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 Società

Il Tacco di Dio di Katia Colica

a cura di Pino Rotta

 

 

 

 

 

Ecco un libro che lascia sconcertati a cominciare dal titolo e dalla copertina. Sconcertati perché l’autrice, come si legge nel risvolto di copertina, è un architetto urbanista che affronta il problema di un quartiere della periferia nord di Reggio Calabria, inventato sulla carta e abbandonato al suo destino. Questo libro vuole raccontare "… una ballata urbana dove tutto è possibile tranne il futuro.", e certo di questo si tratta, della storia di un quartiere ghetto che, nell’immaginazione di Katia Spanò, autrice della copertina, diventa un lager circondato dal filo spinato con punte acuminate tanto conficcate nella carne dei viventi di questo territorio da farli sanguinare senza speranza di potersi slegare dal loro destino. L’autrice però è anche giornalista e l’intento originario forse era quello di fare un reportage in chiave giornalistica, con l’approccio professionalmente più adatto all’indagine sociologica di tipo partecipativo. Ma la prima regola di un’indagine partecipativa è salvaguardarsi dal rischio del coinvolgimento emotivo che mette in crisi il valore scientifico della ricerca, ed invece Katia Colica proprio di questo rischio, di cui pure è consapevole, non solo non si guarda ma addirittura ad esso si abbandona indifesa per perdersi non nella storia di un quartiere ma nelle tante storie di individuali, quasi nel tentativo di ridare un’identità a quanti in quell’angolo di mondo se la vedono negata. Ed ecco il sublime della trasformazione della narrazione da fredda denuncia sul degrado urbano, la marginalità e l’abbandono, che pure emergono con dovizia di particolari nel testo, in dematerializzazione della stessa autrice che nel progredire nella conoscenza del territorio e nel racconto diventa occhi, voce, pelle e sangue dei personaggi raccontati, o meglio dei personaggi che attraverso la sua trasfigurazione si raccontano. Nulla di più lontano dalla fredda indagine sociologica o giornalistica, semmai una intensa opera di poesia.Il susseguirsi di sensazioni e sentimenti, che emergono dalle storie di umanità, questa è la vera cornice del paesaggio urbano del quartiere Arghillà, del Tacco di Dio di Katia Colica. Il quartiere è rappresentato attraverso lo sguardo, il detto ed il non-detto che i protagonisti di questo incontro tra diversi raccontano in una figurazione dello scempio di spazi e di mura ma soprattutto di vite "scientificamente" relegate a distanza di sicurezza dalla città.Forse era necessaria la sensibilità femminile dell’autrice per dare voce alla vita di persone ai margini. Ed in particolare alle donne, vittime senza colpa e senza possibilità di scelta di questa condanna all’emarginazione e al misconoscimento della propria individualità, dichiarate colpevoli solo per avere dato alla luce e lottato ogni giorno per far crescere delle vite che sin dai primissimi anni sono destinate ad affrontare la sfida della sopravvivenza tra stenti, malattia ed ignoranza, mentre attorno, ormai sempre più da lontano, la città lancia il suo sguardo con timore e con sollievo per il fatto di poter tenere tutto questo a debita distanza.Una storia quella di Arghillà fatta di Rom ma non solo, fatta di gente comune ed abbandonata al proprio destino, abbastanza distante dalla città-vetrina da non costituire un’immediata minaccia, si direbbe illudendosi. L’illusione è la perdita della memoria storica che se recuperata ricorderebbe a tutti che questi sono i figli ed i nipoti di poveri che da quasi due secoli inutilmente le politiche dei ghetti tentano di tenere fuori "dalle mura", mura che uno dopo l’altro hanno ceduto sotto i colpi della miseria e della strumentalizzazione politica e criminale della povertà.

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