![]() |
|
|
Home | News | Pubblicazioni | Club Ausonia | Editoriali di Pino Rotta | Multimedia | Guestbook | Archivio | Contatti |
societa'
La solitudine: ossimoro antropologico (
tratto dal saggio POTERE, Governare con la paura, Città del Sole ed.)di pino rotta
Chiedere alla sociologia di definire la solitudine
sembra una contraddizione in termini.
Come può infatti una disciplina che studia le
relazioni tra individui e gruppi e la struttura di queste relazioni definire il
concetto di solitudine?
A complicare questa domanda poi interviene la realtà
del mondo contemporaneo in cui la comunicazione multimediale consente a tutti di
comunicare con il resto del mondo praticamente in tempo reale.
Il progetto di vita che appartiene ad ogni individuo,
che ci definisce, che individua nella socialità consapevole il fattore di
distinzione tra la specie umana ed il resto del mondo animale, quello che ci
identifica, qualunque esso sia non
importa se siamo bidelli o astronauti, si muove grazie a due grandi spinte:
l’azione produttiva e la relazione affettiva. Entrambe queste situazioni
presuppongono un rapporto con gli altri, una struttura di gruppo, con propri
codici, regole premi e sanzioni. Dire questo è un po’ diverso dallo schema di
analisi freudiana giocata tutta su “sesso, denaro e religione”, un po’ ma
non completamente estraneo da questo schema. Senza entrare in un campo che non
mi appartiene e che sarebbe certo meglio sviluppato dai nostri amici
psicanalisti, vorrei però che si tenesse in considerazione questo presupposto
di natura psicologica nell’analisi che stiamo sviluppando. Bisogna infatti
avere ben chiaro il meccanismo della formazione e della trasformazione della
propria identità, perché la solitudine non è percepita da tutti allo stesso
modo e per le stesse cause, la percezione che abbiamo della solitudine è
funzione della struttura della nostra personalità, della dinamica di
trasformazione di essa nel tempo, del contesto e dell’ambiente in cui queste
dinamiche vengono agite.
E’
evidente la radice marxiana della mia analisi, ma quelli tra i lettori che già
conoscono le mie tesi sanno già che ho tentato di dare una lettura per
così dire “non materialistica” dell’esistenza, privilegiando l’analisi
di tipo bioantropologico che associa in maniera sinergica le radici culturali e
la fisiologia di specie, e spero di riuscire a chiarire anche qui questo
concetto, con uno sforzo di sintesi per non risultare tedioso.
Partiremo
dall’analisi del concetto di identità, analizzeremo lo strumento principe
della nostra specie cioè il linguaggio e con esso la comunicazione ed infine
approderemo al concetto di solitudine intesa come privazione come “assenza
di…”. (*)
Cominciamo
quindi con il processo di formazione dell’identità. Alla nascita abbiamo un patrimonio genetico che ci predispone ad affrontare il problema della
sopravvivenza, ma l’evoluzione della nostra specie (*) ha plasmato questo
nostro patrimonio in maniera che suscitasse anche il senso di socialità quale
elemento rafforzativo delle potenzialità di successo. Abbiamo quindi gli
strumenti per sviluppare il nostro essere individui sociali, ma avere le
potenzialità per diventare qualcosa non significa che lo si è già. Alla
nascita non siamo proprio come diceva Aristotele “tabula rasa” ma ci
avviciniamo molto, diciamo che abbiamo in noi lo schema complesso, caotico e
proteiforme di un immenso puzzle da comporre (*). Il problema è come lo
componiamo questo puzzle?
