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L’importanza di avere un senso letterale. Ricordo di Umberto Eco

di eduardo grillo

 

 

 

 

 

 

 

Dire qualcosa di conclusivo a proposito di una vita è impossibile; se poi la vita in questione è quella di Umberto Eco, allora il compito è ancora più arduo. Per non dire dei suoi romanzi, è stato un intellettuale che si è interessato a tutti i campi delle scienze umane, ma senza limitarsi a fornire un contributo da custodire in una polverosa biblioteca. Il suo impegno ha decisamente svecchiato e orientato il modo in cui parliamo di cultura. Negli anni Sessanta, ha condotto una strenua battaglia contro il crocianesimo che allora era politicamente trasversale, e confinava l’Italia alla provincia dei movimenti culturali. Negli anni Settanta, ha gettato le basi della semiotica in Italia, dando un contributo fondamentale all’analisi dei testi narrativi. In seguito ha continuato a stare al centro dei dibattiti culturali, specialmente prendendo posizione contro gli effetti perversi della diffusione del decostruzionismo. E proprio su questo vorrei concentrarmi qui, in particolare sulla sua difesa del senso letterale.

Eco ha sempre difeso la possibilità di interpretare letteralmente un qualsiasi testo (senza tuttavia farne un principio essenzialista) e per una buona ragione. A parte i casi in cui non abbiamo sufficienti coordinate contestuali per interpretare un messaggio (caso limite: una lettera in una bottiglia), la stessa ambiguità di un enunciato dipende da un senso attribuitogli in qualche modo “previamente”. Un esempio fornito da Eco può chiarire la questione. Diversi anni fa, l’allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, poco prima di tenere una conferenza stampa, disse all’incirca “fra pochi minuti darò l’ordine di bombardare l’URSS”. I microfoni erano accesi e, dietro le pressioni dei giornalisti, Reagan ammise di aver scherzato. Considerate anche le implicazioni etiche di un presidente degli usa che dice una cosa simile, in piena Guerra fredda, anche solo per scherzo, Eco individua tra le altre cinque interpretazioni possibili:

– è la storia di un uomo che scherza;

– è la storia di un uomo che scherza quando non dovrebbe;

– è la storia di un uomo che scherza ma che di fatto sta pronunciando una minaccia;

– è la storia di una tragica situazione politica in cui anche gli scherzi possono essere presi sul serio;

– è la storia di come uno stesso enunciato scherzoso possa assumere diversi significati a seconda di chi lo  enunci.

Queste le considerazioni di Eco:

La mia opinione è che, per interpretare la storia di Reagan, sia pure nella sua versione narrativa, e per essere autorizzati a estrapolarne tutti i sensi possibili, occorre prima di tutto cogliere il fatto che il presidente degli Stati Uniti ha detto – grammaticalmente parlando – che intendeva bombardare l’URSS. Se non si comprende questo non si comprenderebbe neppure che (non intendendo farlo, per sua ammissione) egli aveva scherzato (1).

Ma il senso letterale non è un proprietà delle parole;  si tratta soltanto dell’abito interpretativo sedimentato che per primo viene alla mente, in modo quasi automatico, di fronte a un fatto, linguistico (come in questo caso) o meno. La prima definizione dei lemmi di un dizionario non rende conto se non di questo: una regolarità che si è fatta, col passare del tempo, quasi una regola. Essa è a tutti gli effetti vincolante: in consonanza con la dialettica dubbio-credenza in Peirce, il punto di partenza è sempre uno stato di quiete raggiunto a costo di sforzi, e per metterlo in questione è necessaria una rottura di regolarità, cioè un buon motivo per revocare in dubbio l’abito acquisito. Se dunque l’interpretazione  è potenzialmente infinita, essa è finalizzata alla produzione di una credenza, o abito interpretativo, che è sempre una predisposizione ad agire. Il contesto renderà poi efficace l’interpretazione che consente di operarvi, anche senza aver sviluppato tutte le conseguenze illative consentite dalla proposizione (o dalla situazione), sullo sfondo di un accordo intersoggettivo che ne accetti la validità:

Il riconoscimento di un abito come legge richiede qualcosa di molto vicino a un’istanza trascendentale, vale a dire, una comunità quale garante intersoggettivo di una nozione di verità non intuitiva, non ingenuamente realistica, quanto congetturale (2).

In conclusione, tutta la teoria di Eco può dirsi ispirata a un principio generale, da cui dipende un corollario molto importante. Il principio è quello della ragionevolezza, quale sostituto di una razionalità forte e totalizzante (3). Il corollario che ne deriva consiste nell’assunzione di una prospettiva negativa nei confronti della validità delle interpretazioni. Se non è possibile stabilire una volta per tutte qual è la “giusta” interpretazione di un fatto o di un testo, è possibile almeno (ragionevolmente) dire quali interpretazioni sono certamente scorrette: possiamo leggere l’incipit dei Promessi sposi («Quel ramo del lago di Como...») in molti modi, ma non sarà accettabile un tentativo che tenti di trovarvi l’orario dei treni che coprono la linea Milano-Como, semplicemente perché una tale lettura non è supportata dal testo stesso. In questo caso saremo di fronte a una sovrainterpretazione (4), legittima quanto si vuole nel chiuso della nostra esperienza personale, ma indifendibile davanti al tribunale del controllo intersoggettivo. In simili circostanze, l’interprete sembra non volersi disporre a un’interpretazione, ma a un uso idiosincratico di quel testo (5). A tutti è concesso lasciarsi trasportare dalle proprie inclinazioni di fronte a un testo; tuttavia, quel che Eco vuole dimostrare è che su queste basi è impossibile costruire una teoria generale dell’interpretazione, che è un gioco serio. Si pensi ai casi inquietanti delle interpretazioni negazioniste a proposito dell’Olocausto, o all’interpretazione aberrante di alcuni testi (per di più falsi) che sta alla base dell’ascesa del totalitarismo nazista. L’interpretazione ha bisogno tanto di vie di fuga, per liberare la nostra immaginazione e i nostri desideri, quanto di indispensabili guard-rail; è anche su questo rapporto disciplinato che riposa il destino delle società.

 

1) Eco U., I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990, p. 335.

2) Ibidem, p. 336.

3) Cfr. Eco U., “Sulla crisi della crisi della ragione”, 1980; poi in Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano, 1983, pp. 4) 39;

3) Eco U., «L’antiporfirio» 1983, poi in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano, 1985, pp. 334-361.

5) Cfr. Eco U., Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano, 1985.

 

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