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 SOCIETÀ

Lo stato di eccezione nell’interpretazione di Schmitt e Agamben.

Il Diritto come pacificazione formale o rottame metafisico?

DI VINCENZO MUSOLINO

 

 

 

 

Nell’ormai classico Stato di eccezione, Agamben lega la declinazione ‘governativa’ e ‘decretante’ degli Stati post liberali del Novecento – includendo in tale ‘deriva’ tanto gli ordinamenti totalitari che quelli democratici contemporanei – alla teoria, di matrice schmittiana, dell’attrazione nel ‘giuridico’ dell’eccezione urgente e dell’irriducibilità, quindi, del diritto – e delle sue fonti – alla sola legalità costituita: «Il totalitarismo moderno può essere definito, in questo senso, come l’instaurazione, attraverso lo stato di eccezione, di una guerra civile legale […]. Da allora, la creazione volontaria di uno stato di emergenza permanente […] è divenuta una delle pratiche essenziali degli Stati contemporanei, anche di quelli cosiddetti democratici» (Giorgio Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 11). In tal senso l’eccezione, quale dispositivo giuridico che lega diritto e vita, viene considerata, dal filosofo italiano, un pericoloso snaturamento dell’ordinamento e della sua purezza formale classica fondata sulla legge: «La prestazione specifica della teoria schmittiana è appunto quella di rendere possibile una tale articolazione fra stato di eccezione e ordine giuridico. Si tratta di un’articolazione paradossale, perché ciò che deve essere iscritto nel diritto è qualcosa di essenzialmente esteriore ad esso, cioè nulla di meno che la sospensione dello stesso ordine giuridico» (ivi, p. 45). In realtà, ciò che sembra paradossale è tale solo all’interno di una concezione specifica del diritto – frutto del riduzionismo razionalista ed astratto proprio della rivoluzione giuridica (per niente classica) inaugurata dalla codificazione napoleonica  che decisionisticamente limita il processo di produzione giuridica all’affermazione escludente della fonte-atto principale, la legge appunto. In senso più profondo, ecco come davvero Schmitt articola il discorso inTeologia politica: «Infatti non ogni competenza inconsueta, non ogni misura o ordinanza poliziesca di emergenza è già una situazione di eccezione: a questa appartiene piuttosto una competenza illimitata in via di principio, cioè la sospensione dell’intero ordinamento vigente. Se si verifica tale situazione, allora è chiaro che lo stato continua a sussistere, mentre il diritto viene meno. Poiché lo stato di eccezione è ancora qualcosa di diverso dall’anarchia o dal caos, dal punto di vista giuridico esiste ancora in esso un ordinamento» (C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 38-39). Con l’affermazione del caso di eccezione e della necessità contingente, dunque, ciò che viene meno non è il diritto in sé ma il diritto positivo, la legalità formale di un ordinamento giuridico non più efficace, mentre viene ad affermarsi la giuridicità dello stato di eccezione che è tale in quanto possibile fonte originaria di nuovo ordinamento. Subito dopo Schmitt chiarisce ancora meglio il suo pensiero: «nel caso di eccezione, lo stato sospende il diritto, in virtù, come si dice, di un diritto di autoconservazione» (ibidem). Contro tali argomentazioni giuridiche che potremmo