STUDIO SULLE DINAMICHE SOCIALI
DEI GIOVANI DI REGGIO CALABRIA
Matrice esistenziale di uno stato d'animo: l'insicurezza.
A cura del Club Ausonia Helios Magazine (Reggio Calabria, 1999)©
realizzato da:
dott. Pino Rotta (antropologia), direttore di Helios Magazine, dott. Carlo
Calabro' (sociologia), redattore di Helios Magazine, dott. Pasquale Romeo
(psichiatra),collaboratore di Helios Magazine, d.ssa Elisabetta Felletti,
(psichiatra),colaboratrice di Helios Magazine
Abbiamo realizzato questo studio con l'obiettivo di far
partecipare i ragazzi di Reggio Calabria ad una riflessione sui comportamenti,
tendenze, valori e contesti sociali di cui essi stessi sono protagonisti.Una
riflessione guidata dall'esposizione di tecniche e modalità di comunicazione e
di situazioni di malessere esistenziale che, seppure a volte si manifestano con
eventi eclatanti, il più delle volte rimangono latenti ed inespresse e che sono
inquadrabili in un più generale contesto di "depressione
sociale".Nelle relazioni che seguono esponiamo il percorso seguito per la
realizzazione di questo programma di ricerca ed il risultato di una ricerca
effettuata su un campione di 300 giovani
reggini (il campione è stato suddiviso in 4 sottogruppi: Ragazzi dai 15 ai 19 anni, Ragazzi dai 20 ai 25 anni , Ragazze dai 15 ai 19 anni e Ragazze dai 20 ai 25 anni) che,
riassunto in schemi e diagrammi, ci ha dato la possibilità di
"fotografare" la realtà giovanile per cercare di capire il nesso tra
i fattori che portano all'esclusione sociale (anche solo tendenzialmente) e la
realtà socioeconomica in cui i giovani di Reggio Calabria vivono il dramma
della mancanza di sbocchi occupazionali. VAI AL
GRUPPO DAI 12 ai 15 ANNIIl risultato di questo studio crediamo possa
essere utile a quanti hanno il compito di realizzare politiche economiche e
sociali che permettano ai giovani di proiettarsi nel futuro con un ruolo attivo
ma soprattutto ai giovani stessi che potranno da questa analisi trovare
elementi di riflessione sulla loro condizione esistenziale con una maggiore
consapevolezza della realtà in cui si trovano a vivere.Vogliamo ringraziare in
primo luogo i ragazzi che hanno partecipato con ruolo attivo nella fase di
indagine e, seppure in numero inferiore, nella esposizione delle tecniche di
comunicazione. Tra di essi un particolare ringraziamento va ad Isabella Romeo,
rappresentante degli studenti nel Consiglio di Facoltà di Ingegneria di Reggio
Calabria, che ci ha supportato, assieme ad Antonella Marmoro, in tutto
il lavoro organizzativo tenendo i contatti con gli studenti della stessa
facoltà e con quella di Giurisprudenza. Un altro ringraziamento va al prof.
Vincenzo Coccorese pro-Rettore dell'Università degli Studi di Reggio
Calabria, che ci ha messo a disposizione la struttura dove si sono tenute le
conferenze ed i gruppi di lavoro. Ed infine un altro particolare ringraziamento
va al dottor Antonio Cosimo Calabrò, Presidente dell'Amministrazione
Provinciale di Reggio Calabria, per il contributo che ci ha permesso di
realizzare e rendere pubblico questo studio.
IDENTITA' E LAVORO
1 - La comunicazione e l'azione come strumenti di
realizzazione della personalità.
2 - Una realtà a due dimensioni
di Pino Rotta
L'azione di ogni individuo si svolge partendo da motivazioni che solo
apparentemente appartengono all'individuo stesso. Queste motivazioni provengono
invece da un contesto già strutturato sia culturalmente che fisicamente.
