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società e cultura

Libertà – Uguaglianza – Fratellanza

di natalino foti

 

 

Diciamo subito che una trattazione separata dei tre principi apparirebbe con immediatezza una violentazione dell’ispirazione sociale che sottende il coagulo. Nei fatti, la potenza semantica che i tre lemmi, insieme, evocano si sbriciolerebbe se prescindessimo dalla storia dell’umano genere che li ha suggeriti. Intanto diciamo subito che il trinomio, così com’è, è un conio francese che ha origini molto più remote della rivoluzione. La prima volta venne usato nel secolo XVII da Fenelon; fu ripreso,poi, durante la Rivoluzione come base morale e sociale della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Tuttavia entra nella Costituzione Francese solamente nel 1848 durante i moti che scossero l’Europa, coincidenti con la fine della fase degli Imperi francesi.

Libertà

E’ mio convincimento che non si possa penetrare il significato di un lemma se non se ne conosce l’etimologia. Questa rappresenta la guida più attendibile per entrare nella rete fittissima delle significazioni del linguaggio che correntemente usiamo. Ma di esso sovente lasciamo la parte più ponderosa nel buio dell’inesplorato. Ciò vale anche per il termine del quale ci proponiamo di parlare: la libertà.

Vi devo confessare, in proposito, che per molto tempo mi sono angustiato a ricercarne l’etimologia. Angustie, vi confesso, che sono durate a lungo. Alla fine mi ha soccorso, per puro caso, una pubblicazione di G. Semerano, linguista di eccezionale finezza, nella quale ho trovato, finalmente, quello che cercavo: l’origine del termine libertà, appunto.

 Ho così appreso che il lemma deriva dalla lingua accadica e che è formato da una particella proclitica “la”, che corrisponde all’alfa privativo della lingua greca e di tutte le lingue che da essa derivano, e dal sostantivo “bru” che in lingua accadica significa “condizionamento”. Quindi: “la-bru”, che possiamo tradurre come “senza condizionamento”, libertà, eleuteria in lingua greca, libertas in lingua latina, libertè in lingua francese, libertad in lingua spagnola. Dall’etimologia si deduce che chi possiede il bene della libertà è persona che non subisce il condizionamento di nessuno. Attenzione all’affermazione: non subisce il condizionamento di nessuno! Questo vuol dire che l’uomo è libero se vive insieme ad altri uomini e da questi non subisce condizionamenti. In buona sostanza, non è vera libertà quella che si conquista scappando sulle montagne del Tibet come gli eremiti o fuggendo, tout court, dal contesto sociale perché, in siffatto modo, si scappa da una prigione per rifugiarsi in un’altra: la solitudine.

Nei fatti, allora, quella che chiamiamo comunemente libertà, nell’accezione corrente, è la condizione ideale nella quale gli uomini cooperano senza condizionarsi vicendevolmente più di quanto è strettamente necessario, al fine di garantirsi una convivenza pacifica ed armoniosa.

Attenzione ad una precisazione che non è di poco conto! Quando parliamo di libertà non teniamo conto di un dato: dissertiamo di libertà ma riferita a quale aspetto della nostra vita? E’ bene chiarire! Esistono aspetti di essa che dipendono dagli altri; altri aspetti dipendono esclusivamente da noi. Inutile dire che la tracotanza, l’ingerenza, la sopraffazione sicuramente riducono i margini della nostra libertà e comportano l’uso della forza, comunque esercitata, da parte di chi se ne serve, per incutere paura al fine di ottenere asservimento, soggezione, o resa incondizionata. Noi, poi, a seconda della caratura della nostra indole saremo più o meno capaci di resistere o addirittura di contrattaccare fino ad ottenere il risultato opposto: è insomma una dialettica sado-masochistica, però fisiologica, della quale si è interessato magistralmente il sociologo Enrich Froom.

Vi devo deludere! Questi sono solo problemi di vita da vivere e non riguardano il concetto di libertà del quale vogliamo parlare; sono aspetti marginali della nostra esistenza che noi siamo più o meno in grado di gestire condizionati dal profilo esistenziale di ognuno di noi. Perché la libertà della quale dobbiamo parlare è quella inerente alla vita sociale e, quindi, politica, alla quale abbiamo l’obbligo di prendere parte; e questa, la libertà, deve riguardare esclusivamente la sfera del pensiero da comunicare, comunque e sempre, mediante la parola scritta o detta che sia. Quando questa facoltà viene meno, la democrazia, che dovrebbe essere la culla delle manifestazioni libere, è scaduta nell’alveo dell’autoritarismo e dell’intolleranza che sono il primo passo verso lo scivolamento nelle tirannie e nelle dittature.

L’uguaglianza

Se vogliamo sapere che cosa significhi uguaglianza dobbiamo riferirci ad una figura emblematica sia nei contenuti che nella forma che, mai come in questo caso, diventa sostanza: è quella del cavaliere. La cosa vi sembrerà strana, ma è così.