definire ‘concrete’ si muove tanto il normativismo astratto e scientifico, di matrice kelseniana e giuspositivistica, quanto l’approccio filosofico di Agamben, il quale, cercando di mostrare come sia ‘pericoloso’ rendere accessibile al logos la terra di mezzo comune al diritto e alla politica, pensa di riuscire ad estrapolare dal fenomeno giuridico la violenza che gli è, invece, coessenziale, in quanto crisi originaria che pone l’ordinamento. Entrambe le posizioni, in effetti, squalificano – come finzione – la giuridicità del caso concreto decisivo e, con esso, espungono l’elemento personale e politico dal diritto per riporlo nella pura anomia. A Schmitt, invece, ciò che importa affermare è che il ‘politico’ è irriducibile alla norma legale, perché è il dato esistenziale umano ad essere irriducibile allaforma normativa imposta per sempre, per quanto sia essa razionale e logica. Persiste, in verità, anche nel diritto, l’elemento trascendente e polemico, l’origine critica della storicità di ogni ordinamento umano che, in virtù della propria concretezza profana, si conserva come ‘diritto nascente’, come impulso all’ordine e alla nuova forma, anche quando il diritto vigente viene deposto. Interpretata in tal senso,l’eccezione/necessità contingente, lungi dal rappresentare la novecentesca deriva inautentica della scienza giuridica – come vorrebbe Agamben - è, al contrario, individuabile ‘classicamente’ come fonte-fatto del diritto, fonte extra ordinem. Tali fatti giuridici originari sono così intesi in dottrina: «possono consistere anche in un evento singolo e puntuale, risolventesi in uno specifico comportamento individuale o in un complesso di comportamenti di una molteplicità di individui, cospiranti ad un fine unitario ovvero determinati da un’occasione comune» (Vezio Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale. L’ordinamento costituzionale italiano, Cedam, Padova 1976, p. 149). Inoltre, sulla base della considerazione di Schmitt secondo la quale: «il caso di eccezione resta accessibile alla conoscenza giuridica, poiché entrambi gli elementi, la norma e la decisione, permangono nell’ambito del dato giuridico» (C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, cit., p. 39), Galli così affronta il problema della fonte/origine del diritto: «Questa ‘contaminazione’ della purezza del diritto con la propria origine abissale non può quindi lasciare alla sociologia – come invece vuole Kelsen – la concretezza storico-sociale come qualcosa che è esterno al diritto, anzi, il pensiero giuridico deve confrontarsi fino in fondo, per Schmitt, con la ineliminabilità, logica e fattuale, del caso di eccezione» (C. Galli, Genealogia della politica, Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1996 cit., p. 346). L’eccezione, dunque, si impone politicamente come caso da decidere e, allo stesso tempo, come fonte extra legale di diritto, come fonte al di fuori dall’ambito dello jus conditum, ma non esterna al ‘giuridico’. Porre il caso di necessità – come, peraltro, il fatto consuetudinario – fuori dal diritto perché fatti estranei alla legalità, significherebbe porre davvero l’ordinamento fuori dalla vita e dalla produzione storica umana per collocarlo ad un livello iperuranio,astratto e totalmente logico e, quindi, in definitiva, squisitamente ideologico.