L'azione quindi non è solo il frutto di un'intuizione che diventa idea da
realizzare, ma la messa in campo di volontà e conoscenza degli strumenti di cui
un individuo dispone e che trova già esistenti nell'ambiente in cui egli nasce
ed agisce. Il problema principale sta proprio nell'assumere consapevolezza della
realtà fisica e culturale in cui si deve operare e nel produrre un atto di
volontà per realizzare un'azione. Nel caso dell'artista l'intuizione,
comunemente definita ispirazione, nell'atto di prendere corpo e diventare opera
espressa tende a perdere la forza originaria da cui è stata mossa fino a
diventare "altro" da quello che l'artista stesso voleva esprimere, ed
è frequente il caso in cui, ad opera compiuta, l'artista la rinnega perchè in
essa non riconosce il contenuto complesso che aveva in mente di
esprimere. Questo processo si muove dentro confini che, per quanto difficilmente
definibili, sono segnati dal vissuto culturale di ogni individuo. Una sorta di
matrice forzata, anzi imposta dalle convenzioni culturali, tanto che il
concetto stesso di libertà entra in crisi nel rapporto dialettico con il
complesso dell'organizzazione sociale, che impone di comunicare attraverso
strumenti talmente rigidi da assumere significato autonomo nella comunicazione
ed il cui utilizzo caratterizza l'identità di chi li utilizza, ancor prima e
forse più, del significato stesso contingente che essi veicolano. Dobbiamo
chiederci che significato ha per l'uomo la comunicazione e per quale motivo l'uomo
comunica. Ricordiamo che l'individuo si forma organizzando elementi presenti
nell'ambiente biologico ed in quello culturale. L'organizzazione implica l'uso
complesso, e spesso inconsapevole, di parti preesistenti già disponibili, come
strumenti per la costruzione di un prodotto. Se per costruire un tavolo un
falegname usa delle tavole levigate, un martello e dei chiodi, la sua
attenzione si concentrerà nell'esecuzione del lavoro necessario ad ottenere il
prodotto (tavolo) che si era prefissato. Non si preoccuperà di capire l'origine
degli strumenti (martello e chiodi) e del materiale (tavole levigate) usati, ne
si preoccuperà di analizzare il fatto che anche per ottenere quegli strumenti e
quel materiale è stato necessario un lavoro e che questo lavoro è preesistente
rispetto a quello che per l'occasione egli sta eseguendo. Alla fine avrà una
percezione della propria opera evidenziata dalla realizzazione del tavolo, e
dall'analisi del suo ultimo risultato darà una valutazione della propria
attività. Ma il tavolo senza l'esistenza degli strumenti utilizzati per la sua
costruzione non esisterebbe neanche concettualmente, almeno fino all'intervento
della sua possibile esistenza a livello intuitivo.Allo stesso modo un individuo
che agisce in un contesto sociale per cercare ed esprimere la propria identità
non farà caso agli elementi che gli sono familiari, di cui si serve per agire e
realizzare i propri scopi, ma valuterà il risultato (identità) sulla scorta del
riscontro che trarrà dal riconoscimento sociale suscitato. Nel caso di azioni
espresse in situazioni poco complesse, (l'identità di un portalettere è
immediatamente percepibile dal portalettere stesso e dai suoi utenti poichè è
semplice l'organizzazione simbolica con cui quest'identità si manifesta), il
grado di autopercezione è rapportato al grado di complessità
dell'organizzazione sociale entro cui queste azioni vengono agite, se la
struttura sociale è ordinata secondo codici comunicativi generalmente acquisiti
e livelli di scambio relativamente immediati, il grado di percezione della
propria identità sarà sufficientemente elevato e gratificante sul piano
psicologico. Ma in una realtà come quella in cui si trova oggi l'uomo
occidentale i livelli di scambio sono così diversificati ed i codici
comunicativi sono così complessi ed articolati che il prodotto dell'azione
individuale è quasi sempre impercettibile sia dall'agente che dal resto del
contesto sociale in cui questo si manifesta. Lavoro, tecnologia, partecipazione
politica, espressione artistica, relazioni umane, tutto risente di questa
complessità e di questa parcellizzazione e strutturazione "alveare"
dei livelli di scambio. Alla fine il risultato è una dispersione della
percezione della propria identità tanto da far perdere completamente questa
percezione e far affiorare con virulenza un profondo senso di anomia e di
inutilità dell'azione individuale, se non addirittura di una sensazione di
vanità complessiva della vita.La ricerca si deve muovere sul piano della
manifestazione spazio-temporale dell'esistenza e gli strumenti da adottare,
sempre duttili ed in continua trasformazione, saranno allora quelli complessi
della cultura e della comunicazione, che hanno continua incidenza nell'analisi
e nella strutturazione della realtà; quella realtà che assume un significato
agli occhi dell'osservatore solo che questi presti attenzione ai processi di
relazione che la costituiscono e la manifestano, secondo una logica che
