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 MED - ART

Parole Rubate ai sassi di Katia Colica

a cura di Daniela Pericone

 

 

 

Un libro di poesia è un luogo di verità, uno spazio privilegiato di libertà interiore ed espressiva rispetto agli intenti e alle finzioni strutturate della prosa. Qualunque scrittore, qualunque autore di letteratura d’invenzione o saggistica che si avventuri nei territori della poesia, più o meno noto che sia, nutre per la sua opera in versi un sentimento che non è azzardato definire affettivo, una speciale considerazione che va al di là di ogni esito artistico, ma è piuttosto da ricondurre alla coscienza che proprio in quei versi è racchiusa la sostanza del suo essere, il senso più profondo della sua esistenza. Chi avverte la necessità e l’impulso di creare poesia, per quanta tecnica e meccanismi della versificazione possa conoscere e utilizzare, sa che nei versi andrà a confluire quel distillato di natura viscerale che è la storia delle sue ferite e delle sue gioie, la prospettiva particolare del suo sguardo, tutto quanto rende originale il suo essere al mondo.

È con tale sentire, con tale lucida inclinazione che Katia Colica, lasciando per un attimo da parte la sua penna di scrittrice e giornalista, ci viene incontro con il suo primo libro di poesie dal titolo Parole rubate ai sassi, titolo che è già in sé una dichiarazione di poetica, rafforzata peraltro sia dai versi scelti in epigrafe a introdurre la raccolta ("il poeta quando scrive lo fa piano / così è più semplice colpirlo"), sia da quelli posti in quarta di copertina ("io uccido la donna e lascio la poesia / affinché non ceda a dolcezze confuse / rime baciate, versi rotondi con le rondini").

Il lettore si trova così da subito avvertito e al centro dei fuochi incrociati di una scrittura di graffiante autenticità, che bandisce con mira precisa e consapevole ogni sentimentalismo o leziosità di versi "da salotto", rifugge da facili effusioni liriche e da ogni soluzione consolatoria.

La poesia di Katia Colica è un frutto sanguigno, punta dritto allo scopo senza infingimenti, attenuazioni e orpelli espressivi, ogni verso della raccolta, come l’autrice stessa dichiara in uno dei primi testi, vuole essere "una combinazione di sangue e baci", enunciazione confermata dall’uso incalzante e continuo di sintagmi d’intonazione ossimorica, di termini appartenenti a sfere diverse o antitetiche di significati, insistentemente accostati a produrre uno scarto, un vigoroso effetto straniante, come appare evidente dalla frequenza di stilemi di questo tipo: "un morso sul cuore e un sogno di meno", "sentore di sputi e di pane", "odore di latte e cadavere", "carezze di carta vetrata e baci al fango". L’intero andamento della silloge risponde a un ritmo di scrittura serrato e coinvolgente, che quasi non lascia respiro, con una trama linguistica fitta di immagini icastiche di grande efficacia e resa emozionale.

L’autrice ripudia, nei versi come nella vita, ogni posa letteraria, ogni affettazione pseudo-intellettuale, va in cerca della verità del reale, della sua crudezza e corporeità, e quando afferma "io uccido la donna e lascio la poesia" sembra proprio richiamare la necessità di abbandonare l’immagine corrente, ma distorta, di una femminilità tutta romanticismo e sensibilità d’animo, e quindi lo stereotipo della poetessa avvolta in un’aura di versi aggraziati ed evanescenti come merletti.

Oggetto della poesia di Katia Colica è dunque la vita vera, concreta, carnale, esaminata in ogni sua piega, a volte dura e persino crudele, osservata sotto ogni aspetto, anche il più sordido e ripugnante, a evitare la facile tentazione di distogliere lo sguardo, e con esso la coscienza, dalle brutture del mondo e dalla sua violenza. Il poeta perciò interviene sulla realtà adoperando l’unico strumento che possiede, ossia la parola, il linguaggio, a condividere il pensiero dello scrittore Max Frisch sulla "scrittura come legittima difesa contro l’esperienza dell’impotenza".

Se è vero che "la letteratura - citando ancora Frisch - produce implicitamente l’utopia secondo la quale la condizione umana potrebbe essere diversa", ecco allora riconoscibile in tale spinta ideale il carattere fondante di questa poesia, che scuote come un grido di protesta e di ribellione contro un mondo malato di ingiustizia, di arroganza, di mancanza d’amore, là dove a pagarne un prezzo altissimo è la parte da sempre più vessata del genere umano, quella donna che nei testi assume di volta in volta le sembianze della lapidata, della prostituta, della giovane costretta ad abortire, della bambina abusata, in definitiva la femmina vittima di soprusi a qualsiasi latitudine e in qualsiasi epoca. Si tratta di una serie di componimenti che potrebbero facilmente essere definiti e accantonati come canti d’impegno civile, ma lo sguardo della Colica va oltre l’omaggio convenzionale rivolto alle figure stereotipate di certo femminismo di maniera. Al contrario, l’autrice possiede la non comune dote empatica di immedesimarsi nella mente e nel cuore e, più ancora, nella carne di ognuna di queste donne, al punto da farsi coincidere in ogni cellula con la loro vita e i loro pensieri, la loro sofferenza e, più di tutto, la loro ribellione, che sempre si traduce in uno scatto di reni verso la salvezza, nell’invenzione di una personale strategia di sopravvivenza. Perché la donna di Katia Colica, per quanto brutale e annichilente possa essere la violenza che subisce, non è mai un essere passivo e senza voce, anzi, proprio la capacità di rifiutare la sopraffazione e di sopravvivervi le conferisce una forza che è invincibile seme di riscatto, come si racconta nella lirica L’attesa del tempo (o Canto delle ragazze vendute): "ora saremo le regine dei topi e dei fuochi accesi / annoderemo le nostre radici ai pali dei lampioni / per poter ritornarci veloci, per tornarci da vive".