Ferruccio
Rossi Landi è uno degli autori che mi piace citare su questo punto. E vorrei
farlo richiamando una situazione molto efficace che lui elabora per chiarire il
concetto di “prodotto culturale”. Immaginiamo un muratore che sta costruendo
un edificio. Lo vediamo all’opera mentre utilizza i suoi strumenti (la
cazzuola, il martello, la livella ecc..) e seguirà un progetto elaborato da un
architetto per realizzare l’opera. Alla fine l’edificio verrà realizzato ed
il muratore lo vedrà non come un insieme di pietre e calcina ma come il
risultato del suo lavoro, della sua capacità di trasformare la materia e dargli
forma. Naturalmente il risultato finale sarà più o meno efficace a seconda
della capacità di utilizzo degli strumenti e del gusto estetico che vi verrà
espresso. Comunque sarà il prodotto del muratore. Ma perché riteniamo che
quell’edificio rappresenti un “prodotto culturale”? Indipendentemente dal
grado di consapevolezza del muratore, che potrà influire sulla qualità finale
ma non sull’essenza del prodotto, egli avrà utilizzato strumenti che sono il
frutto del lavoro di altri che prima di lui ne hanno intuito e sperimentato
l’esigenza e l’utilità. Questi strumenti nel tempo cambiano di forma si
evolvono ma la funzione semantica che li caratterizza è sempre la stessa sono
il simbolo dell’ingegno e del lavoro umano, trasmesso generazione dopo
generazione. Con essi si realizza un prodotto materiale che però è un mondo
complesso di elaborazione antropologica. Una slitta e una barca sono entrambe
fatte di legno ed hanno entrambe la funzione di trasporto ma nello stesso tempo
essi rappresentano anche due modi in cui l’uomo vede il suo mondo ed il ruolo
che egli ha in questo mondo. Ecco che guardando il prodotto dell’uomo traiamo
una quantità enorme di informazioni sulla sua identità e sulla sua personalità,
ma, e in questo differisce la mia tesi dalla lettura tradizionale delle teorie
marxiane, non è il prodotto che comunica tutte queste qualità antropologiche
ma è l’individuo che ad esso si
relaziona che trae informazioni, emozioni e
sentimenti, ognuno partendo dal proprio bagaglio individuale e collettivo di conoscenza,
sensibilità e gusto. Il muratore che guarda la sua opera finita ci vede se
stesso in quell’opera, vede quello che lui ha pensato, capito, appreso,
sentito e realizzato. Ma non solo, vede anche la propria identità offerta alla
valutazione degli altri e più alto è il valore che egli da alla sua opera
maggiore sarà l’aspettativa di approvazione da parte degli altri. Da queste
riflessioni possiamo trarre un primo dato: l’identità e la personalità di un
individuo si realizzano e si manifestano attraverso prodotti culturali. Il
lavoro, cioè la capacità di trasformare la realtà, è imprescindibile nel
processo di identificazione.
Abbiamo
parlato del prodotto culturale e degli strumenti necessari per il lavoro. E’
evidente che per tagliare una pelle e farne un indumento possiamo usare una
scaglia di selce o un raggio laser quello che è meno evidente è come si sia
passati dalla pietra al laser (Jacques Lacan, nella foto
in basso). Senza soffermarci troppo a lungo sul rapporto
tra evoluzione della tecnologia ed evoluzione del linguaggio, vorrei che ci
soffermassimo sull’ambito in cui questo processo avviene, cioè l’ambito
della socialità.
Sappiamo
dagli studi di neurofisiologia che lo sviluppo di alcune aree del cervello
preposte alle funzioni linguistiche è direttamente collegato allo sviluppo di
altre aree in cui sono esercitate soprattutto funzioni visive, cinetiche e di
memoria. Sarebbe come dire che se io vedo un ceppo in terra ed appoggiandomici
sopra trovo sollievo sarò portato non solo a ripetere l’azione ma anche a
trasmettere agli altri questa esperienza e per farlo dovrò modificare il ruolo
che quell’oggetto assume nello spazio, da tronco casualmente poggiato al suolo
a strumento di ristoro fisico rappresentato linguisticamente dalla parola
“sedia”. Da questo semplice esempio emergono una serie di novità utili al
nostro discorso. Per prima cosa la necessità di trasmettere agli altri la nuova
funzione di un oggetto introduce nella realtà un suono, un termine, una parola
nuova che va ad arricchire il bagaglio linguistico già posseduto, ma da subito
l’uso di questo nuovo termine avrà la funzione di modificare la realtà
materiale e psicologica di chi la usa. Dove prima io vedevo solo un pezzo di
legno ora vedo un oggetto chiamato “sedia” (*) che mi richiama alla mente il
concetto di stanchezza, riposo, benessere, arredamento, funzionalità,
estetica,
ecc. mentre cioè l’interazione con il mondo esterno produce il linguaggio
questo stesso a sua volta arricchisce e rende più complessa questa interazione.