Ancora, la già analizzata affermazione di Schmitt, secondo cui, nello stato di eccezione, lo Stato continua a sussistere mentre è il diritto positivo a venir meno assume un ruolo dirimente per chiarire al meglio il senso del decisionismo emergente nella sua Teologia politica.Tale passaggio va letto insieme all’altro, secondo cui: «in senso normativo, la decisione è nata da un nulla» (ivi, p. 56). A nostro parere l’interpretazione sistematica delle due espressioni epigrammatiche sgombra il campo da una esegesi nichilistica del pensiero del giurista tedesco. Se, infatti, la decisione politica sull’eccezione nasce da un nulla normativo e non propriamente da un nulla spirituale è perché  lo Stato continua a sussistere, nella contingenza travolta dall’urgenza politica, nelle forme di un ordinamento presupposto non normativo (cioè legale e positivo)  ma, ciò nonostante, legittimo. Ciò significa, quindi, che un quid – già presente nella normalità normativizzata – sussiste pure nel corso della situazione eccezionale ed incide ‘concretamente’ sulla decisone. Al nulla normativo, dunque, corrisponde un ‘positivo spirituale’ che, in Teologia politica, viene declinato nella forma della statualità, dell’unità politica della società moderna. Anche solo dall’analisi dei su citati punti del testo schmittiano appare evidente come l’autore, allargando i confini del ‘giuridico’ all’origine politica e storicamente fondata di ogni ordinamento, abbia come obiettivo polemico il puro normativismo razionale, autoreferenziale ed astratto, evidenziando come ‘fuori dal codice’ si muova una realtà concreta che, evidentemente, accanto alla pulsione alla decisione conserva la pulsione all’ordine, all’unità, alla forma pubblica rispondente alla domanda storica epocale. Il pensiero normativista, invece, come abbiamo visto in precedenza, è essenzialmente indifferente alla situazione di fatto, sicché tutto il diritto viene ridotto alla norma razionale e il resto è mera occasione di attuazione della legge. Nel saggio I tre tipi di pensiero giuridico Schmitt così torna sulla questione: «Normatività e fattualità sono “campi del tutto differenti fra loro”; il dover essere non è mai toccato dall’essere e conserva la sua sfera, inviolabile per il pensiero normativistico, mentre nella realtà concreta tutte le distinzioni di diritto e non-diritto, ordine e disordine si trasformano […] in presupposti di fatto per l’applicazione delle norme» (Carl Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico, in Le categorie del ‘politico’, cit., p. 257).  Per Schmitt, invece, il presupporre un sostrato storico-ideologico antecedente la decisione politica ed esistente prima e dopo la risoluzione dell’eccezione emergente, lungi dal compromettere la discrezionalità della decisione sovrana ne chiarisce, invece, l’ambito e le ragioni storiche e concrete del suo sorgere ed affermarsi, configurandosi, così, più che come fonte determinante, come imprescindibile punto di partenza, pena l’esodo della decisione stessa e della norma che ne seguirà dall’ambito della concretezza esistenziale. Ora, proprio in virtù del metodo della sociologia dei concetti giuridici e grazie al paradigma della secolarizzazione teologico-giuridica, si può ben tentare un migliore inquadramento di tale sostrato storico-concreto, di tale ordinamento, che innanzitutto reclama il «diritto di autoconservazione» (ivi, p. 39), che sospende il diritto vigente e che ‘precede’ la decisione politica sull’eccezione. Lungi dall’identificare tale ordinamento concreto con la rozza sostanzialità del Volk, cioè con una dimensione valoriale desunta da una presunta coesione ‘naturale’ etnico-nazionale, Schmitt intende mostrare come alla situazione storico-politico di un’epoca, anche eccezionale, corrisponda sempre la coscienza generale degli uomini e che tale corrispondenza costituisce il quadro metafisico generale ed etico/politico d’un dato periodo storico nel quale si muovono individui, istituzioni sociali e organi statuali. Tale identità concettuale evidenzia l’unità tra metafisica dominante e forma storico politica che si afferma ‘decidendo’ sull’eccezione. In ciò, quindi, il decisionismo schmittiano supera l’accusa di nichilismo: nel recupero positivo e concreto del significato eminentemente storico della metafisica e, con una ancora più radicale consequenzialità a ritroso verso il principio, nel recupero concreto dell’analogia con la teologia dell’epoca.