La medesima valenza di motivi ed emozioni percorre le poesie più direttamente autobiografiche, come nel caso delle pagine intense e struggenti dedicate alla figura paterna, a riprova che quella della Colica è un’ispirazione che risponde a necessità profonde di espressione ed elaborazione di sentimenti. Molti di questi versi mostrano le ferite come fiori di carne viva, il linguaggio è sempre spinto alle estreme possibilità, non conosce pudori o remore nel descrivere il dolore e le sue conseguenze. Ma a volte dallo squarcio di qualche immagine trapela che forse l’insistenza nell’uso di parole dure, affilate, quasi aggressive, origina da un sentimento d’amore mancato, dal timore delle sofferenze che l’amore, o la sua assenza, può portare con sé, e quindi dalla necessità di proteggersi dai suoi veleni, come sembra suggerire il verso: "indosso un grembiule per non imbrattarmi d’amore".

Un altro aspetto che colpisce in questa poetica, complementare al bisogno inappagato d’amore, è la ricerca, o per meglio dire, l’inseguimento dell’idea di Dio (sovente indicato con la minuscola) come riflesso del desiderio, tanto istintivo quanto illusorio, dell’esistenza di qualcuno o qualcosa che possa, anche solo per una volta, porre un argine ai mali del mondo o essere invocato in riparo alla morte. Emblematico a tal proposito il verso che descrive il padre "steso sul letto dal dio della calma", nel quale non solo l’invocazione divina è destinata a cadere nel vuoto, ma è la morte stessa a essere incarnata in una sorta di entità pagana e identificata nel suo potere di definitiva pacificazione. Solo un esempio tra i tanti questo appena citato, poiché innumerevoli sono nel corso della raccolta le occasioni in cui si incontrano riferimenti al divino e ai modi di dire derivati dai racconti delle tradizioni religiose, una ricorsività che segnala una reazione bruciante contro quella che si ritiene l’assenza immedicabile di Dio: "Vorrei ingraziarmi Dio per riaverti / ma siete morti entrambi / e non so prendermi cura di voi."

In effetti l’intero corpo della silloge è attraversato da una profusione di nominazioni e rimandi a figure appartenenti alla sfera religiosa ebraico-cristiana (Caino, Abele, Elia, Abramo, Gesù, Giuda, Lazzaro, Pilato, Barabba, Maddalena), o derivate dalla mitologia greca (Zeus, Circe, Arianna, Ade, Persefone/Proserpina, Cassandra, Ulisse, Dafne, Eros, le Driadi, Bacco, Penelope, Priapo, Giasone, Galatea), ma anche egizia (Bastet), accanto ai richiami a opere e autori della letteratura di ogni tempo (da Omero a Shakespeare, da Dostoevskij a Hemingway, da Bukowski alla Plath), con una commistione linguistica e tematica innovativa e priva di preclusioni, il cui esito è una reinvenzione originale e spregiudicata.

Anche i testi che la poetessa dedica ai suoi luoghi, a quella città del profondo sud che è Reggio Calabria (definita "la città dai giorni immobili"), raccontano di un legame conflittuale, tracciano le coordinate di una sorta di campo di battaglia: "Mentre camminavo per la città / ho visto tracce di vergogna, / non l’ho raccolta tra le braccia / ma mi ha perseguitata a suo modo / lasciandomi addosso tutta la sua ferocia". Insieme a questi, i canti composti in omaggio a protagonisti controversi della letteratura come Pasolini o alla misconosciuta scrittrice reggina Giovanna Gulli non fanno che ribadire una precisa scelta di campo, la decisione di stare dalla parte delle minoranze, degli inascoltati, di coloro che per qualche aspetto della loro vita sono considerati diversi, e quindi rifiutati e isolati. "Come saranno le strofe che scrivo / se la mia strada è di sangue e rovine" fa dire l’autrice, con parole che potrebbero valere per sé stessa, alla giovanissima Gulli, che ha avuto la ventura di voler essere scrittrice in una Reggio dei primi decenni del Novecento.

Ma c’è un verso che, forse più di altri, può ben rappresentare la poesia di Katia Colica, lapidario e perentorio: "Il destino volle me per recitarti: e io rinnego il fato". È qui ribadita quella che si può considerare la connotazione più pervasiva della sua scrittura, una insopprimibile tensione di rivolta contro un mondo che non riesce a corrispondere all’istanza d’amore e di rispetto della dignità umana, una mancanza o un’incapacità che induce a costruire baluardi di difesa, o anche mondi paralleli di sopravvivenza, e forse la letteratura, l’arte, ogni espressione della creatività umana possono essere concepite e vissute come un estremo tentativo di resistenza, un’affermazione di vita contro l’oscurità.

 

Reggio Calabria 6/12/2013

 

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