STUDIO SULLE DINAMICHE SOCIALI
DEI GIOVANI DI REGGIO CALABRIA
Matrice esistenziale di uno stato d'animo: l'insicurezza.

A cura del Club Ausonia Helios Magazine (Reggio Calabria, 1999)©


realizzato da:
dott. Pino Rotta (antropologia), direttore di Helios Magazine, dott. Carlo Calabro' (sociologia), redattore di Helios Magazine, dott. Pasquale Romeo (psichiatra),collaboratore di Helios Magazine, d.ssa Elisabetta Felletti, (psichiatra),colaboratrice di Helios Magazine


Abbiamo realizzato questo studio con l'obiettivo di far partecipare i ragazzi di Reggio Calabria ad una riflessione sui comportamenti, tendenze, valori e contesti sociali di cui essi stessi sono protagonisti.Una riflessione guidata dall'esposizione di tecniche e modalità di comunicazione e di situazioni di malessere esistenziale che, seppure a volte si manifestano con eventi eclatanti, il più delle volte rimangono latenti ed inespresse e che sono inquadrabili in un più generale contesto di "depressione sociale".Nelle relazioni che seguono esponiamo il percorso seguito per la realizzazione di questo programma di ricerca ed il risultato di una ricerca effettuata su un campione di 300 giovani reggini (il campione è stato suddiviso in 4 sottogruppi: Ragazzi dai 15 ai 19 anni, Ragazzi dai 20 ai 25 anni , Ragazze dai 15 ai 19 anni e Ragazze dai 20 ai 25 anni) che, riassunto in schemi e diagrammi, ci ha dato la possibilità di "fotografare" la realtà giovanile per cercare di capire il nesso tra i fattori che portano all'esclusione sociale (anche solo tendenzialmente) e la realtà socioeconomica in cui i giovani di Reggio Calabria vivono il dramma della mancanza di sbocchi occupazionali. VAI AL GRUPPO DAI 12 ai 15 ANNIIl risultato di questo studio crediamo possa essere utile a quanti hanno il compito di realizzare politiche economiche e sociali che permettano ai giovani di proiettarsi nel futuro con un ruolo attivo ma soprattutto ai giovani stessi che potranno da questa analisi trovare elementi di riflessione sulla loro condizione esistenziale con una maggiore consapevolezza della realtà in cui si trovano a vivere.Vogliamo ringraziare in primo luogo i ragazzi che hanno partecipato con ruolo attivo nella fase di indagine e, seppure in numero inferiore, nella esposizione delle tecniche di comunicazione. Tra di essi un particolare ringraziamento va ad Isabella Romeo, rappresentante degli studenti nel Consiglio di Facoltà di Ingegneria di Reggio Calabria, che ci ha supportato, assieme ad Antonella Marmoro, in tutto il lavoro organizzativo tenendo i contatti con gli studenti della stessa facoltà e con quella di Giurisprudenza. Un altro ringraziamento va al prof. Vincenzo Coccorese pro-Rettore dell'Università degli Studi di Reggio Calabria, che ci ha messo a disposizione la struttura dove si sono tenute le conferenze ed i gruppi di lavoro. Ed infine un altro particolare ringraziamento va al dottor Antonio Cosimo Calabrò, Presidente dell'Amministrazione Provinciale di Reggio Calabria, per il contributo che ci ha permesso di realizzare e rendere pubblico questo studio.


IDENTITA' E LAVORO

1 - La comunicazione e l'azione come strumenti di realizzazione della personalità.