Ciò che  appare a questo punto necessario sottolineare – alla luce del nesso teologico-politico – è l’originale tentativo schmittiano di rappresentare, attraverso l’attrazione nel ‘giuridico’ dell’evento contingente di rottura politico-istituzionale, il ruolo proprio della trascendenza nella modernità politica quale elemento di somma incertezza, di assenza/presenza che mitiga – anche attraverso l’affermazione del ruolo storico della tradizione, della legittimazione e della autorità formale e personale allo stesso tempo – lo scatenarsi illimitato delle certezze idolatriche e gnostiche immanenti che, lungi dall’attestare l’umano ed il concreto, attraverso le astrattezze della oggettività e della purezza, esitano nell’immediatezza automatica e alogogica d’una violenza irrefrenabile. Secondo Agamben, invece, lagiuridificazione dello stato di eccezione costituisce un inganno, una fictio juris (cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 52)attraverso la quale annettere al metafisico proto normativo la pura anomia. A ben vedere, però, tale annessione è un prodotto caratteristico della razionalità umana – ed in ciò è, quindi, almeno sincero se non veritiero – scaturente dalla coazione urgente alla rappresentabilità mondana e concreta di un’ idea di governo e di ordine riconosciuta come assente in un quadro rivoluzionario. Agamben ha senz’altro ragione in questo: il diritto – soprattutto quello secolarizzato della modernità – è finzione (nel senso del nulla fondativo che lo precede), ma ciò non ne costituisce un limite rispetto, ad esempio, alla giustizia astrattamente intesa, ma il carattere autenticamente antropico e storico. Slegare l’anomia contingente dall’ambito della giurisprudenza significa, in definitiva, eliminare l’elemento propriamente personale (e, quindi, metafisico ed ordinativo) dallo svolgersi caotico del conflitto emergente, e ciò per qualificare lo stesso conflitto – così fa Agamben utilizzando il saggio benjaminiano del 1921 Per la critica della violenza (cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 69) – come ‘violenza pura’ o ‘violenza divina’, in sintesi manifestazione puramente immediata che depone sì il diritto ma al tempo stesso l’umano. È opportuno notare che proprio la critica di Agamben alla metafisica dell’eccezione di Schmitt – critica fondata, lo ripetiamo, sull’affermazione della ‘realtà’ [Bestand] della cosiddetta violenza pura – fa risaltare, a nostro parere, la cifra concretamente storica e moderna del giurista tedesco, il cui tentativo di salvaguardare la giuridicità e l’umanità dello stato di eccezione risponde essenzialmente alla esigenza di neutralizzare ogni purezza squisitamente intellettuale ed astratta – così pericolosa proprio per l’assolutezza delle proprie ragioni sostanziali immediate ed evidenti – al fine di assicurare la possibilità di una relazione e di una regolazione storica tra violenza anomica e contesto giuridico. In tal senso, il ruolo della trascendenza riconosciuto dal giurista cattolico nel contesto politico moderno – lungi dall’operare premodernamente quale fonte giustificante di una qualsivoglia opzione giuridico istituzionale – è quello di mitigare – grazie al gravame tragico ed immobilizzante della paradossale accettazione ‘moderna’ dell’assenza di verità dal mondo e, nonostante ciò, o proprio grazie ad essa, del valore ontologico ed esistenziale della fede paradossale in un ordine nascosto – le certezze/verità immanenti pronte ad essere utilizzate come clave informali nelle nuove guerre sante. La violenza pura [reine Gewalt] evocata da Agamben contra Schmitt appare, dunque, come cosa/noumeno della politica (cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 77), come oggetto politico estremo, come essere puro che si sottrae alla strategia soggettivistica ed autenticamente umana che vorrebbe la violenza stessa, appunto, una volta emersa, costretta e regolata nelle maglie del logos ed indirizzata verso un fine storico. Tale processo rivoluzionario di purificazione della violenza che, non più riconoscibile come confine dell’espressione mitico/giuridica, si manifesta – e si deve manifestare contro ogni finzione – senza fini o, meglio, fine a se stessa, e dello stato di eccezione che da ‘estremo giuridico’ si trasforma in rivoluzione informale permanente, non può che giungere alla deposizione totale del diritto interpretato solo come rottame metafisico. A tal punto ciò che è decisivo intendere è che cosa residui da tale rottamazione. Agamben è chiaro in questo quando richiama la seguente affermazione contenuta nel saggio benjaminiano del 1934 su Kafka: «il diritto non più praticato e solo studiato è la porta della giustizia» (G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 81). La lettura critica del riconoscimento individuato da Schmitt della commistione moderna tra giuridico e contingenza (che costituisce, per altro, il significato eminentemente giuspubblicisticodella teologia politica) giunge, quindi, o sarebbe meglio dire ‘ritorna’ alla giustizia. Dal diritto alla giustizia dunque; un paradossale cammino all’indietro dall’autorità formale dei moderni alla verità immediata e pura dei premoderni. Proprio ciò, in fine, ci aiuta a comprendere il disagio più volte espresso da Schmitt nei confronti di tutte le concezioni pure del diritto, della teologia e della politica: il mondo post-giuridico della violenza pura che si manifesta e che non è acquisibile dal logos, è il regno utopico e pericolosissimo d’un paradiso terrestre disumanizzato e perfetto nel quale, evidentemente, avendo perso valore ogni pacificazione formale operata dal giuridico, la giustizia si manifesta immediata e pura proprio come la violenza che le si accompagna e tale giustizia, veritativa proprio perché disincarnata, non può che declinarsi – iperpoliticamente – anche come guerra giusta e, per ciò, annientante, illimitata e divinamente innocente.

 

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