definiremmo sfumata. Abbiamo parlato fin qui di identità in relazione all'azione
socialmente rilevante (non importa a che livello) di un individuo. Fermiamoci
ora a chiarire proprio il concetto di azione socialmente rilevante. Proprio come
non si può distinguere o separare l'uso di uno strumento dal prodotto che da
tale uso deriva, così non si può distinguere o separare l'identità di un
individuo dalla sua essenza culturale. Se intendiamo la cultura come una
sequenza ininterrotta di azioni socialmente rilevanti solo con un'azione
produttiva e con la comprensione delle relazioni complesse a livello culturale
e biologico in cui quest'azione si estrinseca, l'individuo ottiene la
percezione della propria identità, poichè prende coscienza del proprio
intervento nel processo di produzione culturale in cui egli, prodotto culturale
ed allo stesso tempo agente di produzione culturale, interviene utilizzando la
complessità preesistente e l'arricchisce di nuovi elementi. Quando quest'azione
non trova spazi di espressione, e si inserisce in una situazione di povertà
cognitiva dei meccanismi che regolano le relazioni sociali e più in generale
quelle tra individuo ed ambiente (come nel caso dei giovani che non trovano
posto nel sistema produttivo, rimanendo adolescenti oltre l'età
convenzionalmente intesa come adolescenza) la manifestazione della propria
identità si sposta dal livello culturale a quello biologico ed utilizza, per
esprimersi, anziché i codici culturali di comunicazione, quelli biologici di
specie, tra i quali forse i più significativi ed immediati sono quelli legati
all'espressione di aggressività o sottomissione ed il cui prodotto, oggi sotto
gli occhi di tutti, sono la violenza e la tentazione autodistruttiva, e la
perdita di identità. Ne deriva che l'identità va ricercata nel risultato
dell'azione individuale tesa alla realizzazione di un progetto e concretizzata
per mezzo di un'azione che produce effetti che caratterizzano l'individuo,
percepibili tanto da chi agisce quanto da chi entra in relazione con questi
"prodotti".Passiamo tutta la nostra vita rincorrendo una qualunque
forma di attività che ci consenta di avere il denaro necessario per vivere, e
possibilmente di vivere bene. Le nostre giornate scorrono, a volte, turbinose ed
"incessanti" per l'attività che svolgiamo. Molto più spesso invece al
ritmo incalzante delle nostre azioni quotidiane si aggiunge la monotonia e la
ripetitività delle stesse. Anche chi è in cerca di un'occupazione per il proprio
futuro non sfugge a questa "performance".Eppure alla fine ci si
ritrova con uno stato interiore di insoddisfazione che diventa giorno per
giorno sempre più opprimente. Colti da un senso di insoddisfazione, si cerca
allora di capire cosa è che non va, o di trovare il modo di variare la nostra
routine, magari trovandoci un hobby, facendo una vacanza, frequentando una
palestra, gettandoci nello studio o nella giungla sonora di una discoteca. Per
meglio dire, il più delle volte, ci riproponiamo di farle queste cose a
cominciare da "domani". Così il tempo passa e noi continuiamo a
sentire il suo trascorre con un senso di vuoto e di inutilità. Ma come è possibile
avere la vita piena di cose da fare e non riuscire, nel complesso, a trovare
soddisfazione nel nostro modo di vivere?Forse la risposta sta nel fatto che
essere in attività non sempre corrisponde con l'avere una propria
identità. Possiamo fare qualcosa, produrre qualcosa, lasciare la nostra impronta
nelle cose che facciamo, ma il problema è che le cose che si fanno, quasi
sempre, sono calate in modelli di organizzazione e con ritmi temporali che non
dipendono dalla nostra volontà, anzi quasi sempre non abbiamo neanche coscienza
di essere coinvolti in questi meccanismi, ruote di un ingranaggio che funziona
"indipendentemente dalla nostra esistenza e volontà".Siamo delle
comparse in una commedia di cui non siamo ne registi ne sceneggiatori. Siamo
"non-persone" in un mondo fatto di "non-persone"; volti che
non riescono a far venire in superficie quella parte di unico e distinguibile
che è la propria personalità. Per avere la soddisfazione di fare qualcosa
occorre che questo qualcosa non solo lasci il segno della nostra esistenza
(questo avviene comunque!) ma è anche necessario che sin dal principio ci sia
la volontà di raggiungere un fine (materiale o meno che sia) ed avere coscienza
del fine che si vuole raggiungere. Volontà e coscienza sono fattori inscindibili
dalla propria personalità, e quindi un risultato raggiunto o fallito con questi
presupposti ci fa riconoscere (da noi stessi e dagli atri) nel prodotto della
nostra azione. In queste condizioni è importante il raggiungimento
dell'obiettivo che ci si prefigge ma un eventuale fallimento non sarà
psicologicamente devastante, poichè esso stesso è commisurato al nostro
iniziale stato di coscienza e di volontà, per questo, benché non voluto, non
arriverà mai inaspettato; addirittura più complesso è l'obiettivo che ci saremo
