondo
Millennio, ma neanche a metà del Primo Secolo e lo stesso discorso varrebbe se
prendessimo a misura la possibilità dell’uomo di “creare” la vita
attraverso la genetica.
L’uomo
ha ormai definitivamente varcato la soglia della sua dimensione prettamente
biologica entrando nella dimensione della tecnologia avanzata. Ogni volta che
nella storia dell’umanità si sono create sostanziali condizioni e capacità
di incidenza umana nella trasformazione della natura queste condizioni sono
state accompagnate dalla nascita di nuove forme espressive. Già con l’uomo di
Cromagnon la capacità di creare utensili di pietra e di utilizzare il fuoco si
è accompagnata alla comparsa delle prime forme di espressione pittorica, le
pitture rupestri, forse anche alla musica e alla danza; all’affermarsi
dell’agricoltura e degli insediamenti stabili di tipo cittadino compare la
scultura e la scrittura; il passaggio dal medioevo all’età moderna vede
assieme lo slancio verso l’ignoto, culminato con la conquista del Nuovo Mondo,
lo sviluppo della scienza ed il fiorire del Rinascimento italiano che,
nell’arte e nell’architettura, impone il segno di questa trasformazione con
l’introduzione della “prospettiva”.
E’
opportuno chiarire che ci riferiamo ad esempi tratti dalla cultura occidentale
senza per questo voler affermare in forma esclusiva la centralità della cultura
occidentale nella storia dell’umanità; purtuttavia l’ultimo secolo ha
segnato una evidente supremazia dell’occidente nel progresso della scienza e
della tecnologia e ciò sta avendo ricadute significative su tutta l’umanità.
Oggi viviamo una nuova era di sviluppo tecnologico ed anche a questa si
accompagna una nuova forma di comunicazione, basata più sull’immagine che
sulla parola che è stata dominatrice del passato.
Attraverso
l’immagine e la capacità di trasmetterla con mezzi sempre più sofisticati ed
in tempi sempre più veloci, si sta velocemente trasformando non solo la nostra
cultura ma anche la nostra scala di valori, la nostra capacità di analisi della
realtà e conseguentemente anche la nostra capacità di comprensione dei
processi di trasformazione della stessa.
L’immagine
mostra la superficie delle cose, fermandosi ad analizzarla si scoprono i
processi che la producono, le interazioni tra fatti, strumenti, obiettivi a
breve, medio e lungo termine, si scopre il legame che l’evento presente ha con
ciò che lo precede e ciò che lo segue. Tutto questo oggi diventa sempre più
difficile a causa della velocità e dell’abbondanza di messaggi visivi che
riceviamo da strumenti mediatici sempre più complessi ed efficienti.
Come
un bambino che comincia ad imparare l’alfabeto non riesce a comprendere
immediatamente la corrispondenza tra un segno e l’oggetto che esso rappresenta
nella realtà, così oggi chi è sottoposto all’esercizio continuo di
apprendimento dei linguaggi espressi con la tecnologia multimediale, spesso non
riesce a cogliere con immediatezza (a volte non lo coglie affatto) il legame
effettivo tra quei messaggi e la realtà corrispondente. Ma come un bambino che
legge sillabando la parola “gioco” pur non avendo immediata comprensione del
termine, conosce bene il
significato della “realtà del gioco”, così oggi noi abbiamo coscienza
della realtà che ci circonda, ma non riusciamo ancora a padroneggiarne il
linguaggio che la raffigura, perché questo linguaggio è in continua
trasformazione e perché stanno rapidamente cambiando i “segni” di
rappresentazione. La conoscenza è oggi il nuovo limite tra uguaglianza e
diseguaglianza, tra ricchezza e povertà, tra coscienza e stati di allucinazione
da fine millennio. E il deficit di conoscenza diventa anche frustrazione,
impossibilità di cercare quel particolare stato di singolare libertà che ci
viene dalla capacità immaginativa se la conoscenza non si estrinseca in attività.
L’attività o, in termini marxisti, lavoro non è solo una condizione per
soddisfare bisogni, è molto di più: è la possibilità di scambiare esperienze
di confrontare conoscenze, ideazioni e sensibilità. E’ il brodo primordiale
in cui il materialismo dialettico si spinge oltre i confini del positivismo e
diventa, appunto, fantasia, immaginazione, momento di libertà che da un
individuo passa alla società e può trasformare la vita di tanti altri
individui.
