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 società

Reportage dal Kosovo e dai Balcani - storie dimenticate

Versione in inglese

di giuseppe badessarro

(articolo pubblicato nel 2003)

 

 

 

 

Il  mio primo viaggio nell’area dei Balcani risale ad un aprile opaco del 1999. In Kosovo l’operazione contro Milosevic era in corso da alcuni mesi. E in Albania continuavano ad arrivare decine di migliaia di profughi in fuga da quello che in “occidente” era stato presentato con una sorta di genocidio di massa. L’Italia del Governo D’Alema, e del sottosegretario Marco Minniti, era impegnata, assieme agli alleati americani, nell’operazione militare internazionale contro il leader serbo ed io ero riuscito ad aggregarmi al convoglio calabrese della missione Arcobaleno. Inizialmente eravamo statinati a Kukes, ma poi, per questioni di sicurezza, fummo dirottati a Valona.

Il viaggio iniziò, il 29 aprile del ‘99. La missine che doveva essere, e che fu portata a termine, prevedeva la costruzione di un campo profughi in grado di ospitare cinquemila kosovari.

Qui, per la prima volta, ebbi l’occasione di un confronto diretto con i ragazzi albanesi subito, e con quelli kosovari, comunque di etnia albanese, poi.

Non è superfluo ricordare che se i kosovari erano in guerra, gli albanesi di Valona lo erano ancora di più. Magari una guerra diversa, ma altrettanto violenta e dura. Valona, maggiore città industriale (?) albanese, era in realtà terra di nessuno, o meglio, terra in mano di bande armate e della mafia degli scafisti. Corrotti e corruttori coabitavano il nulla sia in termini di attualità che di futuro. Valona era, e per quanto ne so è ancora una moderna (solo in termini temporali) Beirut.

Durante la costruzione del campo, che impegnò le prime 48 ore della missione, ci rendevamo conto di quello che in quanto italiani rappresentavamo: soldi e guadagno facile per la mafia locale, un sogno per i ragazzi.

L’interprete.

Non ricordo esattamente il suo nome, ricordo però che ci aveva detto di chiamarlo con un nome italiano. Emilio o qualcosa del genere. Aveva 13 anni forse di meno, ma non parlava di lui molto volentieri. In compenso conosceva molto bene la nostra lingua. L’aveva imparata come molti suoi coetanei attraverso la televisione. Quella scatola magica accesa 15 ore al giorno e sempre sintonizzata sulla Rai. Così, Emilio aveva imparato a parlare l’italiano, prima ripetendo meccanicamente poi, via via, dando un significato ai suoni e mettendo quei significati uno dietro l’altro. Un pò come un neonato ascoltando la mamma. E quella mamma gli raccontava un mondo meraviglioso. Nel quale bastava prendere la linea per vincere denaro, alzarsi al mattino e scegliere tra le mille opportunità. Emilio, si propose come interprete, come facchino, come amico, come qualsiasi cosa avessimo voluto l’importante era stare con noi, con gli italiani. Inizialmente per gioco, un pò perché ci faceva davvero tenerezza lo facevamo venire al campo. Era davvero utile e la direzione arrivo persino a pagarlo regolarmente per il suo lavoro. Emilio aveva una sorella più grande, anche lei parlava l’italiano e anche lei finì per lavorare al campo. Oggi, mi dicono che è sposata con uno degli operatori italiani. Il suo sogno forse si è avverato. Emilio aveva vergogna di essere Albanese, non trovava una ragione plausibile alla differenza di atteggiamento tra i ragazzi di Valona e “quegli italiani dolci che giocavano con i bambini kosovari”, “che li facevano divertire” e che soprattutto “lo facevano senza chiedere soldi in cambio”. I soldi era questo che non si spiegava. “Forse agli italiani non interessavano perché ne avevano tanti”, o “forse gli italiani erano stupidi”. “Possibile che non capivano che soldi vuol dire mangiare, lavarsi, andare a scuola, portare la mamma da un medico, avere un ruolo nella società, essere rispettati, poter contare?”.

Con Emilio come interprete e guida, ero sicuro. Andavo in giro per la Valona senza correre il rischio di essere derubato o peggio di essere ucciso perché di soldi in tasca ne avevo pochi. Lui conosceva le strade, i volti, la gente. Fiutava il pericolo. Emilio voleva venire in Italia. Un anno dopo aver concluso quel viaggio ho rincontrato uno dei miei compagni di avventura, uno di quelli della missione Arcobaleno. Come accennato mi ha detto che la sorella del piccolo interprete si era sposata con un italiano e che stavano facendo i documenti per il ricongiungimento familiare.