prefissati "coscientemente e volontariamente" di raggiungere più ci
sarà la possibilità che un eventuale fallimento ci spinga a
"riprovarci" ricominciando "da tre", avendo cioè imparato
qualcosa. Detto questo, rimane il problema di individuare gli obiettivi da
raggiungere e quello di affrontarli con coscienza e volontà che ci
appartengano. Ognuno di noi, in quanto individuo sociale, non matura alcuna
esperienza se non dentro un contesto culturale. Nasciamo e cresciamo secondo
modelli di vita che sono prestabiliti culturalmente e la nostra personalità si
forma attraverso il rapporto con gli altri individui e gruppi. Per avere
coscienza di quello che forma la nostra personalità dobbiamo quindi
necessariamente avere conoscenza dei meccanismi che stanno alla base della
nostra relazione con il mondo che ci circonda, fatto di persone e di oggetti. E'
questa "comunicazione" con l'ambiente che forma il nostro modo di
essere, qualunque esso sia. Dobbiamo per ciò comprendere in che modo e che cosa
comunichiamo all'ambiente e che cosa questo ci comunica, si tratti di
esperienze pratiche o di sentimenti ed emozioni. Non potendo ragionare se non in
termini di socialità non possiamo fare a meno di riconoscere e comprendere la
personalità degli altri ed il sistema di organizzazione sociale che condiziona
e forma la personalità: tutto questo ci porta a comunicare
"coscientemente" con gli altri ed a prendere coscienza dei tratti
caratteristici della nostra e dell'altrui personalità, oltre al fatto di
prendere coscienza dei meccanismi di funzionamento del sistema ambientale in
cui viviamo. In questo processo riusciamo a comprendere che la nostra azione ha
sempre conseguenze sugli altri e sull'ambiente inteso nel senso più ampio di
ambiente fisico e culturale, e questa nostra azione comporta necessariamente
una continua mutazione dello stesso, e quindi dell'organizzazione sociale,
delle relazioni interpersonali ed anche della struttura fisica dell'ambiente
stesso (prendere l'autobus o viaggiare sulla propria automobile in città comporta
ad esempio la conseguenza di avere uno spazio urbano più o meno agibile, ed
un'aria con effetti non nocivi sulla salute). Ma la cosa più importante dal
nostro punto di vista è che comprendere i meccanismi della nostra comunicazione
con gli altri comporta il fatto di riuscire a dare importanza e quindi
"visibilità" alle persone, scoprendo dietro i volti di ognuno
quell'infinito mondo di sentimenti positivi e negativi che ci aiutano a vivere
in modo che quello che facciamo abbia un senso "umano" e non solo un
senso meccanico (quest'ultimo, un giorno non troppo lontano forse, potremo
lasciarlo completamente svolgere alle macchine create dall'uomo) e dedicarci
solo al mondo dei sentimenti e dei valori che danno significato alla nostra esistenza. In questo quadro esistenziale va inserito il problema
dell'inserimento nel mondo del lavoro, cercando di capire come cambia non solo
il modo di produrre ma anche il significato che per ognuno di noi ha l'azione
di "produrre". L'attività produttiva quindi va intesa come attività
culturale essa stessa. Se in Occidente l'occupazione non cresce la causa non sta
solo nel mercato stagnante e nelle imprese che non investono, ma è anche una
conseguenza della trasformazione culturale della società. Le potenzialità di
trasformare, modellare, inventare la materia inorganica e biologica, permesse
dalla nuova tecnologia, spingono i giovani ad immaginarsi più come creativi che
come produttori. Il momento di grande trasformazione culturale che stiamo
vivendo ci suggerisce di prepararci ad un lungo periodo di insicurezza sociale
ed economica. Purtroppo quando si parla di "breve tempo" in economia
si ragiona in termini di periodi che vanno dai cinque ai dieci anni. Con la
situazione economica attuale ed il tasso di disoccupazione e sottoccupazione
del 10/12% e nel sud Italia arriva a picchi di oltre il 50%, questi "brevi
periodi" sono una vita per le persone che, in carne ossa ed aspirazioni,
compongono queste fredde percentuali, con conseguenze importantissime anche sul
piano esistenziale. Un disoccupato che oggi ha 25-30 anni non ha molte
possibilità di trovare breve periodo un lavoro stabile e meno che mai
corrispondente al suo livello medio di cultura ed alle sue aspirazioni. Questo è
il significato di termini tecnici e freddi quali "flessibilità",
"gabbie salariali", "lavoro intirinale", etc... Quanto poi
all'invito a creare impresa rivolti ai giovani questi lo sentono come un canto
stonato. Fare impresa è già difficile in una condizione di espansione
economica, figurasi in una condizione di sottosviluppo. Senza contare che per
avviare nuove imprese, oltre ovviamente ai soldi, sono necessari esperienza,
competenze tecniche e gestionali che un giovane disoccupato, soprattutto nel
Mezzogiorno, riuscirà ad avere solo in modestissime realtà, magari traendole da
un'impresa familiare già esistente. Allora la questione del lavoro, in queste