Lo
stesso dubbio mi suscitano le forzate esequie della psicoanalisi e delle teorie
di Sigmund Freud.
Uno
dei punti centrali di questo lavoro è il tema della “complessità” e questo
tema lo stiamo da tempo sviluppando sia nei suoi aspetti scientifici che in
quelli antropologici.
La
complessità riferita ad un sistema, sia esso biologico ovvero sociale, non può
prescindere dal principio di relazione tra gli elementi che stanno alla base
dello stesso principio. Questo ci impone di analizzare un sistema tenendo
costantemente in considerazione che, nonostante la sua unitarietà, al suo
interno possono insorgere manifestazioni fenomeniche che spesso possono essere
plurime e differenti, seppure “causate” dalle medesime condizioni iniziali.
Queste tesi sono ormai affermate e ne prendiamo continuamente cognizione nel
campo della ricerca scientifica con i modelli proposti dalla logica fuzzy, in
quello più propriamente neourobiologico con la ricerca sulle funzioni
cerebrali, in campo psicoanalitico con l’approccio olistico all’analisi
della personalità.
Abbiamo
avuto il privilegio di incontrare e discutere con il Prof. Ilya Prigogine
(premio Nobel per la chimica) e con il prof. Gil-Aluja (tre volte candidato
premio Nobel per l’economia). Riflettendo sulle teorie di entrambi, che pure
operano in campi assolutamente differenti (il primo con le sue teorie
cosmologiche, il secondo con quelle macroeconomiche) si rafforza l’importanza
fondamentale che ha assunto il principio di complessità. In particolare i
modelli macroeconomici del prof. Gil-Aluja, che ha ottenuto importanti
riconoscimenti internazionali per il suo lavoro anche nel campo della ricerca
informatica, tornano a farci riconsiderare il materialismo dialettico come base
delle attuali conoscenze scientifiche ed antropologiche(29).
Sul
piano sociologico, non c’è dubbio che Karl Marx abbia fallito la sua
previsione circa la futura supremazia della classe operaia. Egli, figlio della
rivoluzione industriale, non poteva prevedere quanto avrebbe contato lo sviluppo
della scienza e della tecnologia nella trasformazione del lavoro. Ma sul piano
dell’analisi macroeconomica e storica?
Il
termine che sentiamo usare più spesso oggi, quando si parla di economia, è
“globalizzazione”. Marx usava termini quali “imperialista” o
“colonialista” per descrivere condizioni di assoggettamento, spesso
supportato dall’intervento militare, di interi paesi o zone del mondo, che
portava ad un ferreo condizionamento sia del mercato che della forza lavoro.
L’analisi marxista presagiva il pieno sviluppo del sistema capitalistico con
conseguente nascita e sviluppo della classe operaia. Non era nelle previsioni
marxiste che il processo si dovesse interrompere e deviare verso il modello
“chiuso” adottato da Lenin per la rivoluzione russa o da Mao per quella
cinese. Per Marx il sistema è aperto (utopico) e “globale”, da qui la
nascita dell’Internazionale Socialista che era la conseguenza logica ad una
visione globale dello sviluppo del sistema capitalista. Prevedendo l’impetuosa
diffusione delle macchine nella produzione industriale, Marx trae una
conseguenza immediata: una macchina uguale un operaio, quindi la classe operaia
doveva necessariamente diventare classe maggioritaria. Marx non poteva prevedere
l’informatica che sarebbe venuta solo cento anni dopo e che avrebbe interrotto
questo processo di causa-effetto.
La
guerra fredda imbottiglia i paesi nazional-comunisti dentro cortine di ferro ed
embarghi commerciali. Questo provoca una “artificiale” evoluzione del
sistema politico ed economico di quei paesi. Come teorizzato il sistema marxista
si sarebbe potuto, in qualche modo, evolvere, secondo le previsioni del suo
ideatore, solo in condizioni di libero mercato, sia delle merci che della forza
lavoro. Ne con il modello nazionalista di Lenin ne tantomeno con il “blocco”
imposto dai paesi capitalisti si è potuto sperimentare e verificare
l’attendibilità del modello marxista.