2 - Una realtà a due dimensioni

di Pino Rotta
L'azione di ogni individuo si svolge partendo da motivazioni che solo apparentemente appartengono all'individuo stesso. Queste motivazioni provengono invece da un contesto già strutturato sia culturalmente che fisicamente. L'azione quindi non è solo il frutto di un'intuizione che diventa idea da realizzare, ma la messa in campo di volontà e conoscenza degli strumenti di cui un individuo dispone e che trova già esistenti nell'ambiente in cui egli nasce ed agisce. Il problema principale sta proprio nell'assumere consapevolezza della realtà fisica e culturale in cui si deve operare e nel produrre un atto di volontà per realizzare un'azione. Nel caso dell'artista l'intuizione, comunemente definita ispirazione, nell'atto di prendere corpo e diventare opera espressa tende a perdere la forza originaria da cui è stata mossa fino a diventare "altro" da quello che l'artista stesso voleva esprimere, ed è frequente il caso in cui, ad opera compiuta, l'artista la rinnega perchè in essa non riconosce il contenuto complesso che aveva in mente di esprimere. Questo processo si muove dentro confini che, per quanto difficilmente definibili, sono segnati dal vissuto culturale di ogni individuo. Una sorta di matrice forzata, anzi imposta dalle convenzioni culturali, tanto che il concetto stesso di libertà entra in crisi nel rapporto dialettico con il complesso dell'organizzazione sociale, che impone di comunicare attraverso strumenti talmente rigidi da assumere significato autonomo nella comunicazione ed il cui utilizzo caratterizza l'identità di chi li utilizza, ancor prima e forse più, del significato stesso contingente che essi veicolano. Dobbiamo chiederci che significato ha per l'uomo la comunicazione e per quale motivo l'uomo comunica. Ricordiamo che l'individuo si forma organizzando elementi presenti nell'ambiente biologico ed in quello culturale. L'organizzazione implica l'uso complesso, e spesso inconsapevole, di parti preesistenti già disponibili, come strumenti per la costruzione di un prodotto. Se per costruire un tavolo un falegname usa delle tavole levigate, un martello e dei chiodi, la sua attenzione si concentrerà nell'esecuzione del lavoro necessario ad ottenere il prodotto (tavolo) che si era prefissato. Non si preoccuperà di capire l'origine degli strumenti (martello e chiodi) e del materiale (tavole levigate) usati, ne si preoccuperà di analizzare il fatto che anche per ottenere quegli strumenti e quel materiale è stato necessario un lavoro e che questo lavoro è preesistente rispetto a quello che per l'occasione egli sta eseguendo. Alla fine avrà una percezione della propria opera evidenziata dalla realizzazione del tavolo, e dall'analisi del suo ultimo risultato darà una valutazione della propria attività. Ma il tavolo senza l'esistenza degli strumenti utilizzati per la sua costruzione non esisterebbe neanche concettualmente, almeno fino all'intervento della sua possibile esistenza a livello intuitivo.Allo stesso modo un individuo che agisce in un contesto sociale per cercare ed esprimere la propria identità non farà caso agli elementi che gli sono familiari, di cui si serve per agire e realizzare i propri scopi, ma valuterà il risultato (identità) sulla scorta del riscontro che trarrà dal riconoscimento sociale suscitato. Nel caso di azioni espresse in situazioni poco complesse, (l'identità di un portalettere è immediatamente percepibile dal portalettere stesso e dai suoi utenti poichè è semplice l'organizzazione simbolica con cui quest'identità si manifesta), il grado di autopercezione è rapportato al grado di complessità dell'organizzazione sociale entro cui queste azioni vengono agite, se la struttura sociale è ordinata secondo codici comunicativi generalmente acquisiti e livelli di scambio relativamente immediati, il grado di percezione della propria identità sarà sufficientemente elevato e gratificante sul piano psicologico. Ma in una realtà come quella in cui si trova oggi l'uomo occidentale i livelli di scambio sono così diversificati ed i codici comunicativi sono così complessi ed articolati che il prodotto dell'azione individuale è quasi sempre impercettibile sia dall'agente che dal resto del contesto sociale in cui questo si manifesta. Lavoro, tecnologia, partecipazione politica, espressione artistica, relazioni umane, tutto risente di questa complessità e di questa parcellizzazione e strutturazione "alveare" dei livelli di scambio. Alla fine il risultato è una dispersione della percezione della propria identità tanto da far perdere completamente questa