condizioni, va affrontata con una concezione nuova dell'intervento dello Stato,
oggi più che mai necessario, per fare in modo che queste prospettive
pessimistiche assumano una dinamica il più possibile accelerata, tanto
accelerata da riuscire a ridurre al massimo i tempi della ripresa economica e
del rilancio della domanda interna dei consumi. Questi ultimi ormai, vissuti
come indicatore della qualità della vita, assumono valenza psicologica e non è
più possibile pensare ad una politica sociale che metta al bando la tendenza al
consumo, ma è necessario andare incontro a questi bisogni e promuovere la
capacità di scelta consapevole della gente.E qui si inserisce un altro punto
cruciale. Che tipo di domanda e che tipo di consumi è possibile incrementare
oggi nei paesi occidentali?Fino agli anni sessanta, primi anni settanta, la
produzione industriale era indirizzata verso prodotti che trovavano accoglienza
in una società in cui il benessere sociale veniva identificato (giustamente)
con la disponibilità di beni atti a migliorare le condizioni di vita delle
famiglie: automobili, lavatrici, frigoriferi, televisori, etc. Questo tipo di
produzione aveva creato un aumento dell'occupazione nei settori industriali
corrispondenti, a discapito, soprattutto, ma non solo, delle campagne
meridionali e dei mestieri artigianali che ruotavano attorno all'economia di
tipo agrario. Mestieri come l'arrotino, il fabbro o il calzolaio persero rapidamente
il loro peso economico e questo mise le persone che li esercitavano nelle
condizioni di ricollocarsi in un'economia rivolta ad un mercato di massa. Ma lo
sviluppo economico di quegli anni non creò gravissime conseguenze dal punto di
vista del tasso medio di occupazione, pur creando problemi di adattamento a
situazioni sociali e culturali del tutto nuove per i lavoratori che si
trovarono costretti ad abbandonare il tipo di vita "tranquilla" delle
campagne per gettarsi nel caos e nei ritmi frenetici delle città. La
conseguenza non meno drammatica fu l'emigrazione dal sud al nord del paese, una
condizione che portava con sè anche enormi disagi di tipo materiale e
sociale. Negli anni settanta poi la crisi energetica fu una premessa (in parte
fittizia) per bloccare le rivendicazioni sindacali che avevano caratterizzato,
anche con forme di lotta molto dure, la fine del decennio precedente. Chi
ricorderà la cosiddetta "politica dell'austerità" (ricordate il
periodo della circolazione delle auto a giorni e targhe alterne?) avrà più
facilità a capire che fu proprio in quel periodo che comincia a crearsi tra la
gente un senso di insicurezza e di sfiducia nel progresso ed il cosiddetto
"ritorno al privato" che ha generato negli anni ottanta quella corsa
sfrenata all'individualismo, all'arrampicata sociale a tutti i costi, allo
yuppismo. Il sistema politico ed economico italiano che nasce nel periodo della
ricostruzione del secondo dopoguerra e si rafforza nel periodo del cosiddetto
"boom economico" degli anni sessanta, è caratterizzato da un
fondamentale ruolo della spesa pubblica che è stata una imponente leva di
sviluppo e di crescita dell'economia italiana. Oggi la parola d'ordine è proprio
il contrario, cioè: ridurre al minimo la spesa pubblica e lasciare spazio
all'iniziativa privata. Ma senza l'intervento dello Stato nell'incremento della
produzione le realtà ed i soggetti già strutturati economicamente sono
destinati ad aumentare le proprie capacità di crescita, mentre le realtà ed i
soggetti più deboli vedono sempre più diminuire le opportunità di riscatto e di
benessere sociale ed economico (aggiungendo a questo quella grande parte di
economia drogata dalla presenza mafiosa che rafforza questa tendenza).Certo
oggi è necessario pensare ad un tipo di investimenti che sia correlato non solo
ai bisogni materiali ma anche a quelli psicologici della gente. Quando si parla
di occupazione è necessario guardare verso settori economici a forte
innovazione tecnologica, capaci di mettere sul mercato un tipo di occupazione "appetibile"
soprattutto da giovani che hanno un titolo di studio medio-alto, ai quali non
si può offrire un futuro di Lavoratori Socialmente Utili. Servono attività che
consentano di "creare" un'offerta di servizi e prodotti idonei alla
complessa realtà economica e sociale dei paesi occidentali. Tutto ciò è
possibile, esistono settori quali la ricerca, l'ambiente, il cosiddetto terzo
settore, i servizi alle imprese che consentono di innescare questo meccanismo
di sviluppo. E questo sviluppo non è possibile pensarlo slegato alla
modernizzazione della pubblica amministrazione e delle agenzie di formazione
quali la scuola e l'università. Naturalmente questo tipo di sviluppo non può non
guardare a quei paesi (per noi soprattutto nel Mediterraneo) che, o perchè in
via di sviluppo o perchè in condizioni di forte arretratezza industriale e
sociale, premono con sempre maggiore forza alle nostre frontiere. Integrare