Così possiamo dire che come i modelli fissi di comportamento dettati da bisogni
fisiologici si evolvono sotto lo stimolo del linguaggio che trasforma la realtà,
i modelli fissi di comportamento di tipo culturale si evolvono
contemporaneamente nell’ambito della comunicazione agita nella società.
Parliamo cioè di coevoluzione dei modelli di comportamento a base biologica e
culturale, una funzione resa possibile appunto dal linguaggio che è allo stesso
tempo prodotto culturale e strumento di trasformazione della realtà fisica,
psichica e culturale.
Fin
qui abbiamo seguito le tracce classiche delle teorie sociologiche,
psicoanalitiche e di antropologia culturale maturate e sviluppatesi nell’era
industriale e postindustriale, scomodando di sfuggita, Marx, Lacan, MacLuhan.
Laborit, Wittghenstein e qualche altro. Ora però alle soglie del Terzo
Millennio ci si accorge che lo sviluppo di questi processi non è lineare e
costante come forse i nostri maestri delle teorie moderne avevano prefigurato.
Questi processi seguono uno sviluppo che diventa tanto più veloce quanto più
aumenta la sua complessità. In questo slancio frenetico alla rincorsa dello
sviluppo tecnologico, la comunicazione si sta manifestando con esperienze nuove
che in passato non erano neanche prefigurabili e quindi in gran parte ancora
poco conosciute dal punto di vista dell’analisi sia antropologica che
psicologica.
Nella
società moderna, cioè nel modello agro-industriale, la comunicazione avveniva
con l’uso prevalente del linguaggio parlato, con i suoi codici e suoi ambiti
spazio-temporali che per quanto flessibili erano sempre ben individuabili,
circoscritti all’interno di una comunità, di un territorio e trasmessi nel
tempo con un rapporto diciamo naturale da una generazione all’altra.
Cambiando
il modo di comunicare cambia anche il modo spazio-temporale di relazionarsi. Al
rapporto di comunicazione “de visu” si è sostituito quello mediato dal
telefono e dal video. (*). Abbiamo modificato così non soltanto il mezzo per
relazionarci ma anche il contenuto, il codice linguistico, il codice
metalinguistico ed il flusso di informazioni che ci scambiamo. Abbiamo
soprattutto modificato il territorio in cui avviene la comunicazione (*). Non è
più l’agorà, la piazza, il gruppo di amici o di colleghi ma è l’etere, la
rete, un territorio quasi metafisico che, a dirla con Pierre Levy, è un
organismo a sé stante autogenerante ed autosufficiente.
E’
un luogo cioè dove viene a mancare il contatto fisico e dove la velocità con
cui ci si scambia le informazioni è praticamente tendente al tempo reale
complessivo.
Vorrei dire che sono un sostenitore della
comunicazione multimediale ciononostante bisogna prendere atto che così come la
stampa rivoluzionò il modo di scambiarsi la conoscenza la comunicazione
multimediale sta rivoluzionando le relazioni interpersonali. Con la stampa
l’effetto andò ben oltre il fenomeno quantitativo, rese anche possibile la
democratizzazione della conoscenza, rivoluzionando la cultura e la visione del
mondo lasciando indietro quelli che non stavano al passo con il cambiamento,
fino ad arrivare al punto che a metà del secolo scorso ed anche oltre nella
nostra realtà sociale iniziò il gap di sviluppo che ci portiamo ancora oggi.
