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Riflessioni –amare-
sul tempo e l’irreversibilità come causa principale del contrasto secolare tra
uomo e natura
di vanessa riitano
Il vero dissidio
tra l’uomo e la natura è dovuto all’entropia che aumenta…si, insomma, è
colpa dell’irreversibilità; tutto è iniziato quando l’uomo, scoprendo
il fuoco, non accettava che questo si spegnesse, così come quando scoprì
che sbagliando a interpretare i segnali derivanti dal cielo poteva
rimanere al freddo e a digiuno per parecchio tempo e soprattutto quando,
osservando che il tempo scorreva inesorabilmente e senza chiedere il
permesso, egli capì che non poteva fermarlo.
Il tempo sfugge
all’uomo come la tartaruga ad Achille; esso si prende gioco di chi pensa
di riuscire a frazionarlo, suddividerlo in intervallini così elementari
da poter dire: ecco, ce l’ho, l’ho preso, è mio. Questo concetto l’uomo,
immerso com’è nel tempo e nella carnalità (che a sua volta è figlia del
tempo) non riesce proprio a sopportarlo.
L’uomo adora la
reversibilità, il poter controvertere le sue azioni, condurle di volta
in volta nella direzione desiderata e magari farla franca di fronte alla
natura e al tempo; vorrebbe, in ogni istante, avere la possibilità di
tornare indietro, o quanto meno di bloccare la scena come con un
telecomando, a suo libero piacimento. Vorrebbe consumare le risorse
dell’ambiente, senza preoccuparsi del loro esaurimento; vorrebbe far
sparire i rifiuti con la stessa velocità e spensieratezza con cui li ha
prodotti e se fosse possibile, spedirli sugli altri pianeti; vorrebbe
cucire il buco dell’ozono con ago e filo piuttosto che accettare di
doverla piantare coi CFC…
E’ per questo
motivo che l’uomo moderno ha inventato tanta tecnologia, dimenticando di
essere locatario invadente dell’ambiente che lo circonda: per
affrettarsi nella lotta perenne contro il tempo, per essere più veloce,
più efficiente, portarsi avanti col lavoro, fare più cose
contemporaneamente in nome della Dea Quantità e vincere la battaglia
contro la fugacità, contro quel tanto famoso attimo fuggente.
La natura è una
grande, immensa macchina che opera per sé stessa, cioè per la natura,
nel cui seno vi è tutto e anche l’uomo; l’uomo è un piccolo, infimo
congegno che opera per sé stesso, e oltre ad esso non vi è nulla. Questa
dicotomia la dice lunga sull’incommensurabilità tra l’uno e l’altra.
La natura procede
inarrestabilmente, a prescindere da tutto, come una freccia scoccata con
una direzione e un verso, e davanti a sé non v’è nulla di così coriaceo
da potersi opporre senza rimanerne scalfito, perché attenzione, nessuno
afferma che non ci si possa opporre ad essa, il problema è che non lo si
può fare senza serie conseguenze.
E’ come se nel
migliore orologio che esista un bel giorno un banale ingranaggio, uno
tra tanti, decidesse di voler piegare lo scorrere delle lancette ai
propri voleri; si, d’accordo, la rotellina può sempre decidere di
fermarsi, compromettendo il funzionamento generale, ma quand’anche così
fosse, l’orologio –che è il migliore e più grande che esista e che al
suo interno comprende tutto- ha dentro sé anche il modo di prevedere e
risolvere le avarie, sostituendo automaticamente l’ingranaggio
difettoso.
L’uomo crede di
poter dominare l’ambiente, plasmandolo come meglio crede, ma trascura un
concetto fondamentale: la capacità di pensare che si fregia di avere, a
differenza di ciò che non è umano, è dovuta alla presenza di un
cervello, un minuto cervello, che ogni suo simile utilizza
separatamente; ogni uomo pensa per sé, cioè separatamente da tutti gli
altri uomini; la natura pensa tutta insieme, nel suo gigantesco
complesso di elementi e fenomeni e manifestazioni che da essa
discendono; il cervello di cui è dotata è tale proprio in virtù
dell’indissolubilità tra i suoi innumerevoli costituenti, come una
catena dalle maglie serrate e sincrone, al contrario degli uomini,
monili tintinnanti in balia delle intemperie, degli urti e del tempo.
L’uomo si
indispettisce a constatare con quale pazienza e lentezza la natura
sappia ottemperare ai suoi compiti e, livido di rabbia, crede di potersi
misurare con essa sfidandola quotidianamente con nuovi mostri di
innovazione tecnologica; e intanto il mare spumeggia tra onda e risacca,
la luna volteggia nelle sue fasi, il sole si alza solerte a ogni alba e
le piogge gonfiano l’aria di umidità…e questo per generazioni, secoli,
millenni, in un ciclo, non eterno, per carità, ma abbastanza lungo da
potersi considerare tale.