questi bisogni è forse la sola possibilità che abbiamo per dare una spinta
forte in avanti e creare nuova occupazione e nuove condizioni di sicurezza e
giustizia sociale. Questi obiettivi non sono perseguibili unicamente attraverso
una politica di difesa dello stato sociale ed una politica economica capace di
rilanciare produzione, consumi ed occupazione, ma è necessario uno sforzo
imponente per mettere la gente, i giovani in primo luogo, in condizioni di
affrontare la realtà come un elemento di ricerca dei propri limiti da superare,
ridando il gusto della scoperta e la curiosità verso le capacità dell'uomo in continua
interazione con il mondo, bisogna insomma restituire la voglia di sfidare il
presente per costruire il futuro e per fare questo bisogna offrire ai giovani
le opportunità di nuove conoscenze e potenzialità. Oggi molto più che nel
passato riusciamo a cogliere contemporaneamente informazioni provenienti da
ogni parte del mondo con una rapidità che appena cinquanta anni addietro non
sarebbe stata possibile, e questo ci porta ad amplificare il contrasto tra la
crisi dei valori tradizionali, (che ancora sentiamo troppo vicini nel tempo). La
velocità però con cui ci arrivano informazioni da ogni parte del mondo e della
società ci sgomenta e ci abitua ad essere spesso solo spettatori della realtà. Erich Fromm, nell'opera "Fuga dalla libertà", mette in
relazione la scelta di sottomissione dell'uomo moderno con il senso di
solitudine che gli deriva dalla presa di coscienza della sua
individualità. Individualità distinta come essere biologico e come individuo
sociale. Come essere biologico l'uomo tende ad identificarsi come entità che,
pur facendo parte del mondo naturale, ha tuttavia sviluppato una capacità di
condizionamento tale della natura stessa da porsi su un piano quasi parallelo
rispetto al resto del mondo biologico. Come individuo sociale egli ha sviluppato
un sistema economico ed un'organizzazione sociale talmente complessi da
divenire sempre più impersonali ed astratti e tali da far apparire l'individuo
come un piccolissimo ed insignificante ingranaggio di una macchina gigantesca
in grado di funzionare a prescindere dall'esistenza di ciascuno degli individui
che la compongono. Questa realtà ha portato l'individuo a rinchiudersi sempre
più in un suo mondo privato tentando di sfuggire alla sensazione di
oppressione, che proprio la coscienza della solitudine gli provoca, vivendo
questa solitudine come una forma di difesa "dai nemici esterni" che
lo costringono a conformasi ad un modo di vivere che gli crea alienazione
impedendogli di esprimere il suo bisogno di individualità. Ma il vizio
principale di questo atteggiamento non è quello di sentire il bisogno di
esprimere la propria individualità, ma quello di credere che quest'ultima si
debba esprimere secondo le tipologie di relazione sociale che sono imposte
dall'omologazione culturale. Un individuo infatti che cerca di competere in una
società in cui il potere si esercita controllando il sistema di comunicazione
globale, utilizzando i parametri imposti dallo stesso sistema, necessariamente
si trova a sbattere contro il muro di gomma che questo sistema ha innalzato intorno
a lui e che è rappresentato dalla polverizzazione dei centri decisionali, dai
vari livelli delle relazioni sociali, nel mondo del lavoro, in quello della
produzione artistica, in quello della politica o in quello della morale, per
citarne alcuni. Sconfitto dalla incapacità di riappropriarsi della facoltà di
autoderminazione usando gli strumenti di competizione del sistema, egli si
sente sempre più piccolo, insignificante ed inadeguato dentro questo
meccanismo. Egli torna a rinchiudersi in sè stesso maturando un impalpabile
odio verso il mondo esterno ed in sostanza verso sè stesso e cadendo lentamente
in uno stato di rinuncia alla vita che si esprime a volte con la via della
droga o della violenza, ma il più delle volte in un muto ed acritico conformismo
al sistema di vita massificato che lo porta a quella morte meno cosciente della
morte biologica ma altrettanto reale che è l'annullamento del sè stesso
originale. Un complesso di alienazione, di solitudine e di paura che è una
cappa pesante a livello inconscio. Questo bisogno di identità che, se frustrato
origina alienazione e senso di inutilità, deve trovare la sua maniera di
esprimersi e questa può essere realizzata nella capacità di ogni individuo di
avere coscienza di sè stesso come parte del tutto in senso sia biologico che
culturale, e messa in atto attraverso i sentimenti positivi, primo tra tutti
l'amore verso sè stessi e verso tutti gli altri. Non è un'impresa facile da
realizzare perchè innanzitutto è necessario conoscere i meccanismi che determinano
il nostro comportamento, tanto quelli naturali che quelli culturali, avendo
consapevolezza di questi meccanismi, ancorchè sentirci schiacciati da questi
"determinismi" potremo tentare di utilizzarli indirizzandoli
positivamente per affermare il "nostro modo di essere".