Infatti, il termine deriva dal latino aequitas = uguaglianza -, che trae la sua origine da equus = cavallo. Ma, più che da questi, da colui che del cavallo se ne serve e cioè l’eques=cavaliere. Vi domanderete cosa c’entri il cavallo e il suo cavaliere col discorso che stiamo facendo! E’ presto detto: chi monta il cavallo=equus è l’eques=cavaliere il quale, per stare in equilibrio – notare la stessa radice verbale – e potere usare al meglio l’animale, sia per azioni di guerra, un tempo, che per il trasporto di persone o cose poi, doveva scegliersi una postura stabile. Essa, a causa della conformazione della schiena del cavallo, non poteva che essere obbligata: disposizione, cioè, del peso del corpo a perpendicolo sulla groppa dell’animale con le gambe ai lati più o meno penzolanti. In tal guisa la stabilità del cavaliere era certa perché le gambe, oltre ad avere presa sui fianchi, si comportavano come la pertica del funambolo, stabilizzandone il peso. Chi, quindi, cavalcava un animale era eques, disposto in equilibrio, cavaliere; tant’è che il termine traslato nel contesto sociale indica ancora oggi persona altamente equilibrata, saggia, ispirata a principi universali ed eterni che lotta per il bene ed il progresso dell’umana famiglia.

Uguale – aequalis - , quindi, alla luce di quanto detto, è la persona, l’animale o la cosa che è perfettamente giustapponibile ad un’altra persona, ad un altro animale o ad un’altra cosa. Noi sappiamo che non è mai così perché la corrispondenza perfetta tra due entità si può ottenere solamente con un artifizio che tuttavia introduce un limite all’uguaglianza e che emerge da una evidenza e cioè che quella perfetta può essere ottenuta soltanto allo specchio. Tuttavia, però, in quel caso, una entità allora è reale ed una è virtuale, prima di tutto e, poi, le due entità risultano essere l’esatto contrario l’una dell’altra. Provare per credere! Allo specchio, la sinistra diventa destra e la destra diventa sinistra!

Allora ci domandiamo: cos’è in concreto l’uguaglianza? Esiste o è un’utopia? Ci viene in soccorso, a questo punto, la matematica: pensiamo alla somma di una serie lunghissima di frazioni che abbiano tutte un comune denominatore; il numeratore di esse è vario e quello dell’una non è mai uguale al numeratore di un’altra; teniamo conto, poi, del fatto che tra due numeri interi esiste un numero infinito di numeri. Ciò comporta che tra i risultati del rapporto tra numeratore e denominatore di tutte le frazioni non ne troveremo mai due perfettamente uguali anche se quantitativamente vicini. Il che è come dire che siamo tutti cittadini ma che ogni cittadino è diverso dall’altro; è come dire che noi siamo tutti massoni, ma che ogni massone è diverso dall’altro. L’uguaglianza è il comune denominatore, il numeratore determina la diversità.

Questo è il portato della ragione che è figlia della mente la quale immette nella nostra esistenza distorsioni la cui esasperazione conduce alle tragedie di cui è costellata la storia. Ad esso si oppone l’etica, la morale universale ed eterna, che inchioda gli esseri pensanti alla responsabilità di enfatizzare il comune denominatore della nostra umanità a fronte della diversità dei nostri standards personali che sono il numeratore. Ed allora, ciò

 

Fraternità

Indubbiamente il termine di cui andiamo a dissertare, se coniugato secondo il sentire corrente, sa di ambiguo: nei fatti una fratellanza si può costruire sulla base di disvalori e, in rispetto ad essi, si può costituire una consorteria che nulla ha a che vedere con lo spirito cooperativo che si instaura allorché la comunione delle forze mira a promuovere il bene comune. Le fratellanze sono una metodologia consociativa che, spesso, difendono ad oltranza valori amorali od immorali tendenti non al bene comune ma al benessere di pochi. Da questa interpretazione aberrante della fraternità nascono: la violenza, la sopraffazione ed il disprezzo per il bene comune e, poi, anche le delimitazioni patologiche degli ambiti razziali ed il sorgere dell’odio con la conseguenza ineluttabile dei pogrom e delle camere a gas, nei casi estremi.

 La fraternità, al contrario, è quel legame profondo che oblitera le differenze e presuppone l’ispirazione ad un comune archetipo generativo che travalica ogni distinzione ed ogni differenza sulla base solida di una piattaforma morale e genetica. Intanto è utile sapere che secondo la scienza, ed in particolare secondo la genetica, il genere umano ha un’unica origine: tutti indistintamente abbiamo 46 cromosomi i quali contengono un numero impressionante di geni il cui rimescolamento garantisce la unicità dell’uomo. Il divenire ha garantito la perpetuazione delle mutazioni e l’affermazione di alcune di esse sopra le altre. Per cui le differenze, tutte le differenze tra gli uomini, sono un artificio introdotto dal caso o dalla necessità e tutte confermano la comune origine del genere umano.

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