TARANTELLA E PINK FLOYD

di Pino Rotta heliosmag@virgilio.it


Pretendere di analizzare la società facendo comparazioni tra generazioni e stili di vita può essere un grande errore e portare ad una sorta di ideologgizzazione quella che è, seppure probabilistica, una scienza, la sociologia. Ma rinunciare a confrontare fenomeni e movimenti culturali di epoche diverse fa cadere nello stesso errore in un’ottica inversa.

Negli ultimi due decenni, sotto la spinta di una intensa trasformazione socio-economica accompagnata da uno smarrimento fisiologico di identità consolidate, si sono fatte avanti istanze rivolte al cosiddetto recupero delle radici etniche e storiche. Questo processo è stato sollecitato e spesso promosso da una classe dirigente, politica ed economica, che non riusciva più a gestire il cambiamento e vedeva svanire la tradizionale capacità di esercizio del controllo sociale. Un’azione trasversale che ha coinvolto in ugual misura sia le forze di riferimento dei ceti conservatori che quelle dei progressisti. Le prime vedendo in questa azione la possibilità di recuperare un ruolo sociale che negli anni sessanta-settanta avevano perduto sotto la spinta della cosiddetta "rivoluzione culturale", le seconde per rispondere alla crisi di identità che quello stesso periodo ha prodotto anche dentro i ceti sociali progressisti. Un’accelerazione forzata dunque da interessi legati all’attualità politica che però ha ignorato una delle regole fondamentali dei fenomeni sociali, quella che insegna che una azione culturale che non si radica nella società alla fine genera mostri irrazionali che nessuno riesce più a controllare.

Ora se c’è un fenomeno culturale capace di dare la misura di questo processo questo è la musica. La musica è allo stesso tempo prodotto ed indicatore della cultura. Negli anni sessanta-settanta fu proprio la musica, assieme alle manifestazioni esteriori (minigonne, jeans, capelli lunghi), a caratterizzare un’epoca ed alcune generazioni. Gruppi come i Beatles, i Pink Floyd, i Rolling Stones erano allo stesso tempo espressione e riferimento di quella cultura e di quelle generazioni. Una musica che esprimeva la voglia di cambiamento e nello stesso tempo lo smarrimento che questo cambiamento provocava. Un fenomeno occidentale, che coinvolse milioni di giovani in Europa ed in America e che trovò in Italia espressioni importanti, soprattutto negli anni settanta, nei cantautori come De Andrè, Guccini, Vecchioni ed in gruppi come i Nomadi, poeti-cantanti che mettevano al centro della propria opera il testo per sopperire alla carenza di percezione dei contenuti dei gruppi anglofoni, che spesso non riuscivano a veicolare in Italia i loro messaggi per la nota resistenza degli italiani ad avere dimestichezza con la lingua inglese.

Negli anni ottanta-novanta questa tendenza culturale, che pure non aveva ancora cessato di esprimere le istanze culturali della società, fu interrotta ed iniziò quella fase di recupero forzato delle radici. Iniziò un recupero del dialetto, della musica popolare e delle tradizioni. Se dal punto di vista storico è senza dubbio di grande importanza ed interesse un’azione che non faccia disperdere il patrimonio culturale di un popolo, da punto di vista sociale ci si chiede quale fu l’effetto di queste scelte. Da un lato abbiamo una società che si muove sempre più velocemente verso la globalizzazione, che significa necessariamente anche globalizzazione di stili di vita e strumenti di comunicazione (la tecnologia e l’uso dell’inglese) dall’altro abbiamo la crisi e la tendenza all’abbandono della lingua nazionale, la valorizzazione dei dialetti e delle espressioni culturali legate alla tradizione. Ci si chiede perché un ragazzo del duemila, che non è più padrone della lingua italiana e che ha difficoltà ad entrare nel processo di globalizzazione che impone l’uso della tecnologia e dell’inglese debba essere incoraggiato a suonare l’organetto e ballare la tarantella, avendo ormai cancellato dal proprio bagaglio culturale quel periodo di transizione, rappresentato nella musica dai Pink Floyd? Come può sentirsi coinvolto in un progetto di costruzione di futuro se viene indirizzato a volgere lo sguardo all’indietro anziché in avanti? E se questo non abbia come effetto la sensazione di perdita di senso della convivenza sociale e del proprio ruolo individuale nella società?

Questo, che potrebbe sembrare un mero esercizio di dialettica sociologica, se approfondito ed analizzato nei suoi aspetti più generali potrebbe dare risposte a molte domande sui crescenti fenomeni di devianza e violenza che gli adolescenti vivono nella società italiana e più in generale occidentale.

 


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