Le ragazze del Kosovo

La sveglia al campo profughi suonava sempre presto. E non so bene se fosse un male o un bene. Dormivamo a terra nei sacchi a pelo. Ci voleva almeno un ora per riprenderci dei dolori alle ossa. Rimetterci in movimento, dopo il trauma dei primi minuti, era quasi una benedizione: Il motto era meglio stanchi che rotti. Al mattino si prendeva il caffè. Poi ci si metteva al lavoro. Bisognava preparare la tinozza del latte per i profughi. Latte e una fetta di panettone a maggio. I panettoni erano un dono delle aziende lombarde e comunque era nutriente e i bambini ne andavano matti. Dopo la colazione si iniziava a preparare per il pranzo. Un lavoro faticoso. Come pure faticoso era lavare i servizi igienici (si fa per dire) comuni, distribuire il vestiario e le medicine, ripulire (per quanto possibile) il campo, provvedere agli approvvigionamenti. Dopo i primi giorni ci rendemmo conto che non avremmo potuto resistere. Eravamo davvero in pochi ed i profughi erano ogni giorno di più. Stavano davanti alle loro tende e ci guardavano crollare uno dopo l’altro. A volte bastava un angolo. Ci mettevamo a sedere e chiudevi gli occhi e dormivi. Alla sera ti levavi la maglietta che grondava lavoro, cercavi una fontana e tentavi di lavarla per rimetterla al mattino dopo. Le ragazze kosovare si avvicinavano e si offrivano di lavarci quello che ormai non era più di un cencio. Piano piano, iniziarono a presentarsi in cucina per dare una mano, a pulire e disinfettare i servizi. A tenere in ordine il campo. A gestirsi. E man mano che si appropriavano di spazi quotidiani sui loro volto leggevi serenità, allegria. Rivedevi i sorrisi. Il nostro aiuto, la nostra presenza era indispensabile. Loro capivano e rispettavano, ma volevano fare da soli. Erano un popolo. Erano i giovani di un popolo e volevano lottare per esso. Scegliere, governarsi. In Kosovo non era possibile. Paradossalmente nel campo profughi si, anzi era indispensabile. Col tempo quella massa di sofferenza iniziò a prendere forma. E i volti diventarono volti, storie, conoscenze, capacità, professionalità, vita. Il barbiere torno a fare il barbiera, la cuoca tornò in cucina, i maestri improvvisarono una scuola, le infermiere somministravano i farmaci. Un popolo distrutto, con la morte nel cuore, tornò ad essere società. E mentre i vecchi continuavano ad osservare dalla soglia delle tende, i ragazzi diventavano motore, proposta, fantasia.

Dopo ventidue giorni arrivarono gli altri volontari a darci il cambio. Dovevamo rientrare. Anche quello lo ricorderò come un giorno opaco.

 

I Kurdi

Era la primavera del 2000 e sulle spiagge di Bianco sbarcarono in 268. Cinquanta afgani e il retso Kurdi ( di cui 130 bambini) diretti per la maggior parte in Germania. La Prefettura, come sempre accade in queste circostanze, prima di dar loro il foglio di via, li ammasso in campeggio per espletare le “pratiche del caso”. “Le pratiche del caso” significa identificazione. Nome cognome, impronte digitali e quant’altro.

Abdullah Ocalam, il capo dell’Pkk era stato da poco arrestato e consegnato al governo turco che dopo un processo farsa aveva chiesto la pena di morte. I Kurdi avevano iniziato uno sciopero della fame in segno di solidarietà con il loro leader. Tra loro e con loro, c’era Dino Frisullo, il noto giornalista romano che alla causa kurda ha dedicato l’intera sua vita.

Andai in quel camping in un pomeriggio afoso e qui ho conosciuto un altro Abdullàh. Un ragazzo di 21 anni che parlava un po’ di inglese, un po’ di spagnolo, un po’ di italiano. Insomma un po’ di tutto. Lui non era uno di quelli che facevano lo sciopero della fame. No credeva “in quelle rappresentazioni”, perché “non servivano a nulla”. Era in viaggio per la Germania dove suo fratello era pizzaiolo. Anche lui era pizzaiolo. Ecco “lui credeva nella pizza”. Sapeva fare la pizza, era bravissimo a fare la pizza. La gente era pagava per fare la pizza e lui voleva vivere di quello. Onestamente. Nulla di più e nulla di meno. “Per fortuna che i turchi gli avevano risparmiato le mani per fare la pizza”. Come risparmiato le mani?