Il sole un giorno
si spegnerà e il genere umano, così poco lungimirante, si affretta a
fare calcoli strani su quando, come, perché, quasi come per cercare di
giocare d’anticipo, prevederlo, non essere impreparati per il grande
evento…e tutti tirano un sospiro di sollievo constatando la lontananza
temporale dell’evento.
Mentre per tutto
quello che c’è ora, anche adesso che ne parliamo -i rifiuti impazziti,
il buco dell’ozono, il global warming, l’inquinamento del suolo, le
centrali nucleari non poi così ermetiche, il disboscamento, gli incendi,
le frane, le alluvioni, l’esaurimento delle fonti energetiche non
rinnovabili-beh, l’uomo non vuole essere catastrofico, ma soprattutto
non ha tempo.
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La
Replica
(contrasto secolare tra
uomo e natura)
di pino rotta

Cara Vanessa, è un piacere seguire le tue riflessioni su questo tema
così fondamentale quanto forse inutile.
Aspetta, non scattare
subito sulle parole. Vediamo di seguire i ragionamenti e cerchiamo di
capire perchè fondamentale e perchè "forse" inutile.
Secondo il tuo
ragionamento è l'uomo a ignorare il correre veloce del tempo secondo le
sue esigenze storiche e secondo la sua visione, condizionata dalla
tecnologia.
E' tutto tremendamente
vero e quindi fondamentale per la stessa sopravvivenza dell'umanità.
Ma tu fai un esempio
classico (Achille e la tartaruga) che fa entrare in gioco due fattori.
Il primo è la
centralità della concezione antropocentrica della storia dell'universo.
Visione ovviamente sbagliata, ma perchè e con quali conseguenze? Intanto
è sbagliata perchè, come tu stessa dici, la natura agisce come sistema
complesso, ha i "suoi tempi" e non si cura della sorte della specie
umana. Ma se è così il paradosso di Achille non vale più perchè il
principio di indeterminatezza, che può avere un valore pratico nella
storia dell'uomo (10 mila anni?) perde di utilità con una visione
complessiva in rapporto tra 10 mila anni e 13,77 miliardi di anni (età
stimata dal solo principio fenomenologico dell'universo, il Big Bang).
Qui entra necessariamente in gioco la logica quantistica secondo la
quale in sè una misura non ha un senso definibile, ed anche nella
definizione di relazione tra due parti: "L’indeterminazione prevista
dalla meccanica quantistica ha rilevanza solamente nel mondo subatomico,
a causa del valore molto piccolo del quanto di indeterminazione. La sua
validità, però, è del tutto generale, e può portare a ripensare la
nostra concezione del mondo. Non è necessario pensare che, là fuori, ci
siano delle entità che “esistono” e si comportano in maniera
determinata. Non è necessario pensare che “esista” il movimento;
l’importante è che possiamo effettuare delle misure e prevederne il
risultato. L’esempio di Achille e la tartaruga rappresenta un caso in
cui questa concezione ci aiuta ad uscire da un vicolo cieco." (Lev
Landau, premio Nobel nel 1962, la “Meccanica quantistica”).
Ecco che in questa
visione il solo pensare alle sorti dell'umanità possono apparire
"inutili"! La natura agisce su relazioni quantistiche non storiche.
Aggiungo una seconda e
forse ancora più drammatica considerazione che tu, ma la maggior parte
di coloro che affrontano questo tema, non prendi in considerazione
nonostante sia un tema posto ormai da più di due secoli da un tizio
malvisto perchè considerato funesto. Il tizio si chiamava Malthus ed il
problema è la crescita esponenziale della popolazione. Tu stessa hai
giudicato con lucidità la questione della finitezza delle risorse
naturali. Ma le risorse hanno una finitezza in relazione a cosa? Al
numero di persone da sfamare, riscaldare, curare, ecc. Questo problema
che all'inizio del secolo scorso era già considerato come preoccupante
oggi viene considerato come ormai "limite valicato". La mia ostinata
vocazione ottimistica mi obbliga a mettere un forse a questa "sentenza"
ma i rimedi che l'umanità cerca di porre in atto vengono considerati
unanimemente dalla comunità scientifica compassionevoli atti placebi
perchè curano i sintomi e non la causa del male.
Ho scritto un libro su
queste questioni (E' un mondo complesso, Città del Sole ed., anno 2001)
e la prefazione è stata scritta dal prof. Paolo Degli Espinosa, il quale
mi ha insegnato quanto importante sia passare da una concezione
"Ecologica" ad una "Egologica". Cioè da un'osservazione della natura
come fenomeno esterno al suo osservatore (l'uomo) a un'osservazione in
cui l'osservatore e l'osservato sono parte dello stesso sistema (conosco
i teoremi di Gödel sui sistemi, ma in questo contesto siamo costretti a
ragionare in tempi storici e non in funzioni quantistiche, perchè il
tempo non ci dà proroghe). Senza una politica planetaria di contenimento
delle nascite e salvaguardia dell'ecosistema che vadano di pari passo
siamo come un treno di prima classe che viaggia a tutta velocità verso
la fine del binario.
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