Nel
frattempo la società occidentale si è rapidamente mossa verso un tipo di
sviluppo fortemente condizionato dal progresso scientifico e tecnologico che ha
determinato fondamentali ed irreversibili trasformazioni della composizione
delle classi sociali e nuove forme di monopolio a dispetto delle sbandierate
teorie neoliberiste.
La
principale conseguenza di questa nuova evoluzione è legata alla rivoluzione
produttiva determinata dall’immissione massiccia nel sistema di produzione
delle automazioni nel settore industriale e in quello agricolo; per di più la
produzione agricola è oggi fortemente influenzata anche dalle scoperte
scientifiche che hanno incrementato e trasformato sia la produzione che la
trasformazione e conservazione dei prodotti delle campagne come mai nel passato
era accaduto (l’ingegneria genetica in questo settore ha aperto orizzonti
infiniti!).
Trasformato
il sistema produttivo con questi strumenti, in Occidente, si è verificata
l’inversione della tendenza prevista da Marx nello sviluppo delle classi
sociali. Operai e contadini sono drasticamente diminuiti di numero (tra
l’altro migliorando anche il loro tenore di vita, seppure a scapito dei
lavoratori dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo) ed è sorta una nuova
componente sociale che rapidamente è divenuta maggioritaria: il ceto medio, sia
quello impiegatizio che quello commerciale.
Tutto
questo ha una rapida evoluzione nei due decenni successivi alla seconda guerra
mondiale.
Una
seconda importante conseguenza di questa trasformazione avviene all’interno
della nuova componente sociale. La prima generazione del ceto medio di massa,
infatti, è figlia della massa di operai e contadini che avevano vissuto le
condizioni di sfruttamento del sistema produttivo capitalista fino alla fine
degli anni cinquanta, e rimane in parte ancora legata a quelle condizioni,
soprattutto dal punto di vista culturale e psicologico. E’ una generazione
chiusa, scarsamente alfabetizzatata (nel Sud Italia possiamo tranquillamente
dire analfabeta), che esce dal dramma della seconda guerra mondiale e con grandi
sacrifici comincia a riconquistare condizioni seppur minime di sicurezza
sociale. In queste condizioni, questa generazione, non può che essere
conservatrice, conservatrice di quel poco di benessere che comincia a comparire
nei primi anni sessanta. Tra le condizioni di benessere riconquistato vi è la
possibilità di aumentare la scolarizzazione dei propri figli e la diffusione
degli elettrodomestici, primo tra tutti il televisore, e ciò porta questi figli
a guardare al futuro con dinamismo e una gran voglia di cambiamento, un
cambiamento che ha come modello culturale la contrapposizione ideologica, al
sistema capitalistico rigidamente conservatore anche sul piano dei costumi e
dalla morale. E’ la cosiddetta contestazione giovanile, maturata con gli unici
strumenti di analisi al momento esistenti cioè quelli marxisti.
E’
la generazione che dà vita in tutto il mondo occidentale al cosiddetto
Sessantotto.
Questa
generazione, in una straordinaria enfasi di cambiamento, mette in discussione
tutte le categorie culturali esistenti, contrapponendosi non solo al sistema
politico vigente, ma anche alla generazione dei propri padri, ne nasce quella
che allora veniva definita come incomunicabilità generazionale. Tra padri e
figli non si riusciva a comunicare, linguaggi e valori era totalmente
differenti. Erano totalmente diversi i parametri culturali di riferimento.
Questa generazione di giovani determina una radicale trasformazione dello stile
di vita della società occidentale. Però in quella trasformazione vi è una
contraddizione forte (che ne determina anche a mio avviso l’incapacità di
trovare modelli alternativi praticabili sia sul piano politico che economico e
che l’avvia verso l’involuzione ed il declino motivazionale): mentre mette
in discussione i modelli culturali della generazione precedente, analizza la
società con categorie filosofiche e sociologiche che appartengono a quella
società stessa che contesta. Cioè alla generazione dei sessantottini sfugge la
trasformazione in atto del sistema produttivo e culturale nel suo complesso.
Da
un lato quindi vive e mette in crisi i modelli comunicativi che la legava alla
generazione precedente e dall’altro non coglie il nascere dei nuovi modelli,
che sono il frutto della trasformazione del sistema determinata dallo sviluppo
scientifico e tecnologico che avanza come un fiume in piena negli anni settanta
e ottanta.
