Imago Mundi.
Su mappe, modelli, e storia dell’arte
di eduardo grillo
L’ultimo decennio – ma
forse qualcosa di più - ha visto le cosiddette “scienze della cultura”
affaticarsi sul Cartographic o Geographical o Spatial Turn, nel tentativo di
rendere conto dell’esplosione di studi che ruotano intorno al concetto di spazio
in generale, ma soprattutto di mappa. Il mondo dell’arte non poteva certo
stare a guardare, considerata la natura insieme visiva (il “mezzo” percettivo) e
grafico (il procedimento di costruzione) delle mappe. Così, già tre anni fa al
MAXXI di Roma venivano esposte le mappe geopolitiche di Laura Canali, disegnate
per la rivista Limes, sotto il titolo “Frontiere dolorose”, in cui colori e
linee costruiscono gli spazi dei conflitti. Attraverso il Web sono invece
accessibili le opere del giovanissimo artista Martin Vargic, specializzato (è
inutile dirlo) in mappe, tra le quali riscuote ammirazione la “Mappa della
letteratura”, in cui le città sono singoli autori, i paesi correnti e generi
letterari, mentre la reciproca disposizione dei territori ne riflette
l’evoluzione storica.
Tutto
questo mentre è ancora in corso a Firenze, a Palazzo Vecchio, l’esposizione di
due opere di Alighiero Boetti (il lettore non stupisca: si tratta di mappe),
ricamate su cotone da donne afgane su disegno dell’artista. Insomma, siamo
nell’era del trionfo della cultura visuale, tutto il mondo parla il linguaggio
della geografia, l’arte si adegua (o tenta di far sentire la propria voce). Una
tal messe di segni merita forse un tentativo di spiegazione. Se è vero quel che
ci dice il geografo Franco Farinelli (ad esempio La crisi della ragione
cartografica, Einaudi), l’età della globalizzazione ci costringe a
considerare il mondo per quel che è: un globo appunto, e non più uno spazio
piano e liscio, insomma una mappa. Secondo Farinelli, durante l’età moderna
abbiamo interpretato il mondo come una mappa, proiettando uno spazio metrico sul
territorio, assumendo dunque che fosse facilmente percorribile. Adesso, ogni
centro da cui far partire linee di fuga rette si è perso: un unico colpo
d’occhio è ormai impossibile. Ma proprio per questo, forse, cresce il bisogno di
fare mappe, nel tentativo di dominare la complessità, orientarsi, trovare
se non più la strada, almeno una strada. In fin dei conti è già
successo: il Rinascimento e il Barocco hanno forse ruotato intorno alla “perdita
del centro” cosmico che segna la fine del Medioevo. Ma naturalmente è diverso:
l’Umanesimo e il Rinascimento perdono il rapporto verticale con il Dio del Cosmo
(ordinato e generoso di privilegi), ma lo rimpiazzano con l’Uomo e il suo
rapporto con il Mondo, visto da un punto d’osservazione sopraelevato. Questo
rivolgimento contribuisce a spiegare il coevo impulso all’esplorazione della
Terra, e resta ancora da scrivere la storia dell’impatto delle scoperte
geografiche sulla produzione artistica. Adesso non abbiamo più una teologia, sia
pur laica, che ci assegni un posto sicuro nel mondo. Siamo irrimediabilmente
delocalizzati – e il termine è appropriato, contesi come siamo tra omologazione
e rivendicazione dei confini. Che l’arte colga il segno dei tempi e cerchi forse
di anticiparli, non stupisce: cos’è l’arte, se non un mezzo – particolarmente
efficace e diretto – di conoscenza? Il semiologo Lotman ha giustamente notato
che se l’arte fosse solo una forma di espressione dello spirito, non si
spiegherebbe la costanza di tanti artisti, nonostante la sequenza ininterrotta
di carestie, epidemie, guerre che hanno minacciato la nostra sopravvivenza su
questo pianeta. Per parte sua Emilio Garroni, da un punto di vista estetologico,
ha ribadito kantianamente che non c’è nulla di suntuario nell’arte, luogo di
formazione di giudizi, simboli e metafore, sebbene di incerta natura
concettuale, non sprovvisti di valore conoscitivo. Resta da stabilire se l’arte
interpreti il mondo assumendolo come dato, cioè si limiti a darcene un’immagine
statica, o ne fornisca modelli buoni anche per operarvi dentro. Le opere che ho
citato all’inizio dovrebbero rispondere meglio di un trattato: tutte, nel
“ritrarre” il nostro mondo, ne propongono contestualmente immagini alternative:
i disegni di Laura Canali ci stimolano incessantemente a formulare i nostri “e
se fosse…”, insomma a figurarci mondi possibili, in particolare scenari di pace;
la mappa di Vargic, fingendo di illustrare rapporti consolidati tra generi e
correnti letterarie, forse li istituisce, privilegiandone alcuni. Infine, le
“tele” di Boetti, realizzate dalla cooperazione tra Occidentali e Orientali, nel
loro valore quasi geopolitico suggeriscono la natura fruttifera della diversità.
Lotman (di nuovo) ha definito le varie arti come sistemi modellizzanti
secondari; secondari perché successivi o dipendenti (è questione spinosa)
dal linguaggio verbale, ma comunque in grado di fornire modelli culturali capaci
di rappresentare il nostro mondo, renderlo significante, comprensibile,
manipolabile. Sto dunque suggerendo di considerare la storia dell’arte come la
storia di modelli culturali, veicoli di bellezza ed emozioni? A naso – anzi, a
occhio – sembra una bella idea, forse non nuova, ma sempre promettente.