percezione e far affiorare con virulenza un profondo senso di anomia e di inutilità dell'azione individuale, se non addirittura di una sensazione di vanità complessiva della vita.La ricerca si deve muovere sul piano della manifestazione spazio-temporale dell'esistenza e gli strumenti da adottare, sempre duttili ed in continua trasformazione, saranno allora quelli complessi della cultura e della comunicazione, che hanno continua incidenza nell'analisi e nella strutturazione della realtà; quella realtà che assume un significato agli occhi dell'osservatore solo che questi presti attenzione ai processi di relazione che la costituiscono e la manifestano, secondo una logica che definiremmo sfumata. Abbiamo parlato fin qui di identità in relazione all'azione socialmente rilevante (non importa a che livello) di un individuo. Fermiamoci ora a chiarire proprio il concetto di azione socialmente rilevante. Proprio come non si può distinguere o separare l'uso di uno strumento dal prodotto che da tale uso deriva, così non si può distinguere o separare l'identità di un individuo dalla sua essenza culturale. Se intendiamo la cultura come una sequenza ininterrotta di azioni socialmente rilevanti solo con un'azione produttiva e con la comprensione delle relazioni complesse a livello culturale e biologico in cui quest'azione si estrinseca, l'individuo ottiene la percezione della propria identità, poichè prende coscienza del proprio intervento nel processo di produzione culturale in cui egli, prodotto culturale ed allo stesso tempo agente di produzione culturale, interviene utilizzando la complessità preesistente e l'arricchisce di nuovi elementi. Quando quest'azione non trova spazi di espressione, e si inserisce in una situazione di povertà cognitiva dei meccanismi che regolano le relazioni sociali e più in generale quelle tra individuo ed ambiente (come nel caso dei giovani che non trovano posto nel sistema produttivo, rimanendo adolescenti oltre l'età convenzionalmente intesa come adolescenza) la manifestazione della propria identità si sposta dal livello culturale a quello biologico ed utilizza, per esprimersi, anziché i codici culturali di comunicazione, quelli biologici di specie, tra i quali forse i più significativi ed immediati sono quelli legati all'espressione di aggressività o sottomissione ed il cui prodotto, oggi sotto gli occhi di tutti, sono la violenza e la tentazione autodistruttiva, e la perdita di identità. Ne deriva che l'identità va ricercata nel risultato dell'azione individuale tesa alla realizzazione di un progetto e concretizzata per mezzo di un'azione che produce effetti che caratterizzano l'individuo, percepibili tanto da chi agisce quanto da chi entra in relazione con questi "prodotti".Passiamo tutta la nostra vita rincorrendo una qualunque forma di attività che ci consenta di avere il denaro necessario per vivere, e possibilmente di vivere bene. Le nostre giornate scorrono, a volte, turbinose ed "incessanti" per l'attività che svolgiamo. Molto più spesso invece al ritmo incalzante delle nostre azioni quotidiane si aggiunge la monotonia e la ripetitività delle stesse. Anche chi è in cerca di un'occupazione per il proprio futuro non sfugge a questa "performance".Eppure alla fine ci si ritrova con uno stato interiore di insoddisfazione che diventa giorno per giorno sempre più opprimente. Colti da un senso di insoddisfazione, si cerca allora di capire cosa è che non va, o di trovare il modo di variare la nostra routine, magari trovandoci un hobby, facendo una vacanza, frequentando una palestra, gettandoci nello studio o nella giungla sonora di una discoteca. Per meglio dire, il più delle volte, ci riproponiamo di farle queste cose a cominciare da "domani". Così il tempo passa e noi continuiamo a sentire il suo trascorre con un senso di vuoto e di inutilità. Ma come è possibile avere la vita piena di cose da fare e non riuscire, nel complesso, a trovare soddisfazione nel nostro modo di vivere?Forse la risposta sta nel fatto che essere in attività non sempre corrisponde con l'avere una propria identità. Possiamo fare qualcosa, produrre qualcosa, lasciare la nostra impronta nelle cose che facciamo, ma il problema è che le cose che si fanno, quasi sempre, sono calate in modelli di organizzazione e con ritmi temporali che non dipendono dalla nostra volontà, anzi quasi sempre non abbiamo neanche coscienza di essere coinvolti in questi meccanismi, ruote di un ingranaggio che funziona "indipendentemente dalla nostra esistenza e volontà".Siamo delle comparse in una commedia di cui non siamo ne registi ne