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Mediterraneo in crisi. Intervista con l'On. Gianni Pittella, Vice Presidente del Parlamento Europeo Di Pino Rotta
Abbiamo il piacere e l’opportunità, in momento mai più
appropriato, di intervistare l’On.le Gianni Pittella, Vice Presidente del
Parlamento Europeo, espressione di PD-S&D e dell’elettorato dell’Italia
meridionale, tra cui la Calabria e la Basilicata, quindi diciamo che
l’attenzione del "nostro deputato" ai temi che gli sottoporremo in
quest’intervista accomuna in via prioritaria sia i nostri lettori che lo stesso
intervistato che, ovviamente, ringraziamo con l’auspicio che questo dialogo che
iniziamo oggi possa continuare e consolidarsi in futuro. Negli anni passati, negli ultimi dieci per l’esattezza, ci siamo occupati con insistenza dei problemi sociali, politici ed economici che coinvolgevano i paesi a sud e a nord del Mediterraneo e del Medioriente, ma abbiamo anche cercato di guardare oltre e capire dove avrebbe portato il protrarsi del conflitto israelo-palestinese, le due guerre in Iraq, l’intervento militare nei Balcani ed infine quello in Afganistan, senza dimenticare la presenza italiana di peacekeeping nel Libano, l’unica a nostro avviso reale, nel senso che nei fatti funziona come forza di contenimento e di prevenzione ad un’escalation di violenza in quel paese. Abbiamo dato alla stampa ed al dibattito politico, sia in Italia che all’estero, il nostro punto di vista che, scevro da ideologismi ma ben saldo sulle analisi geopolitiche monitorate degli ultimi venti anni, ha cercato di disegnare alcune logiche secondo le quali questi avvenimenti potevano essere spiegate. Così abbiamo descritto gli interventi destabilizzanti in Bosnia, prima del 1998 anno in cui le conseguenze si fanno talmente cruente da richiedere e giustificare un intervento dell’Italia in un conflitto militare per liberare l’enclave del Kossovo e dell’Albania. Abbiamo anche spiegato che questo corridoio geografico era anche utile agli interessi italiani nella gestione dei traffici di gas e petrolio dall’area del Caspio. Abbiamo lanciato appelli per impedire che la caduta del dittatore Saddam Hussein fosse il risultato di un intervento militare e non diplomatico, di intelligence ed economico, ma il conflitto cruentissimo, giustificato con il pericolo del terrorismo, ha insediato le truppe americane ed europee in Iraq, garantendo i nostri interessi economici e strategici in quell’area. Il terrorismo è ancora da sconfiggere e i nostri soldati continuano a morire in Afganistan per un’azione militare che se fosse stata compiuta prima dell’invasione dell’Iraq forse avrebbe avuto una logica ed un esisto diverso. Mentre gli USA di Bush e alcuni dei paesi europei come Italia, Spagna, Inghilterra, Polonia e pochi altri (non la Francia e la Germania, ricordiamo inoltre che la Spagna ha ritirato subito le sue truppe dall’Iraq dopo la caduta di Asnar e l’elezione di Zapatero) concentravano risorse militari ed economiche in queste strategie di intervento unilaterale non autorizzato dall’ONU, la crisi finanziaria cominciava a minare la stabilità dei paesi che avevano fatto queste scelte, colpendo le classi più deboli, facendo crollare imperi finanziari, seminando disoccupazione e nuova povertà dagli Stati Uniti all’Europa, fino ai giorni nostri che mostrano paesi come la Grecia, l’Irlanda e la Spagna in ginocchio davanti alla crisi ed altri paesi, tra cui l’Italia, incapaci di reagire e rilanciare la propria economia. Intanto nei paesi del Nord Africa in questi anni non è che tutto filasse liscio. Basti un dato: la crisi dei mercati alimentari ha portato in alcuni paesi, come ad esempio la Tunisia, il costo del pane ad aumentare del 300%. Davanti a sessantanni di conflitto israelo-palestinese, alle guerre dei paesi sud sahariani, all’aumento di disoccupazione e miseria dei paesi del Nord Africa che si trascina sempre più intensamente dal 1990 in poi, non doveva forse porsi maggiore attenzione, soprattutto da parte dei paesi, come l’Italia, che hanno un naturale ed enorme interesse a condizioni di pace e democrazia nel Mediterraneo? Perché si è preferito dirottare risorse umane ed economiche in azioni militari anzicchè finanziare processi di sviluppo, democrazia e resistenza alla tirannide che pure esistono da decenni nei paesi che oggi ci fanno tremare per il rischio immigrazione? Perché non aiutare l’emancipazione delle donne senza la quale questi paesi non avranno mai vera libertà? E per ultimo con quale logica si è arrivati a pensare che l’immigrazione si potesse fermare con decreti e fogli di via quando è evidente da almeno venti anni che il problema è di natura politica ed economica? Perché, mentre i governi tutelano ricchezze e privilegi di pochi, la povera gente, sempre più disperata ed abbandonata alla propria sorte, non ha altra alternativa che cercare di scappare verso posti dove almeno non si muore di fame e di guerra… magari affrontando il razzismo, come è successo per più di un secolo ai terroni in Italia ed agli italiani nel resto del mondo. L’Intervista. D.: On. Pittella, vista da Sud, l'Europa sembra più impegnata nell'integrazione dei nuovi Paesi membri dell'Est. Quale è il punto della politica euromediterranea? R.: Le proteste popolari che stanno travolgendo i regimi autoritari che hanno dominato finora lo scenario dei paesi della sponda sud del Mediterraneo stanno travolgendo anche la stagnante politica euro mediterranea dell’Unione europea. Nonostante alcuni importanti sforzi negli anni passati per la creazione di un’Unione del Mediterraneo, dietro l’iniziativa soprattutto della Francia che coltiva ancora importanti interessi d’oltre mare, e il lavoro di raccordo e di mediazione continua portato avanti proficuamente dall’assemblea dei rappresentanti dei parlamenti dei paesi mediterranei, poco si è riuscito concretamente a realizzare nel rafforzare una posizione politica, economica e sociale nell’ambito dell’Ue che permetta di sviluppare con energie ed entusiasmo le relazioni nella direzione geo-politica che è l’unica in questo momento in grado di dare nuovi sbocchi allo sviluppo e accrescere il ruolo dell’Europa nel contesto internazionale. Lo stesso Sarkozy, davanti all’emergenza della crisi economica, sembra cercare risposte oggi nel rinverdire un asfittico asse est-ovest, con la Merkel e la Polonia. D.: Le crescenti tensioni nei Paesi del Nord Africa, assieme alla guerra in Iraq e il conflitto in Palestina non incoraggiano certo la speranza di sviluppo nei rapporti economici e culturali con queste aree. Negli ultimi dieci anni non crede che sia mancata una politica estera europea efficace in quest'area? R.: In questi anni l’attività di partenariato ha fatto ben pochi passi avanti concreti, fiaccata soprattutto dalla scarsa volontà e dagli interessi contrapposti dei paesi occidentali. Basti pensare alle barriere tariffarie e doganali alzate per arginare l’offerta a basso costo dei prodotti agricoli, problema superabile con un serio programma di ripartizione e di specializzazione delle produzioni, oppure la questione del debito dei paesi della sponda sud. L’area del bacino mediterraneo è stata guardata dall’occidente non come un occasione di crescita e di sviluppo reciproco dove concentrare investimenti in capitale umano, finanziario e produttivo ma ormai quasi esclusivamente come un problema securitario sull’onda dell’emozione degli attacchi terroristici. Un atteggiamento aggravato da altri fenomeni socio-economici globali come la crescita dei flussi dell’immigrazione clandestina diretta in Europa e degli imponenti traffici illegali di merci dall’estremo oriente che stanno intossicando da tempo l’economia dei paesi dell’Unione. La crisi economica mondiale ha allargato il solco tra i paesi europei e i paesi meno preparati a sostenerne l’impatto e la promessa dell’Ue di far partecipare gli Stati della sponda sud al sistema della libera circolazione europea di beni, persone e capitale si è allontanata. Nel frattempo i problemi che attenderebbero per essere affrontati e risolti politiche comuni tra i paesi che si affacciano sulle sue sponde si sono accumulati, dall’immigrazione, all’agricoltura, all’ambiente, alla questione energetica. D.: Tra i tanti problemi in questa situazione esiste un problema che coinvolge la Calabria. Il Porto di Gioia Tauro, nato come Ponte dell'Europa sul Mediterraneo, oggi è in costante crisi e subisce l'attacco sia dei Porti nordafricani che di quelli dell'Italia del Nord. Che prospettive esistono, a suo giudizio, per il futuro del porto calabrese? R.: La strategica posizione geografica della penisola rendono il Mezzogiorno d’Italia luogo naturale di intercettazione dei flussi commerciali che attraversano il Mediterraneo, con enormi potenzialità per l’economia nazionale in generale, e per il comparto agro-alimentare in particolare. Un importante vantaggio competitivo che, tuttavia, non si è ancora tradotto in una concreta leva di crescita economica quando il tema della logistica e dei trasporti rappresenta uno degli ambiti principali su cui concentrare i fondi disponibili per il Meridione. La necessità di cogliere questa opportunità per il paese e per il sud, in un momento in cui la crisi economica inchioda le performance della crescita a percentuali intorno allo zero, rende ancor più irrinunciabile per le regioni meridionali, ma ancor più in particolare per la Calabria che dispone della grande realtà portuale di Gioia Tauro, la scelta di fare dell’organizzazione logistica e della razionalizzazione dei trasporti uno dei cavalli di battaglia su cui puntare per rilanciarne l’economia. Gioia Tauro ha bisogno di collegamenti efficienti e veloci con i grandi corridoi europei che percorrono il Continente, a volte bastano piccoli accorgimenti per abbattere i costi e migliorare i servizi offerti agli operatori che oggi preferiscono gli altri grandi scali del Mediterraneo in altri paesi, dall’Egitto alla Francia. Quella logistica, quindi, è una sfida che il Mezzogiorno d’Italia deve affrontare innanzitutto nei confronti del Mediterraneo e poi con l’Europa ed il mondo intero.
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