Sono
proprio i nuovi modelli culturali in cui sono nati e cresciuti i figli dei
sessantottini, che provocano la nuova crisi e creano una nuova fase di
“incomunicabilità generazionale”. E su questa incomunicabilità e sui
disagi culturali e psicologici che ha determinato, il dibattito è più che mai
aperto. E le metodologie di analisi di Marx e Freud sono ancora lo strumento più
efficace per affrontarlo. Liberi da preconcetti e modelli precostituiti a difesa
o contro questi due grandi protagonisti della cultura occidentale.
CONCLUSIONI
LA STRUTTURA,
IL CONTENUTO E IL TERRITORIO VIRTUALE
Quando
abbiamo descritto il meccanismo di riconoscimento della realtà virtuale abbiamo
messo in rilievo l’imprescindibilità della condizione corporea del soggetto
che elabora la consapevolezza di quella condizione che simula la realtà. E’
il corpo infatti che invia al nostro cervello i dati sensibili spazio-temporali
per definire la realtà.
Secondo
Karl Popper (30)
i prodotti della mente (mondo 3) hanno una loro autonomia, sono un mondo che
solo in parte appartiene a chi li ha prodotti, anzi diventano a loro volta
elementi per costruire una realtà in un certo senso nuova anche per chi l’ha
elaborata.
Questo
processo di costruzione del mondo fisico e psichico, che ha sede nella mente
dell’uomo che elabora e sintetizza le proprie esperienze emotive e i propri
stati percettivi, è un continuo processo di organizzazione dell’informazione
che si possiede o che si acquisisce nel momento stesso dell’elaborazione.
Tutto
questo in genere avviene nell’ambiente fisico in cui ci si trova ad agire e
l’interazione dei tre mondi indicata da Popper è un’interazione che si
arricchisce di elementi e significati man a mano che aumenta la consapevolezza
delle funzioni che svolgono gli elementi del mondo 1 (stati fisici), in
relazione con l’elaborazione dei dati a livello mentale, cioè il mondo 2
(stati mentali), e con gli oggetti del mondo 3 (prodotti della mente umana).
Questo
processo sviluppato attraverso l’interazione dei tre stati o mondi popperiani
indirizza la conoscenza verso le mete che sono più congeniali a quei problemi
risolti attraverso l’esclusione di errori per tentativi, cioè attraverso un
processo di tipo evolutivo.
Ora
però che, come già abbiamo visto nelle pagine precedenti, nelle società
complesse occidentali il nostro campo d’azione diventa sempre più
circoscritto sul piano fisico e si ampliano in maniera sempre più veloce i
luoghi virtuali della nostra azione comunicativa, soprattutto con la fruizione
dell’informazione proveniente dalla televisione o dagli strumenti di
comunicazione telematica come la rete internet, la tipologia dell’ambiente in
cui questo processo avviene sta subendo una trasformazione veramente radicale
sia nella quantità che nella qualità di azione comunicativa che viene
prodotta, cioè quello che Popper chiama Mondo 3 si evolve molto più
rapidamente di quanto si evolvano gli altri due mondi, non solo lo stato fisico
ma anche quello mentale.
La
domanda che si pone adesso è: funzionano ancora, in questo contesto, i
meccanismi psicobiologici propri del territorio e se funzionano quali sono le
dimensioni spaziali ed emotive che si vengono a creare in questo nuovo tipo di
territorio? In definitiva quale è il nuovo ambiente antropologico in cui si è
inserita la nostra esistenza individuale e sociale?
Sottoponiamo
queste domande ad un’analisi progressiva.
Cominciamo
col ricordare che le situazioni che si definiscono atopiche sono quelle
situazioni in cui la comunicazione psicofisica è marginale rispetto alla
comunicazione in cui la percezione sensoriale nel suo complesso viene attivata
ed utilizzata anche emotivamente, producendo effetti sul vissuto “in tempo
reale”.
In
queste situazioni atopiche giocano un ruolo fondamentale il movimento e la
velocità, due fattori che sono in grado di alterare sia gli stati percettivi di
tipo fisico, sia gli stati emotivi, sia l’elaborazione di questi stati a
livello mentale.