sceneggiatori. Siamo "non-persone" in un mondo fatto di "non-persone"; volti che non riescono a far venire in superficie quella parte di unico e distinguibile che è la propria personalità. Per avere la soddisfazione di fare qualcosa occorre che questo qualcosa non solo lasci il segno della nostra esistenza (questo avviene comunque!) ma è anche necessario che sin dal principio ci sia la volontà di raggiungere un fine (materiale o meno che sia) ed avere coscienza del fine che si vuole raggiungere. Volontà e coscienza sono fattori inscindibili dalla propria personalità, e quindi un risultato raggiunto o fallito con questi presupposti ci fa riconoscere (da noi stessi e dagli atri) nel prodotto della nostra azione. In queste condizioni è importante il raggiungimento dell'obiettivo che ci si prefigge ma un eventuale fallimento non sarà psicologicamente devastante, poichè esso stesso è commisurato al nostro iniziale stato di coscienza e di volontà, per questo, benché non voluto, non arriverà mai inaspettato; addirittura più complesso è l'obiettivo che ci saremo prefissati "coscientemente e volontariamente" di raggiungere più ci sarà la possibilità che un eventuale fallimento ci spinga a "riprovarci" ricominciando "da tre", avendo cioè imparato qualcosa. Detto questo, rimane il problema di individuare gli obiettivi da raggiungere e quello di affrontarli con coscienza e volontà che ci appartengano. Ognuno di noi, in quanto individuo sociale, non matura alcuna esperienza se non dentro un contesto culturale. Nasciamo e cresciamo secondo modelli di vita che sono prestabiliti culturalmente e la nostra personalità si forma attraverso il rapporto con gli altri individui e gruppi. Per avere coscienza di quello che forma la nostra personalità dobbiamo quindi necessariamente avere conoscenza dei meccanismi che stanno alla base della nostra relazione con il mondo che ci circonda, fatto di persone e di oggetti. E' questa "comunicazione" con l'ambiente che forma il nostro modo di essere, qualunque esso sia. Dobbiamo per ciò comprendere in che modo e che cosa comunichiamo all'ambiente e che cosa questo ci comunica, si tratti di esperienze pratiche o di sentimenti ed emozioni. Non potendo ragionare se non in termini di socialità non possiamo fare a meno di riconoscere e comprendere la personalità degli altri ed il sistema di organizzazione sociale che condiziona e forma la personalità: tutto questo ci porta a comunicare "coscientemente" con gli altri ed a prendere coscienza dei tratti caratteristici della nostra e dell'altrui personalità, oltre al fatto di prendere coscienza dei meccanismi di funzionamento del sistema ambientale in cui viviamo. In questo processo riusciamo a comprendere che la nostra azione ha sempre conseguenze sugli altri e sull'ambiente inteso nel senso più ampio di ambiente fisico e culturale, e questa nostra azione comporta necessariamente una continua mutazione dello stesso, e quindi dell'organizzazione sociale, delle relazioni interpersonali ed anche della struttura fisica dell'ambiente stesso (prendere l'autobus o viaggiare sulla propria automobile in città comporta ad esempio la conseguenza di avere uno spazio urbano più o meno agibile, ed un'aria con effetti non nocivi sulla salute). Ma la cosa più importante dal nostro punto di vista è che comprendere i meccanismi della nostra comunicazione con gli altri comporta il fatto di riuscire a dare importanza e quindi "visibilità" alle persone, scoprendo dietro i volti di ognuno quell'infinito mondo di sentimenti positivi e negativi che ci aiutano a vivere in modo che quello che facciamo abbia un senso "umano" e non solo un senso meccanico (quest'ultimo, un giorno non troppo lontano forse, potremo lasciarlo completamente svolgere alle macchine create dall'uomo) e dedicarci solo al mondo dei sentimenti e dei valori che danno significato alla nostra esistenza. In questo quadro esistenziale va inserito il problema dell'inserimento nel mondo del lavoro, cercando di capire come cambia non solo il modo di produrre ma anche il significato che per ognuno di noi ha l'azione di "produrre". L'attività produttiva quindi va intesa come attività culturale essa stessa. Se in Occidente l'occupazione non cresce la causa non sta solo nel mercato stagnante e nelle imprese che non investono, ma è anche una conseguenza della trasformazione culturale della società. Le potenzialità di trasformare, modellare, inventare la materia inorganica e biologica, permesse dalla nuova tecnologia, spingono i giovani ad immaginarsi più come creativi che come produttori. Il momento di grande trasformazione