Fino ai primi anni ’70 il tasso di analfabetismo di una nostra provincia
del Sud superava il 60% più del doppio rispetto alle realtà del Nord e soprattutto di
altre nazione come la Francia o
l’Inghilterra, dal ‘70 in poi si cominciò a percepire questa condizione
come una diminutio uno stato di emarginazione. In pochi anni si sono fatti passi
da gigante tanto che arrivammo ad assumere primati di scolarizzazione, solo che
il resto del mondo andava già da un’altra parte. La cultura si può
trasmettere per via orale ma non in pastiglie. Oggi la comunicazione
multimediale, che nella nostra realtà si muove con incedere lento così come fu
per l’alfabetizzazione, sta irrompendo nella nostra vita modificando la nostra
percezione della realtà. Questo paradossalmente ci da il vantaggio di conoscere
gli effetti di un fenomeno ormai diffuso nelle società occidentali più
avanzate, anche se non abbiamo ne gli strumenti ne la sensibilità diffusa,
direi politica, per affrontare questa sfida senza atteggiamenti da
fondamentalismo antimodernista o ipermodernista.
Le
dinamiche della società postmoderna sono ormai conosciute e già da almeno
trent’anni vengono studiate per individuarne potenzialità e punti di crisi
sia per le classi sociali che per i singoli individui. E qui entriamo e potremmo
affondare le mani nel tema che stiamo affrontando.
Abbiamo
visto che ciò che ci identifica è il lavoro, il territorio in cui agiamo ed il
riconoscimento sociale che traiamo dalla nostra azione.
Per inciso non dobbiamo rendere troppo romantici
questi concetti, poiché il meccanismo è identico tanto per l’insigne
chirurgo quanto per il più crudele dei mafiosi, dal punto di vista sociologico,
diremo che si tratta solo di categorie sociali differenti, ma il processo di
identificazione è lo stesso per entrambi. Semmai sarebbe interessante capire
com’è che una stessa società produce una mente eccellente che potrà essere
dedicata all’arte o al crimine, ma non abbiamo qui il tempo necessario.
Quindi noi siamo l’azione, il territorio e il
riconoscimento sociale.
In
una piccola comunità rurale questi tre elementi sono ben definiti. In una scala
gerarchica ideale la priorità è assegnata alla comunità, segue la famiglia,
l’individuo maschio, poi le femmine appartenenti alla famiglia. L’azione
ruota attorno al mantenimento della struttura sociale che è individuata anche
come comunità e quindi come territorio fisico, il riconoscimento sociale è
messo in relazione con la capacità di dare ed accrescere prestigio e sicurezza
alla comunità, esattamente come in un organismo biologico, i singoli organi
esistono solo in funzione del tutto. Le norme morali sono rigide spesso
oppressive della dignità individuale, soprattutto femminile, le sanzioni
esercitate dal controllo sociale, più che dall’istituzione, sono semplici ed
immediate. Tutto è funzionale al mantenimento della struttura sociale. Chi
vivrebbe mai oggi in una famiglia o in una comunità a stretto regime
patriarcale? Dove l’individuo esiste solo in relazione all’appartenenza,
in qualità di figlio di…, figlia o moglie di… ecc, e fin tanto che
la società lo riconosce. Basta richiamare alla memoria le pagine immortali di
Luigi Pirandello per avere chiaro il concetto. La gente appena può scappa per
andare in città. Eppure in quel tipo di società, il sentimento di solitudine
era non dico assente, ma sicuramente sporadico, altri problemi affliggevano le
persone ma la solitudine era un problema poco avvertito.