Nel
territorio fisico l’aumento del numero di individui, dati per stabili lo
spazio e la disponibilità di beni atti a soddisfare i bisogni di sussistenza
primaria come il cibo, le zone di fuga per la salvezza o per la protezione dai
pericoli ambientali e la disponibilità di scambi sessuali necessari per la
riproduzione, mette in moto atteggiamenti aggressivi o di mascheramento che, più
o meno ritualizzati, tendono a
difendere lo spazio personale ed i soddisfacimento dei suddetti bisogni. Il
punto è però che lo stato di aggressività non è prolungabile per un tempo
indefinito e risponde invece a regole precise di natura biologica ed emotiva.
Un
esempio interessante è l’esperimento condotto dall’etologo John Cristian,
riportato nella citata opera di E. Hall (op. cit. pag. 34) circa il
comportamento dei cervi residenti tra il 1916 ed il 1960 a James Island
(Maryland). In numero di 4-5 individui nel 1916 i cervi si riprodussero fino a
raggiungere circa 300 individui nel 1958 (con una densità di un individuo ogni
4 mq circa). Fino a tutto il 1957 l’esame di alcuni esemplari effettuato per
controllane lo stato fisico e la struttura degli organi interni ha fatto
registrare una situazione assolutamente ottimale (il cibo ed il rapporto
maschi/femmine era più che sufficiente per le esigenze del gruppo). La
situazione precipitò di colpo nei primi tre mesi del 1958 quando morirono senza
apparente giustificazione 161 esemplari, cioè circa la metà della colonia; nei
successivi due anni i decessi si susseguirono finchè sull’isola non rimasero
che una ottantina di individui. Secondo John Cristian, che ha condotto le
autopsie sugli esemplari rimasti vittime di questa crisi, i decessi non potevano
essere ricondotti a denutrizione, tutti infatti avevano un peso soddisfacente e
condizioni generali buone, anzi avevano aumentato il loro peso corporeo in media
del 30% rispetto alle condizioni
verificate prima dell’inizio della moria, quello che c’era di diverso tra i
primi decessi e quelli avvenuti nei due anni successivi all’inizio della crisi
era la variazione del peso e della funzionalità delle ghiandole surrenali,
ipertrofiche sia nei maschi che per le femmine (con un 10% in più per i maschi)
nella fase di massima densità demografica; poi il peso cominciò a scendere drasticamente e si manifestarono
scompensi funzionali negli esemplari sottoposti ad esami nei due anni della
moria, per i giovani maschi, non ancora sessualmente
maturi la differenza di peso delle ghiandole surrenali fu addirittura inferiore
fino al’81%. Le ghiandole surrenali hanno un’importanza fondamentale nel
regolare il processo di crescita, riproduzione e difesa immunologia
dell’organismo. I cervi in condizioni di sovrappopolazione sono stati
sottoposti a fattori elevatissimi di stress dovuto alla difesa del territorio
atto al nutrimento ed alla riproduzione e il punto di crisi arrivò quando
l’organismo degli animali non riuscì più a sopportare i ritmi di ipertrofia
delle ghiandole surrenali e ciò provocò una drastica caduta delle difese
immunologiche e quindi situazioni di disadattamento sociale e riproduttivo.
I
cervi si sentivano minacciati dagli altri esemplari e sull’isola, dove non
avevano via di fuga, quindi stavano sempre in allerta, in stato di ansia e di
aggressività continui. Successe qualcosa di simile durante la guerra di mafia
degli anni ’80 a Reggio Calabria, gli esami autoptici eseguiti sulle vittime
di mafia hanno fatto riscontrare analoghe condizioni di ipertrofia delle
ghiandole surrenali. Anche lì lo stress prolungato e la costante paura di
essere uccisi o di dovere uccidere portò molti mafiosi a ridursi in condizioni
psichiche patologiche.
Ma
questo avveniva in un ambiente e in un sistema relazionale fisico e naturale.
Quale
è la nostra reazione invece quando ci troviamo in prevalenza a gestire le
nostre relazioni in un ambiente “mediato”?
Torniamo
a Popper ed ai suoi tre mondi.