Abdullah mi mostrò il petto, le spalle, le gambe e persino i piedi. Era un mosaico di cicatrici, le unghie dei piedi non c’erano più, gli erano state strappate. I turchi lo avevano torturato per sapere dove si trovavano i terroristi del Partito comunista kurdo. Ma lui non lo sapeva. Non li odiava i turchi, sono “solo degli stupidi ignoranti”, mi basta non vederli più, starmene per fatti miei e lavorare in pizzeria con mio fratello”.

Abdullah, non aveva i soldi per proseguire il viaggio per la Germani. Ha lavorato in una pizzeria di Bianco fino alla fine di agosto e quando il proprietario lo pagato e partito per la Germania. Ho mangiato molte volte la sua pizza. Era bravo d’avvero.

 

La Serbia

Il treno per Belgrado partiva alla sera da Venezia, era il 29 luglio del 2001. In Serbia ci sono voluto andare perché aveva visto una parte della guerra in Kosovo ed ora, però mi mancava ancora un pezzo importante della storia. Quella appunto, dei Serbi. Di quelli che sono stati presentati come aggressori e che ala fine hanno perso.

 

A spasso con Vladimir

“Alla vostra destra i resti del Ministero della Difesa, più avanti quelli dell’edificio che ospitava la milizia nazionale. In fondo, potete ammirare la torre sventrata del Partito socialista serbo. Il Tour si concluderà con una rapida visita all’ambasciata Cinese e, per omaggiare i giornalisti presenti, con una puntatina al palazzo della televisione di stato. Sono tutte opere di epoca Nato, vere e proprie architetture esplosive. Come dire… delle bombe artistiche. Benvenuti a Belgrado”.

Cera un misto di ironia e amarezza nelle parole di Vladimir. Il nostro giovane accompagnatore serbo non è un comunista e neppure un antioccidentale. Tuttavia la storia dei bombardamenti del ’99 proprio non l’ha capita. Per lui, come per molti altri suoi coetanei, l’intervento armato delle Nazioni unite non ha alcuna spiegazione logica. Slobodan Milosevic non gli era simpatico prima e non gli era simpatico neanche dopo e però, letteralmente, “non se la sentiva di sputarci sopra”. Milosevic non era il miglio presidente, ma almeno il paese aveva una sua dignità. Dopo invece è stato il caos. In quel torrido mese di agosto non esistevano più le regole, le fabbriche chiudevano ad un ritmo impressionante, la disoccupazione cresceva esponenzialmente, la gente soffriva a causa dell’isolamento e dell’embargo. Gli unici a guadagnaci erano gli speculatori.

L’analisi di Vladimir era spietata. Per alcuni aspetti violenta, almeno quanto la stessa guerra, ma non sterile. Vladimir sapeva che la Serbia si rialzerà, sapeva anche che ci sarebbe voluto tempo e che, soprattutto, è necessario un’inversione di tendenza rispetto alcuni atteggiamenti del popolo serbo: “E’ soprattutto una questione di cultura. Sviluppo economico e sviluppo culturale corrono sullo stesso binario. I serbi devono predisporsi al confronto. Devono liberarsi delle forme più becere di nazionalismo. Non siamo i migliori e non siamo nemmeno gli unici. Siamo un popolo come altri, abbiamo i nostri pregi e i nostri difetti. Possiamo insegnare molto, ma dobbiamo imparare altrettanto. Altrimenti non potremo che ripiegarci su noi stessi”.

La periferia belgradese presentava gli stessi limiti estetici di quelle del resto del mondo. E a questi si aggiungevano l’incuria determinata dalle ristrettezze economiche di un Paese in ginocchio sia dal punto di vista economico che psicologico. La gente si muoveva lenta. I dieci anni di guerra e il lungo embargo si notavano più che altrove. Quando visitai Belgrado i pochi fortunati ad avere un lavoro non sapevano ancora se gioire per il preziosissimo (e unico) mezzo di sostentamento o se disperarsi per i salari da fame (mediamente 150 euro) e l’assoluta incertezza del futuro. A Belgrado si continuava ad aspettare seduti ai tavolini dei chioschi o delle cafane, tra un caffè turco e una birra. Molti erano tornati in campagna. Nei villaggi della provincia era possibile coltivare la terra e allevare animali da cortile. Non era molto, ma era più dignitoso.

Peraltro sul Paese pesava la presenza di 750 mila profughi provenienti dalla Croazia, dalla Slovenia e dal Kosovo. Molti di loro avevano trovato ospitalità da parenti o vivevano in appartamenti presi in affitto, ma ancora in tanti erano sistemati presso i centri collettivi sparsi su tutto il territorio.