Quel
tipo di società comincia ad andare in crisi già dalla seconda età degli anni
’50. Con il boom economico degli anni sessanta, l’alfabetizzazione di massa
e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa determinano molte
trasformazioni, ma una in particolare segna un svolta radicale nella cultura
occidentale: il riconoscimento della libertà individuale come valore
universale, il trinomio illuminista, due secoli dopo era diventato popolare. Per
molti anni si è fatta, a volte anche strumentalmente, un’associazione
assolutamente fuorviante tra i movimenti di contestazione di massa degli anni
sessanta ed il concetto di collettivismo politico. Gli anni sessanta hanno
conosciuto movimenti giovanili di massa in tutto il mondo, in contestazione con
un sistema sociale rigido ed oppressivo della dignità personale, e fu di massa
perché era diffuso e comune lo stesso sentimento che possiamo riassumere in uno
slogan: “Io ho il diritto di essere libero e me stesso!”. Il fatto che
questo sentimento fosse condiviso da una moltitudine nello stesso tempo ha certo
avuto un effetto accelerante nella trasformazione e nella rottura delle rigide
norme sociali degli anni cinquanta, ma questo non toglie che alla base di quella
che fu chiamata anche “una rivoluzione culturale” c’è stata una diffusa
presa di coscienza del valore della libertà e dell’identità individuale. In
particolare quella della donna, storicamente anello debole dell’ingranaggio
sociale. In quegli anni si verificò una traslazione del territorio in cui
veniva agito il prodotto culturale individuale. Il sentimento di appartenenza
alla comunità familiare e civica si dilata al punto tale da diventare
praticamente ideale ed universale. Nascono in quegli anni le comuni ma gettano
anche nuove basi discipline esoteriche, prima tra tutte la new age. In occidente
il rapporto anagrafico tra le generazioni era 60 e 40, cioè il 60% della
popolazione nei paesi industrializzati aveva meno di 30 anni. Una società
giovane, dinamica e con un forte senso di appartenenza sociale e generazionale
e, grazie al crescente benessere economico, con una forte fiducia nel futuro, la
voce di quelle generazioni fu ampliata e diffusa dai nuovi media, dalla musica,
trasmessa nei juke-box e diffusa da radio e televisione. Anche quel ciclo vide
il declino in meno di vent’anni, negli anni ’70 il sistema produttivo
occidentale cominciò ad entrare in una crisi strutturale, la concentrazione
urbana, dovuta allo svuotamento delle campagne, aveva dato frutti incredibili di
degrado ambientale e di emarginazione. Dal clima di cooperazione sociale si passò
allo scontro sociale e poi negli anni ottanta alla più sfrenata competizione
sociale con fenomeni quali ad esempio lo yuppismo, modelli di arrivismo sociale
senza scrupoli e senza valori. Anche in questa fase il ruolo dei media fu
importantissimo, lanciando messaggi attraverso telenovelas e spot pubblicitari in
cui il valore della persona si misurava in rapporto alla sua capacità di
emergere economicamente e quindi socialmente. La new economy era abbagliante,
tutti potevano diventare ricchi solo spostando soldi da una parte all’altra
del mondo. La realtà come si è visto in seguito era molto diversa, il sogno si
dimostrò illusione, e sul terreno non rimasero solo le spoglie degli yuppies
rimase anche la coscienza collettiva frantumata come un vaso di cristallo caduto
in terra. Terrorismo, guerre, malattie epidemiche hanno rapidamente cambiato la
percezione dello spazio d’azione che da universale si è ristretto sempre più
mano a mano che cresceva il senso di insicurezza individuale. Altro effetto
della depressione economica fu l’arresto della crescita demografica e
l’inizio dell’invecchiamento della popolazione come oggi lo conosciamo.
Ma
la società in questi ultimi venti anni è oggettivamente trasformata e
migliorata, anche se noi la percepiamo in crisi, la tecnologia e la
multimedialità hanno conosciuto sviluppi e diffusione di massa come pochi altri
fenomeni nella storia dell’umanità. Nuova è anche la capacità di diffusione
di massa della nuova tecnologia multimediale, dovuta ai veloci progressi
scientifici e ai bassi costi di produzione. Un rimedio ideale al restringimento
del territorio fisico è sembrato essere l’espansione del territorio virtuale,
il telefono mobile e poi la rete internet ci hanno offerto una nuova sensazione
di libertà, possiamo comunicare con chiunque e dovunque. Anche se nella realtà
questo è vero solo per una parte del mondo, sostanzialmente quella occidentale.