In
una realtà sociale in cui in cui la formazione della personalità è fortemente
condizionata da una visione del mondo convulsa e frammentata proveniente da
quella che possiamo definire una nuova agenzia educativa quale è la
televisione, rafforzata sempre più dalla comunicazione telematica, il nostro
mondo interiore viene alimentato da prodotti della mente sempre più staccati
dal mondo fisico e dal processo di elaborazione mentale messo in relazione con
questa fisicità. Il nostro territorio insomma non è più prevalentemente
quello in cui maturiamo le nostre esperienze percependo in maniera diretta
l’effetto delle nostre azioni e delle nostre relazioni sociali e constatando
in maniera immediata le nostre reazioni emotive attraverso la possibilità di
osservare in contemporanea il nostro stato psicofisico e modulando le nostre
risposte emotive e comportamentali in rapporto spazio-temporale di tipo reale.
Accumuliamo stati emozionali latenti che appartengono a situazioni in cui noi
non abbiamo praticamente alcuna possibilità di intervento reale e immediato. Il
risultato di questo processo è un accumulo di fattori stressogeni che non
trovano via di fuga (siamo isolati emotivamente, incapaci di rispondere in tempo
reale agli stimoli che ci provengono dalla comunicazione sociale mediata dai
mezzi tecnologici, un pò come i cervi dell’isola del Maryland). Inoltre
l’allagamento della nostra concezione del mondo causata dall’ingresso nel
nostro territorio, nella nostra zona personale, di quel mondo esterno che
irrompe attraverso la televisione e l’effetto amplificante che si produce
discutendo di esso quotidianamente, in famiglia e nella società, ci fa
avvertire una nuova forma di affollamento territoriale poiché ci siamo noi, le
persone, gli oggetti e gli ambienti fisici sempre più ristretti della nostra
vita reale ed in più c’è il mondo “virtuale” in cui ci sentiamo
emotivamente coinvolti. Tutto questo ci fa sentire minacciati, fa sentire il
nostro spazio personale minacciato e a questa sensazione rispondiamo con un
accumulo di aggressività latente.
Come
se ciò non bastasse il tipo di struttura sociale e produttiva in cui di norma
la maggior parte di noi si trova ad agire è modulata anch’essa su problemi
complessi e su ritmi incalzanti e questo non solo aumenta le nostre ansie e lo
stress che ne deriva, ma, risultando squilibrato rispetto alla nostra normale
capacità di elaborazione mentale, ci fa sentire estraneo questo mondo e questo
non fa che aumentare i fattori di ansia e le nostre paure inconsce. La nostra
incapacità di capire, seguire e gestire questi processi frantuma la nostra
identità individuale portandoci a sempre maggiori stati di alienazione che a
volte, in situazioni particolari (uno stadio di calcio, una manifestazione
politica, situazioni in cui si esprime cioè una forma di antagonismo) fa
scattare la nostra aggressività, ma nella maggior parte dei casi si trasforma
in un sentimento di disistima autoriferita e in una scelta di abbandono della
partecipazione, sia essa quella di una vita familiare di dialogo, di ascolto e
di confronto con il nostro partner
e con i nostri figli, sia con il resto del gruppo sociale che non riusciamo più
a sentire come gruppo di appartenenza.
Insomma
la struttura in cui si forma la nostra personalità si rivela ancora una volta
come prevalente rispetto al contenuto particolare ed alle singole funzioni che
vi si svolgono. E questo lo possiamo constatare ogni giorno, in ogni situazione,
sia nel rapporto con il vicino di casa che non conosciamo più, sia
nell’organizzazione del lavoro in cui non riusciamo ad integrarci, sia nella
crescente difficoltà ad intessere relazioni affettive intime e originali che
riscontriamo quotidianamente.
Il
processo coevolutivo della nostra specie si è incrinato e rischia di spezzarsi
del tutto. Rimane il processo evolutivo della nostra struttura sociale, che ha
di certo preso la strada suggerita da Pierre Levy verso la specie di Homo
Nooliticus, solo che noi ancora non ci siamo impadroniti del codice comunicativo
idoneo a gestire la nostra appartenenza a questa nuova specie. Ne abbiamo però,
credo, individuato i problemi ed i rischi e questa è certamente una carta che
la capacità della nostra immaginazione saprà giocare per vincere anche questa
partita. E’ necessario recuperare la capacità di lettura della realtà o
meglio delle realtà ed è necessario vedere la fine di un clima di paura e odio
diffuso, dal nostro privato alle nazioni del mondo, vedere lo sviluppo di una
globalizzazione delle coscienze, della conoscenza diffusa e democratica, del
rispetto della diversità intesa come manifestazione particolare e complessa di
un tutto che non può essere ignorato nella sua unità e caotica armonia.
