Secondo una delle teorie del linguaggio formulate da Ludwig
Wittgenstein tutto ciò che si può pensare è prima di tutto un segno linguistico,
da ciò il fatto che la struttura del pensiero è data dal possesso di conoscenza
dei significati di segni o agglomerati di segni. Ferruccio Rossi Landi con la
sua socio-semiotica afferma una funzione del linguaggio come strumento di
conoscenza complessiva e nello stesso tempo strumento di trasformazione della
realtà stessa (strumento, prodotto e lavoro).
Ogni input proveniente dall’ambiente antropizzato produce
effetti più o meno importanti, più o meno a livello di consapevolezza,
sull’interpretazione della realtà ed influenza quindi i comportamenti
individuali e collettivi. Se quindi affermiamo che il linguaggio (in seguito
useremo il plurale, linguaggi, per definire i media distinti dal contenuto
veicolato) sia un complesso strumentale di segni che possono essere appresi sia
nelle loro forme elementari di "simbolon" che nella complessità delle
costruzioni logiche del discorso, dobbiamo dedurne che il complesso di segni
significanti preesiste in un contesto pre-formato. Agire quindi nella realtà è
una naturale ed ineludibile attitudine umana ad apprendere linguaggi per
comunicare. Si apprende mentre si agisce, in senso attivo o passivo, nel proprio
ambiente naturale e culturale. Però se l’agire comunicativo ricava i segni ed i
loro significati linguistici da un contesto pre-formato è logico pensare che
nessun individuo è scollegato dalla collettività, intesa tanto come ambito
vitale contingente quanto come contesto storico-culturale. Per richiamare un
altro dei grandi della filosofia del linguaggio, Jürgen Habermas, diremo che,
nell’ambito sociale, il contesto pubblico (megatesto) è articolato in una serie
indefinita di contesti più ridotti (micro testi) che rappresentano sfere sociali
più circoscritte.
In queste microsfere ognuno di si muove, agisce e reagisce in
relazione agli stimoli ambientali.
In questo spazio non ci dilungheremo sulla ormai consistente
bibliografia prodotta, soprattutto dalla metà degli anni sessanta del secolo
passato, in quasi tutti i campi disciplinari che dimostra la relazione tra
stratificazione storico-culturale, tipologia dell’organizzazione urbana,
sostenibilità dello sviluppo, organizzazione del lavoro (l’elenco è molto più
esteso) e la percezione della realtà da parte delle persone e la loro risposta
emotiva a reattiva a questi sistemi culturali (per una più dettagliata
bibliografia rimandiamo al volume "La dimensione nascosta" di Edward Hall,
Bompiani editore). Secondo tali studi la risposta emotiva e le conseguenti
azioni di una persona o di una collettività possono evincersi dall’analisi del
contesto ambientale in cui questi interagiscono e dall’analisi dei linguaggi
verbali, paraverbali e di natura simbolica (espressioni artistiche o atti
vandalici, ad esempio). Così, ad esempio, a seconda della qualità e quantità di
arredo, illuminazione, cura dei dettagli, spazi a verde, luoghi di aggregazione,
vivibilità diurna e notturna, in una piazza o in un quartiere si produrrà una
risposta individuale e collettiva inversamente proporzionale in termini di
regresso alle condizioni caotiche o in termini di coesione delle "norme"
relazionali tra persone e ambiente. A secondo del livello di governabilità delle
dinamiche culturali, si produrranno condizioni idonee alla creatività o
all’aggressività individuale e collettiva.
Questo tipo di analisi possono tornare utili per indirizzare
le scelte di progettazione architettonica ed urbanistica da adottare nella
realizzazione di nuovi spazi o nella ristrutturazione di spazi degradati, ma le
stesse metodologie di analisi possono essere calate in ambienti più
circoscritti, come una classe scolastica, un ufficio, un’azienda, per misurare
il livello di benessere o gradimento delle relazioni sociali e prevenire
manifestazioni di aggressività come ad esempio il bullismo adolescenziale o il
mobbing in ambiente lavorativo.
Ci costa dirlo ma, la scarsa propensione dei gruppi dirigenti
ha portato la realtà italiana ad ignorare questi processi con il risultato che,
la crescita non governata dell’urbanizzazione, ha prodotto sempre più bolle di
emarginazione e degrado che con la crisi economica amplificano fenomeni negativi
in sé.
Per intervenire sul degrado urbano e prevenire violenza e
pregiudizio sarebbe più utile piantare alberi e animare le periferie anzicchè
allestire "ronde". Una strada vissuta, illuminata e pulita parla un linguaggio
diverso rispetto ad una strada buia e lurida e solitaria.