“Sono i profughi invisibili – mi disse Stefano Bacchetta, volontario italiano dell’Ong Un ponte per Belgrado – quelli di cui in occidente non si è mai parlato. Una sorta di popolo silente, assente persino dalle cronache giornalistiche. Uomini, donne e bambini che vanno avanti con gli aiuti governativi e la solidarietà internazionale. Un dramma insomma, al quale va aggiunta la specificità della gente che arriva dal Kosovo. Paradossalmente a loro non può essere neppure riconosciuto lo status di profughi. Il Kosovo fa parte della Serbia e per questo sono costretti a vivere la strana condizione di profughi in casa e senza alcun sostegno”.

Il Kosovo: culla della cultura ortodossa. Zona ricca dei monasteri più antichi e belli dei Balcani. Soprattutto i giovani ormai la consideravano una terra perduta, rubata, sottratta con l’inganno e la complicità della Nato. Il pezzo più importante della storia e della cultura di un popolo sacrificato sull’altare degli interessi occidentali.

In centro c’era un’altra Belgrado. Negozi lussuosi, locali notturni, ristoranti, bar sempre pieni. La capitale dei pochi, di quelli che con la guerra si sono arricchiti. Il bisogno fa concludere buoni affari e chi si è saputo muovere nei meandri della farraginosa macchina burocratica nazionale era diventato ricco. Vladimir ci ha condotto per le strade di Skadarlija, l’antica via turca orlata di locali alla moda. Ci spiegava: “Questa è la città che si crede già con un piede in occidente. Non è un male, però è sbagliato superare i problemi rimuovendoli o ignorandoli. Anche per loro i profughi semplicemente non esistono. Dimenticano che neppure il denaro può cambiare la realtà, tanto più quando è sporco. Oltre queste poche vie esiste un’altra Serbia, è la capitale della disoccupazione al 50%, di migliaia profughi, dei bambini abbandonati, degli istituti-lager per portatori di handicap, di esseri umani che vivono ai limiti della decenza ”.

Seduti al tavolo di un chiosco, la sera aspettavamo l’ultimo tram per il ritorno. La settimana successiva alla mia partenza anche Vladimir sarebbe partito per il servizio di leva. In segno di saluto volle brindare: “Alza il bicchiere italiano, e brinda alla pace, alla Serbia e all’amicizia che dura nel tempo. “Benvenuti a Belgrado, capitale di se stessa”.

 

Alla Drinka Pavlovic

Shaba in estate si svegliava alle nove. Saltava giù dal letto, si vestiva velocemente e scendeva a fare colazione con gli altri. Poi, dopo aver ripulito il suo posto a tavola e sistemato in un catino il piatto e la tazza da lavare, tornava in camera a riassettare. Quel giorno era il suo turno e gli tocca passare lo straccio oltre che nella sua stanza anche nei bagni e nelle docce comuni. Lo faceva come se fosse la cosa più naturale del mondo, gli toccava e non c’èra bisogno di ricordarglielo perché “le regole erano regole e valevano per tutti”, sia per i più grandi che per Shaba che grande non era, e che aveva solo 9 anni.

Ben venuti a Drinka Pavlovic, “istituto modello” per minori in difficoltà della Belgrado post bombardamenti e  post Milosevic, della “Serbia che sta cambiando”.

Erano considerati ragazzi fortunati. Avevano un tetto, un letto, da mangiare tre volte al giorno e, a volte, persino il gelato. E ancora, qualche vestito, una parvenza d’assistenza igienico-sanitaria e l’istruzione primaria. Non era poco. Non lo era soprattutto in considerazione del fatto che molti ragazzi in difficoltà non ricevevano alcun aiuto e che invece quelli che vivevano al Drinka Pavlovic potevano godere di un minimo d’assistenza pubblica, merce rara da quelle parti. Peraltro, anche strutture simili alla Drinka (altre 5 in città, 26 in tutta Serbia) non potevano permettersi certi “lussi”. E mentre molti istituti cadevano a pezzi il Governo non riusciva a garantire che pochi spicci per le spese correnti e gli stipendi da fame di chi ci lavorava.

Chiariamo: alla Drinka si stava meglio che in altri posti per il semplice motivo che puteva contare su un numero consistente di “amici dei bambini”. Associazioni di volontariato, Ong, famiglie e singoli che alla “casa” dedicavano tempo e denaro. Merito, tra l’altro, del lavoro della direttrice Zeljka Burgund. Donna energica, intelligente, che aveva capito l’importanza delle relazioni, conosceva il suo mestiere e lavorava sempre in prospettiva. Insomma: una che guardava lontano. Sapeva che gli istituti erano superati, avevano tanti difetti e non erano la risposta migliore ai bisogni affettivi dei ragazzi.