Il
nuovo spazio antropologico che sta nascendo, sotto i nostri occhi, ha bisogno di
una nuova rivoluzione culturale che rompa gli schemi della struttura rigida e
lineare che appartiene al retaggio del passato e ci faccia proiettare in una
dimensione nuova in cui valgano certo ancora le leggi storicizzate nella
dimensione del presente, funzionali alle esigenze emotive ed identificative
della nostra individualità quotidiana, ma che nello stesso tempo sviluppino in
noi la coscienza di una realtà complessa, aperta e pluridimensionale sia sul
piano culturale che su quello del rapporto tra mondo reale e mondo probabile.
Sia sulla dimensione prossemica del nostro vissuto quotidiano che sulla
pluridimensione di uno spazio cosmico ancora tutto da capire e da scoprire.
Abbiamo
la necessità di vivere in questo mondo con la maggiore consapevolezza possibile
delle norme strutturali che regolano la nostra realtà presente, dobbiamo cioè
vivere nella consapevolezza della nostra realtà storica, sapendo però che
questa realtà è solo una parte, una particolare strutturazione, di un altro
tipo di realtà pluridimensionale in cui queste regole possono essere ribaltate
se non addirittura scomparire del tutto. In fondo se è vero che noi viviamo e
siamo così come siamo qui e ora non è detto che questo ci impedisca di
immaginare un’esistenza del tutto differente sia sul piano materiale che su
quello trascendentale. Queste ipotesi lasciano aperte molte domande a cui ancora
non riusciamo a dare risposte logiche. Ma questa è già una risposta ed è una
risposta che presuppone un sistema cosmico, fisicamente reale, di cui noi
facciamo parte nel modo in cui siamo “formati”, di tipo aperto e non
lineare, complesso e pluridimensionale. Questo ci offre la possibilità di
uscire dall’incongruenza di una ricerca esistenziale in cui invece siamo
trascinati presupponendo un sistema chiuso, in cui non possiamo avere alcuna
possibilità di immaginare l’insieme, poichè non è possibile “osservare il
tutto stando all’interno di questo tutto”. Solo chi è posto all’esterno
di un sistema può osservarlo e
quindi descriverlo. Forse possiamo osservare, studiare e capire solo un punto
(la realtà presente) di questo sistema, ma possiamo lasciare aperta la
possibilità di essere capaci un giorno di cambiare punto e prospettiva di
osservazione, se invece accettiamo di vivere dentro un sistema chiuso cadiamo in
un paradosso in cui non c’è via di uscita e dove saremmo costretti a girare
sempre intorno alla nostra esistenza finita.
NOTE
1) Edward HALL, La dimensione nascosta, pag. 38 – Ed. Bompiani, 1966
2) Erich FROMM, Fuga dalla libertà, pagg. 190-194 – A. Mondadori Ed., 1987
3) F. BECCARIA, Le antiche civiltà del vicino oriente, vol. I, pag. 128 - Universale EURODES, 1979
4) F. BECCARIA, Le antiche civiltà del vicino oriente, vol. II, pag. 485 - Universale EURODES, 1979
5) F. BECCARIA, Le antiche civiltà del vicino oriente, vol. I, pag. 66 - Universale EURODES, 1979
6) Skol VREIZH, Histoire de la Bretagne des origines à 1341, pag. 62 – Morlaix (Francia) 1983
7) Gwyn JONES, I Vichinghi, pagg. 171-172 - Ed. Newton Compton, 1977
8) Giulia SFAMENI GASPARRO, Le religioni orientali nel mondo ellenistico-romano – Ed. UTET, 1971
9) EROTODO, Le storie, Libro I, pag. 261 – Ed. BUR, 1993; (ed inoltre: Diogene LAERZIO, Vite dei Filosofi, libro I, pag. 9, Ed Laterza, 1983)
10) Giulia SFAMENI GASPARRO, Le religioni orientali nel mondo ellenistico-romano, pag. 432 – Ed. UTET, 1971
11) Emanuele SEVERINO, La filosofia antica, pag. 84, Ed. Rizzoli, 1984
12) Manicheismo: “Dottrina nata in Persia dalla predicazione di Mani (III° sec. d.C.); forti le suggestioni del dualismo della religione persiana di Zoroastro in cui Mani ha assorbito elementi cristiani... ebbe gran diffusione nella Persia, nell’India, nel Tibet, nella Cina e nel Turkestan; in occidente, particolarmente nelle provincie d’Africa e nell’Italia meridionale.” (Adorno-Gregory-Verra, Storia della Filosofia, pagg. 357-358 - Ed. Laterza, 1976). * Fu seguace del manicheismo sant’Agostino che in seguito però lo criticò aspramente, quando, giungendo a Roma e poi a Milano, entrò a far parte delle alte cariche ecclesiastiche fino a diventare vescovo di Ippona (n.d.r.).