Ma intanto le condizioni sociali ed economiche, la trasformazione della città
in metropoli e l’effetto globale a cui corrisponde una “invasione del mondo
nella sfera del privata” amplificata dalla televisione e dalle
telecomunicazioni, ci danno di nuovo la sensazione di essere in grado di
viaggiare, conoscere, incontrare, la differenza con il passato anche
recentissimo, fino alla fine degli anni ’80, è il viaggio ora si fa da fermi,
si fa virtuale. Possiamo incontrare tutto e tutti senza perdere la sicurezza
della poltrona di casa nostra. Il problema che si pone però adesso è
comunicare “con chi e che cosa” in questo nuovo territorio che ha regole in
massima parte ancora sconosciute e
soprattutto che ha ritmi improntati alla massima velocità di scambio delle
informazioni. Sono “informazioni fast food” che si consumano in tempo reale
per essere sostituite subito da altre ed anche queste sono
un prodotto culturale, ma un prodotto che per avere successo deve trovare
un pubblico uniforme non solo per capacità di linguaggio ma anche per
sensibilità e gusto. Così l’esperienza individuale viene agita in un
territorio che esclude il contatto fisico che è inveve alla base del
riconoscimento del proprio territorio di appartenenza fatto di storia, di
paesaggi, di uomini e di donne che si muovono e parlano secondo equilibri di
relazione prossemica funzionali ai propri bisogni non solo materiali ma
soprattutto spirituali. Questa nuova esperienza è regolata da ritmi e velocità
che sono del tutto nuovi ed abnormi per la maggior parte delle persone. In
questo territorio che non ci appartiene, dove i corpi non hanno più valore
semantico con le caratteristiche proprie di ogni singola persona, in cui la
velocità riduce la possibilità di senso complesso nella comunicazione, ci
sentiamo letteralmente smarriti, ma rimaniamo come ipnotizzati dal susseguirsi
di immagini e suoni nati per esistere in questi territori nuovi, con regole e
problemi nuovi. Ci stiamo abituando a guardare anche il mondo reale esattamente
come se fosse un grandissimo teleschermo, soprattutto i bambini e gli
adolescenti sono soggetti a questa attrazione fatale e se il mondo reale si
rifiuta di assoggettarsi ai canoni televisivi rimaniamo delusi e spesso tendiamo
a rifiutare non la televisione ma la realtà che ci circonda. Questi territori
sono in continuo aumento perché sono l’habitat naturale del pensiero
uniforme, globale, commerciabile, “sono i fast food della mente”. Il luogo
in cui non hai il tempo di riflettere sul senso di alterità, sul confine, sul
passaggio, sulle aporie descritte da Jacques Derrida.
Uno
dei più importanti antropologi contemporanei, il francese Marc Auge (nella
foto), ha
definito questi territori “Atopos” cioè “non-luoghi”, territori in cui
il tutto ed il particolare si mescolano: “l’esperienza del non-luogo
(indissociabile da una percezione più o meno chiara dell’accelerazione della
storia e del restringimento del pianeta) è oggi una componente essenziale di
ogni esistenza sociale… mai le storie individuali sono state così coinvolte
nella storia generale… non c’è più analisi sociale che possa tralasciare
gli individui né analisi degli individui che possa ignorare gli spazi
attraverso i quali essi transitano.” (Marc Augè).
E’
evidente che qui si parla certo di spazi fisici che, come abbiamo sopra
accennato, hanno un’enorme incidenza sulla formazione della personalità e
sull’azione sociale ed individuale, ma si parla anche di spazi antropologici,
cioè di luoghi in cui i segni dell’essere hanno un significato che può
essere compreso, usato, trasformato, personalizzato ed infine trasmesso e
tramandato. Sono questi gli spazi di cui oggi cominciamo a sentire la mancanza
(nelle grandi città sono ormai la regola), per questo all’inizio abbiamo
parlato della solitudine come “assenza di…” qualcosa, questo qualcosa è
rappresentato dall’alterità irrinunciabile per sentirsi completi. Il confine
dove finisce la mia persona è lo stesso confine dove inizia l’altra persona,
è un confine fisico e metafisico nello stesso tempo, che sta lì in attesa solo
di essere attraversato o anche solo interrogato. Ci troviamo invece sempre più
spesso intrappolati nel nostro presente, con il timore di guardare avanti e
l’incapacità di guardarci indietro in maniera costruttiva. Ma sappiamo che
accontentandoci di un eterno “qui e ora” continueremo a sentirci privati del
senso della nostra esistenza, sconnessi dal resto del mondo, persi nella nostra
solitudine.
|