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Recensioni
Gabriel García Márquez, Dell’amore e di altri
demoni
di
Maria barreca
Il romanzo è ambientato in Colombia, sul Golfo
del Darién. Il 26 ottobre 1949 vengono eseguiti degli scavi sulle cripte
funerarie dell’ex convento di Santa Chiara. Un
giornalista viene mandato sul luogo a ricavare qualche notizia riguardo alle
eventuali scoperte. All’altezza della terza nicchia dell’altare maggiore si
scopre una tomba con la lapide erosa dal salnitro. All’interno un mucchietto di
ossa e una lunga chioma rossa attaccata agli ultimi resti di un cranio di
ragazzina.
Sulla
lapide il nome: Sierva Maria de todos los Angeles. La chioma è lunga ventidue
metri e undici centimetri. Il giornalista si ricorda allora che da bambino sua
nonna gli raccontava la leggenda di una marchesina dodicenne, che si trascinava
dietro una lunga chioma come un velo da sposa, morta di mal di rabbia in seguito
al morso di un cane, venerata come santa in molti paesi dei Carabi, per i suoi
molti miracoli. L’origine del libro è l’idea che la marchesina morta duecento
anni prima fosse proprio Sierva Maria. Márquez
inizia così a raccontarne la straordinaria storia: Sierva Maria è l’unica figlia
nata dal matrimonio del marchese di Casalduero, don Ygnacio de Alfaro y Dueñas,
e di Bernarda Cabrera. Viene morsa la
prima domenica di dicembre 1749 da un cane cenerognolo con una stella sulla
fronte, mentre con la domestica negra si reca al mercato nel sobborgo di
Getsemaní, attratta dallo schiamazzo del porto negriero, dove stavano mettendo
all’asta un carico di schiavi provenienti dalla Guinea. La vita della bambina,
fina dalla nascita, è concentrata nel cortile degli schiavi. Una di loro, Domina
de Adviento, le fa da madre, Sierva Maria conosce diversi dialetti africani e le
arti magiche, porta la chioma intrecciata intorno al capo, tre collane e vari
portafortuna, si è ribattezzata Maria Mandinga, e con i bianchi non vuole avere
a che fare, specie con i genitori, inesistenti, per i quali è poco più di
un’ombra e ai quali è solita raccontare innumerevoli bugie. Il padre, nobile
spagnolo, si accorge di avere una figlia solo quando ella rischia di ammalarsi
di rabbia, la madre Bernarda neppure allora, anzi spera che quel fantasma che le
gira intorno, ricordandole il marito che odia, sparisca per sempre. Bernarda non
era nobile, era stata un’abile commerciante di schiavi e aveva fatto la sua
fortuna finché il suo cervello non si era smarrito tra fiumi di cacao e melassa
e fumi di droghe varie, quando aveva conosciuto il vero amore della sua vita:
Judas Iscariote, schiavo gladiatore muscoloso e splendido di melassa. Era andata
con lui a migliaia di feste, prima mascherata, poi con il suo vero nome,
arrivando a pagarlo, pur sapendo che tante altre lo pagavano, purché non la
lasciasse. Per molti anni era stata Dominga de Adviento ad amministrare casa
Dueñas, ma alla sua morte i gestori di tutte le attività erano gli schiavi.