13) Paolo FLORES D’ARCAIS, Etica senza fede, pag. 131 - Ed. Einaudi, 1993
14) Erich FROMM, Psicoanalisi e religione - Ed. Mondadori, 1987
15) Erich FROMM, Fuga dalla libertà - Ed. Mondadori, 1987
16) A. ALLAND Jr., L'imperativo umano, Ed. Bompiani
17) Robert K. DENTAN, The Semai: A noviolent People of Malaya, New York, Holt, Reinehart and Winston, 1968
18) Marino LIVOLSI, Identità e progetto, Ed. La nuova Italia, Firenze 1987
19) Marino LIVOLSI, Identità e progetto, Ed. La nuova Italia, Firenze 1987
20) Helios Magazine, Club Ausonia Ed., (http://www.diel.it/helios)
21) L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, 1953, Ed. it. Einaudi 1983
22) H. PUTNAM, Mente, Linguaggio e Realtà, p.73, Ed. Adelphi, 1987
23) Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 1965
24) Henry LABORIT, La Agresividad Desviada, Ed. Peninsula, Barcellona 1975
25) Henry LABORIT, L'Homme imaginant. Essai de biologie politique, Colletion 10/18. Union Generale d'Editions, 1970
26) Marino LIVOLSI, op. cit.
27) Joseph LEDOUX, Il cervello emotivo, Baldini & Castaldi, 1998
28) Pierre LEVY, L'Intelligenza collettiva, Feltrinelli Interzone).
29) Jaime GIL-ALUJA, su http://www.diel.it/helios/97/5/aluja.html
30) K. POPPER, La conoscenza e il problema corpo-mente, Il Mulino, Bologna, 1994
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-
SKOL VREIZH, Histoire de la Bretagne des origines 1341, Morlaix (Francia) 1983.
Nota
dell’autore
-
Prefazione alla prima stesura
-
Introduzione
Parte prima
- Il mito e la libertà
-
La solitudine della città globale
- Il mito come legge transecolare
-
Il mito dell'immortalità nella storia dell'uomo
-
L'Egitto
-
La nascita di dio
-
Sviluppo e crisi dell'etica utilitaristica
-
La trasgressione elemento di continuità
-
Un muro cade mille si innalzano
-
Erich Fromm e la sensazione di libertà
-
Tra voglia di libertà e desiderio di protezione
Parte seconda
- Lo spazio antropologico
-
L'uomo è la sua cultura
-
Il sesso e la riproduzione
-
L'identità sfumata
-
Identità e lavoro
- Azione e comunicazione
-
La mente e il corpo
- La realtà e l’identità
- Lo spazio dove batte il cuore
- Gli organi di senso
- L’olfatto
- Lo spazio termico
- L'udito
- La vista
- Il filtro sensoriale
- Lo spazio vitale: riconvertire la città
- Significato, funzioni emotive e
culturali delle distanze spaziali
Parte
terza –
Dal
pensiero debole al pensiero dolce
- Il progetto e l’azione
- Ecco l'alieno: l'Homo Nooliticus
- Comincia il Terzo Mellennio?
- Lo specchio di Babele
- La struttura,
il contenuto e il territorio virtuale
Note
Bibliografia
HELIOS Magazine |