UNA REALTA' A DUE DIMENSIONI
Nella nostra rivista Helios Magazine
il prof. Domenico Rodà ha presentato una parte dei suoi studi sulle comunità
grecaniche della provincia di Reggio Calabria. Un'affascinante analisi
glottologica ed un lavoro di grande interesse antropologico sui discendenti
degli antichi coloni greci della costa ionica reggina che in epoca medioevale,
minacciati dai saraceni, si ritirarono nelle zone impervie dell'Aspromonte e lì
diedero vita a villaggi e piccole comunità rurali organizzate, sia dal punto di
vista urbanistico che produttivo, sul modello che ancora oggi è possibile
rintracciare in alcune zone della Grecia nord occidentale o della Cappadocia.
Queste comunità, a causa di una condizione di isolamento dovuto alla posizione
geografica (l'entroterra aspromontano), alla quasi totale assenza di reti
stradali, ed al progressivo spostamento delle vie commerciali dall'asse
italo-greco alle rotte marittime dell'Atlantico, del Mediterraneo occidentale,
e successivamente al Golfo Persico, hanno potuto conservare idiomi e tradizioni
risalenti al periodo ellenistico. Isolamento, questa è la parola chiave
misteriosa pronunciata, con malcelata nostalgia, da quanti guardano al passato
con gli occhi della propria memoria giovanile che poco ha a che fare con la
storia vera. La cosa che colpiva maggiormente, nelle ricerche del professore
Rodà, era soprattutto il fatto che quelle condizioni di isolamento si siano
potute mantenere fino agli inizi degli anni settanta del nostro secolo, proprio
1970 per essere chiari, fino a quando cioè in quei paesi non arrivò l'energia
elettrica e le strade percorribili con le automobili. Lasciamo l'Aspromonte e le
sue martoriate pendici e facciamo un salto nel tempo e nello spazio. New York
anni '50, erano gli anni del rock e di Elvis. Liverpool anni '60, erano gli anni
dei Beatles e dei Figli dei Fiori negli U.S.A. e nelle grandi città europee, ed
anche gli anni in cui i primi uomini lasciavano la Terra e scendevano sulla
Luna. Parigi 1968, scoppiava il Maggio della contestazione giovanile. Aspromonte
anni '70, arriva l'energia elettrica, e con questa i primi elettrodomestici, e
la televisione. Come avranno visto il mondo che si affacciava dai teleschermi
quegli uomini, quelle donne, quei giovani e quelle ragazze che fino ad allora
erano stati tagliati fuori dall'occidente reale, pur facendone parte di
fatto?Questa risposta necessiterebbe uno spazio ben più consistente di queste
poche righe, ma le condizioni di arretratezza economica in cui si trova oggi
questa parte del Mezzogiorno, se non esclusivamente, certamente trova le sue
cause anche in questo stato di isolamento. In sostanza, in un medesimo tempo, la
realtà, a Parigi e ad Africo Vecchio non era percepita allo stesso modo. Il
mondo aveva dimensioni, colori, suoni e ritmi assai differenti in queste due
realtà occidentali. E la capacità di comprensione e di partecipazione economica
e politica evidentemente ha seguito destini diversi. Oggi siamo nella cosiddetta
era della multimedialità, le comunicazioni telematiche, la televisione
digitale, i progressi della tecnica nel campo dell'ingegneria genetica e
molecolare, delle nanotecnologie, ecc. stanno portando (o già dobbiamo dire che
hanno già portato) l'uomo ad inventare una nuova specie: l'Homo Nooliticus (Pierre
Levy, L'Intelligenza collettiva, Feltrinelli Interzone editore).Che stia
comparendo una nuova specie umana sulla terra, può apparire una affermazione
paradossale, perchè ancora i nostri riferimenti culturali (soprattutto quando
affrontiamo il discorso su noi stessi!) associano la comparsa di specie
biologiche nuove a tempi commensurabili nell'ordine di milioni di anni, invece
i progressi della scienza e della tecnologia realizzati in questo secolo ci
hanno posto davanti ad uno degli eventi più rilevanti della storia
dell'umanità: la tendenza a zero del fattore tempo. Nella filosofia
contemporanea il tempo viene definito come inesistente, nell'esplorazione
spaziale l'abbattimento del tempo come limite della velocità è il vero
traguardo a cui si tende, nella comunicazione multimediale il traguardo è la
comunicazione globale (audio, video e sensoriale) in tempo reale. Questo
contesto può produrre diversi tipi di effetti nell'individuo e nei gruppi
sociali tecnologizzati: inconsapevolezza, incredulità, mera constatazione,
angoscia, entusiasmo. Siamo in un'epoca di transizione, questo termine spesso
abusato, ha però un indubbio valore se collocato in una scansione
spazio-temporale che divide non solo i paesi, non solo le ricchezze e le
povertà, ma anche le generazioni contemporanee. Ricordo che un'anziana signora,
negli anni settanta, dopo aver conversato per telefono con una sua parente