Il marchese seppe del morso della bambina alcune
settimane dopo l’accaduto. Si recò allora dal dottor Abrenuncio, studioso
illustre, negromante ed esperto di magia, ateo risaputo che si vantava di saper
predire ad ognuno la data della morte, ex ebreo espulso dalla comunità, che
lavorava allora all’ospedale di San Lázaro: il dottore lo avvertì che contro la
rabbia non esistevano cure e la morte sarebbe stata atroce perché l’ammalato
dilaniava il suo stesso corpo e gridava come un ossesso, c’era tuttavia una
minima speranza che la bambina non avesse contratto il male, ma bisognava
aspettare. Nel frattempo, Abrenuncio consigliava al marchese di dare alla
piccola tutto l’amore possibile, perché “Non c’è medicina che guarisca quel
che non guarisce la felicità”. Il
marchese intende allora rifarsi dall’incuria nella quale aveva sempre lasciato
Sierva Maria, così, per prima cosa, decide di toglierla dal cortile degli
schiavi e ordina di farla dormire nella cameretta che la nonna marchesa aveva
preparato per la bambina prima di morire, col letto a baldacchino, la zanzariera
contro i pipistrelli e centinaia di
bambole, ninnoli e boccette di profumo. Ma Maria non aveva alcuna voglia di
abbandonare la vita tra gli schiavi. Così don Ygnacio andò a chiedere consiglio
al vescovo che gli suggerì di far entrare la bambina per un po’ nel convento di
Santa Chiara. Qui Sierva Maria, che parlava meglio in yoruba che in spagnolo,
che trascinava dietro la lunga chioma, e che già cominciava a soffrire per il
difficile rimarginarsi del morso, viene ritenuta indemoniata e portata nel
padiglione delle sepolte vive. Il vescovo si occupa personalmente del suo caso e
lo affida a padre Cayetano Delaura, esorcista di fama, biblista e teologo,
studioso insigne che aspirava al ruolo di bibliotecario nella Biblioteca
Vaticana, e che aveva allora trentasei anni.
Padre Cayetano, la notte prima di conoscere la
bambina, la sogna mentre mangia un grappolo d’uva, i cui acini si riproducono
appena mangiati, la piccola, nel sogno, è triste e guarda il mare da una
finestra. Basta il sogno per ché Cayetano se ne innamori, senz’averla mai vista.
Da uomo sensibile e accorto, in un mondo che spesso non mostra queste qualità,
si rende subito conto che Sierva Maria non è indemoniata, è solo una ragazzina
piena di vita ed esperta in lingue africane, che non sono una manifestazione del
maligno. Cayetano è l’unico a starle vicino, a medicarle la piaga, ad
acquistarne pian piano, unico tra i bianchi, la fiducia. La va a trovare prima
come esorcista, poi di notte, come amante, in una storia d’amore straziante,
tenerissima e di troppo breve durata, giocandosi definitivamente la carriera di
bibliotecario, finendo a servire i lebbrosi all’ospedale dell’Amor de Dios,
punito dal vescovo.
Ma una notte Martina Laborde, ex suora monacata a
forza, condannata al carcere perpetuo per avere ucciso una consorella, spia
Cayetano mentre entra nel convento, e scappa la notte seguente dalla stessa
fessura sotterranea. Ma si dimentica di richiuderla per bene. In seguito
all’accaduto la fessura viene murata e Sierva Maria resta definitivamente sola.
“Sierva Maria non capì mai che cosa ne era stato ci Cayetano Delaura”, che si
era sfracellato i pugni contro il muro, tentando di abbatterlo l’ultima notte
che aveva tentato di entrare nella cella. Si era anche recato dal marchese, ma
questi era troppo preso da Dulce Olivia, ex internata nel vicino manicomio della Divina
Pastora, confinante col palazzo dei Dueñas, di cui era stato innamorato fin
da giovane e che il padre gli aveva impedito di sposare.
Intanto Sierva Maria continua ad essere “curata”
con metodi orrendi dalle suore: muore il 29 maggio 1750, di mal d’amore,
perseguitata fino all’ultimo, ridotta ad uno scheletro, coi capelli rasati, il
corpo coperto di piaghe. La guardiana che entra a prepararla per la sesta seduta
di esorcismi la trova sul letto “con gli occhi raggianti e la pelle di una
neonata”. “Le radici dei capelli le spuntavano come bolle sul cranio rasato, e
le si vedeva crescere”. Prima di morire aveva fatto lo stesso sogno di Cayetano:
i chicchi d’uva che si riproducevano appena mangiati, il sogno della rinascita.
Si conclude così questa storia avvincente, che
trascina il lettore in un universo magico e straniato. Márquez è un medium della
parola: dietro ogni espressione, come in tutte le sue storie, si trova la
denuncia di un mondo senz’amore, marcato dagli orrori dell’Inquisizione e del
Sant’Uffizio, e che, come spesso accade, uccide l’innocente: la Colombia del
Settecento, terra di smercio di schiavi sopravvissuti all’inferno delle navi
negriere, colonia dell’albagia e dell’insofferenza spagnola, rimasuglio di un
teatrino di appestati, fango e terreno fertile di questa straordinaria,
innaturale passione.
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