“Le cose cambieranno – mi disse all’epoca - ma per adesso la Drinka è la migliore risposta. Intanto continuo a sollecitare il ministero con lettere di richiesta per nuove attrezzature, più personale e soldi per rispondere alle esigenze dei ragazzi. Richieste che spesso cadono nel vuoto”.

Shaba finiva di ordinare la sua stanza che erano le 11. Subito dopo raggiungeva i compagni in giardino: era un agosto speciale per gli ottanta bambini che vivevano nell’istituto. Per la prima volta la casa ospitava un gruppo di volontari italiani.

Shaba correva giù per le scale, sfoderava il suo sorriso più seduttivo e prendeva il pallone da basket: Per una volta aveva dei nuovi compagni per giocare, e non importava se era alto solo un metro e venti e il canestro sembrava irraggiungibile.

 

Quelli di Otpor

Ad agosto del 2001, e neppure oggi, la Belgrado del dopo Milosevic non aveva ancora finito di illuminare i lati oscuri degli ultimi anni della suo storia. Era tutto ancora poco chiaro. Poco chiara la storia che aveva portato all’elezione di Kustunica e soprattutto alla ribalta di Djindjic, considerato il e proprio deus ex machina della politica serba.

Dal ’99 al 2001 erano trascorsi anni importanti: dall’opposizione a Milosevic alla sua caduta, dall’embargo alla svandita di tutte le più importanti industrie pubbliche, fino all’ultimo atto: la consegna del presidente del Partito socialista serbo (Pss) al tribunale internazionale dell’Aja, in attesa di aiuti internazionali. Una storia complessa di cui gli stessi protagonisti hanno sempre parlato con il linguaggio dell’ambiguità, della contraddizione e, spesso, filtrando le informazioni in maniera scientifica.

Protagonisti come lo era stato Otpor, il movimento studentesco delle manifestazioni di piazza contro Milosevic. Volti giovani attori di una delle stagioni più chiacchierate della storia dei Balcani. Un’organizzazione di cui si è detto tutto e il contrario di tutto, contribuendo alla scomparsa delle poche verità in un mare in un mare di parole spesso fondate sul nulla.

Quelli di Otpor, Ivan Marovic e Milan Samardzic, li ho incontrati al terzo piano di una palazzina del centro di Belgrado. Nell’appartamento in cui vive la presidente di un’organizzazione non governativa. Al Piano do sopra abita il presidente Kustunica.

Mi raccontano del movimento in maniera spavalda, quasi irritante.

"Otpor è sempre stato un movimento molto variegato, negli anni del contro Milosevic c'era dentro di tutto, ma la componente più consistente é sempre stata quella anarchica. Una sorta di nucleo centrale attorno a cui si sono mossi una serie di gruppi che hanno combattuto il regime su vari fronti. Una struttura non gerarchizzata articolata in gruppi con compiti distinti”.

Poi quando gli chiedo di spiegarmi chi li finanziava, diventano ancora più indisponenti. E più che le risposte lo erano gli atteggiamenti

"Abbiamo preso soldi da tutti quelli che ce ne hanno dati. Fondazioni, associazioni, Ong, gruppi di emigranti di mezzo mondo. Americani ed europei. Non abbiamo mai chiesto chi c'era dietro quelle sigle. E d'altra parte nessuno ci ha mai chiesto niente in cambio. Gli avremmo riso in faccia. Siamo sempre stati dei maleducati”.

Per un paio d’ore abbiamo scambiato opinioni, impressioni, esperienze politiche. E col tempo ho imparato a leggere meglio quella che inizialmente mi provocava indisponeva. Era una maschera. La maschera di ragazzi, che riassaporata la libertà volevano possederla fino in fondo, fino a sembrare scostumati, irriverenti, arroganti. Otpor nel tempo è di fatto è sparita. Ma quei ragazzi, forti una identità delineata ci sono ancora. Sono la nuova classe dirigente serba. Il rischio è che quella spocchia di allora sia diventata costume. Sarebbe un peccato. Quando la dignità, l’appartenenza, l’identità, si trasforma in nazionalismo è sempre un peccato. Quando l’energia positiva si incanala su percorsi involutivi non serve. Prima o poi si scopre di essersi incamminati in un vicolo cieco.

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