ammalata di influenza, finita la conversazione, si rivolse a me chiedendomi
seria e preoccupata se per caso non potesse essere stata contagiata per
telefono. La mia risata di ragazzo impertinente la mandò su tutte le furie. Ma
la sua preoccupazione era sincera. Lei usava il telefono perchè glielo avevano
fatto installare i figli, ma di cosa fosse veramente, di come funzionasse, di
dove andasse a finire quel filo attaccato alla parete, non aveva la minima
idea. Certo, neanche se lo chiedeva, era lì, funzionava in modo abbastanza
semplice e questo le bastava senza troppe domande, e se non avesse avuto la mia
maleducata risata forse non se le sarebbe mai neanche poste, tanto le risposte
non poteva capirle, erano fuori dal mondo di cui lei conosceva il
funzionamento. Guardo oggi ormai senza stupore ai ragazzini delle scuole medie
inferiori che già hanno superato la fase dell'uso del computer per entrare
senza difficoltà particolari nella fase della programmazione dei software
informatici padroni dello strumento e dei nuovi linguaggi che esso
impone. Specularmente però esiste un'altra "realtà" nello stesso luogo
e appartenente alla stessa generazione. Ripetendo i metodi di indagine
sociologica partecipativa molto in uso negli anni settanta, ogni tanto, entro
"in incognito" nei gruppi giovanili di diversi ambienti sociali per
osservarne i comportamenti, i linguaggi, la gestualità quale forma non solo
complementare ma spesso alternativa di comunicazione intersoggettiva. Così mi
capita di osservare i cosiddetti "corner-boys" dei ceti sociali
marginali, ma anche della media borghesia dei quartieri periferici, che
esprimono con i loro linguaggi e atteggiamenti distanze siderali dai loro
coetanei "tecnologizzati", con ricadute sul piano economico, sociale
e politico del tutto differenti. E' una nuova forma di sottoproletariato. Un
sottoproletariato che anche quando riesce ad inserirsi, in un qualsiasi modo,
nel ciclo produttivo e quindi procurarsi un reddito di sussistenza, rimane
comunque ai margini estremi della società, una società che già oggi non
funziona più secondo i modelli organizzativi che tutti noi abbiamo studiato sui
libri di scuola, che loro stessi hanno studiato sui libri di scuola, di una
scuola spesso inconsapevole ed impreparata a gestire questo nuovo fenomeno. E
qui sta anche la chiave di lettura del nuovo sottoproletariato urbano, che fino
ai primi anni sessanta era rappresentato da individui privi di scolarizzazione
e di reddito, oggi sono scolarizzati inutilmente e per questo incapaci di
inserirsi nel ciclo produttivo, ma anche incapaci di capire perchè la società
gli indica modelli di comportamento improntati a dinamismo e (anche se si tende
a non usare più una definizione ritenuta politicamente scorretta) a
"competizione sociale". Per questo si chiudono in sè stessi, in forme
di autodistruttività, di passività, spesso anche di violenza. Questi ragazzi
fuggono da un mondo che non conoscono e non riescono a capire, ma non hanno
dove andare; senza politiche di nuova solidarietà sociale, messe in atto oggi,
questi ragazzi saranno emarginati per tutta la vita e la società si troverà a
dover provvedere a loro in termini di assistenza nei prossimi anni. E
l'assistenza non è una scelta tra due possibilità, ma una forma obbligata di
contenimento dei danni quando si è ormai in ritardo per attuare soluzioni. Da un
lato i corner-boys, nuovo proletariato, dall'altro la nuova borghesia,
ragazzini giovanissimi che sono perfettamente in grado, spesso in forma
autonoma, di appropriarsi delle tecniche di comunicazione multimediale con
grande facilità, perchè hanno disponibilità in famiglia o nei gruppi di amici
che frequentano di conoscere ed utilizzare la tecnologia avanzata, di imparare
l'inglese e di incuriosirsi verso il mondo ed aprirsi ad esso.Questi ragazzi,
coetanei, che vestono gli stessi abiti, guidano gli stessi scooters, usano gli
stessi telefonini, guardano la stessa televisione, questi ragazzi sono abitanti
di pianeti diversi, parlano due lingue diverse, si muovo in dimensioni
spazio-temporali differenti, seguono un'evoluzione di specie differenziata. La
specie Homo Nooliticus forse ancora non è quella predominante sul pianeta, ma
comincia già a dimostrare le sue potenzialità e tutto fa prevedere una sua
diffusione sul pianeta in tempi rapidissimi. Intanto i primi segnali ci vengono
proprio dai giovani di Reggio Calabria ed a loro dobbiamo indirizzare la nostra
attenzione, non per essere maestri "part time" e dir loro cosa fare
ma per fare le cose assieme a loro affinchè riescano a partecipare gradualmente
al ricambio generazionale e non vederlo come una metà lontana, difficile e
spesso irraggiungibile.
LA COMUNICAZIONE VERBALE E NON VERBALE


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