culturale che stiamo vivendo ci suggerisce di prepararci ad un lungo periodo di insicurezza sociale ed economica. Purtroppo quando si parla di "breve tempo" in economia si ragiona in termini di periodi che vanno dai cinque ai dieci anni. Con la situazione economica attuale ed il tasso di disoccupazione e sottoccupazione del 10/12% e nel sud Italia arriva a picchi di oltre il 50%, questi "brevi periodi" sono una vita per le persone che, in carne ossa ed aspirazioni, compongono queste fredde percentuali, con conseguenze importantissime anche sul piano esistenziale. Un disoccupato che oggi ha 25-30 anni non ha molte possibilità di trovare breve periodo un lavoro stabile e meno che mai corrispondente al suo livello medio di cultura ed alle sue aspirazioni. Questo è il significato di termini tecnici e freddi quali "flessibilità", "gabbie salariali", "lavoro intirinale", etc... Quanto poi all'invito a creare impresa rivolti ai giovani questi lo sentono come un canto stonato. Fare impresa è già difficile in una condizione di espansione economica, figurasi in una condizione di sottosviluppo. Senza contare che per avviare nuove imprese, oltre ovviamente ai soldi, sono necessari esperienza, competenze tecniche e gestionali che un giovane disoccupato, soprattutto nel Mezzogiorno, riuscirà ad avere solo in modestissime realtà, magari traendole da un'impresa familiare già esistente. Allora la questione del lavoro, in queste condizioni, va affrontata con una concezione nuova dell'intervento dello Stato, oggi più che mai necessario, per fare in modo che queste prospettive pessimistiche assumano una dinamica il più possibile accelerata, tanto accelerata da riuscire a ridurre al massimo i tempi della ripresa economica e del rilancio della domanda interna dei consumi. Questi ultimi ormai, vissuti come indicatore della qualità della vita, assumono valenza psicologica e non è più possibile pensare ad una politica sociale che metta al bando la tendenza al consumo, ma è necessario andare incontro a questi bisogni e promuovere la capacità di scelta consapevole della gente.E qui si inserisce un altro punto cruciale. Che tipo di domanda e che tipo di consumi è possibile incrementare oggi nei paesi occidentali?Fino agli anni sessanta, primi anni settanta, la produzione industriale era indirizzata verso prodotti che trovavano accoglienza in una società in cui il benessere sociale veniva identificato (giustamente) con la disponibilità di beni atti a migliorare le condizioni di vita delle famiglie: automobili, lavatrici, frigoriferi, televisori, etc. Questo tipo di produzione aveva creato un aumento dell'occupazione nei settori industriali corrispondenti, a discapito, soprattutto, ma non solo, delle campagne meridionali e dei mestieri artigianali che ruotavano attorno all'economia di tipo agrario. Mestieri come l'arrotino, il fabbro o il calzolaio persero rapidamente il loro peso economico e questo mise le persone che li esercitavano nelle condizioni di ricollocarsi in un'economia rivolta ad un mercato di massa. Ma lo sviluppo economico di quegli anni non creò gravissime conseguenze dal punto di vista del tasso medio di occupazione, pur creando problemi di adattamento a situazioni sociali e culturali del tutto nuove per i lavoratori che si trovarono costretti ad abbandonare il tipo di vita "tranquilla" delle campagne per gettarsi nel caos e nei ritmi frenetici delle città. La conseguenza non meno drammatica fu l'emigrazione dal sud al nord del paese, una condizione che portava con sè anche enormi disagi di tipo materiale e sociale. Negli anni settanta poi la crisi energetica fu una premessa (in parte fittizia) per bloccare le rivendicazioni sindacali che avevano caratterizzato, anche con forme di lotta molto dure, la fine del decennio precedente. Chi ricorderà la cosiddetta "politica dell'austerità" (ricordate il periodo della circolazione delle auto a giorni e targhe alterne?) avrà più facilità a capire che fu proprio in quel periodo che comincia a crearsi tra la gente un senso di insicurezza e di sfiducia nel progresso ed il cosiddetto "ritorno al privato" che ha generato negli anni ottanta quella corsa sfrenata all'individualismo, all'arrampicata sociale a tutti i costi, allo yuppismo. Il sistema politico ed economico italiano che nasce nel periodo della ricostruzione del secondo dopoguerra e si rafforza nel periodo del cosiddetto "boom economico" degli anni sessanta, è caratterizzato da un fondamentale ruolo della spesa pubblica che è stata una imponente leva di sviluppo e di crescita dell'economia italiana. Oggi la parola d'ordine è proprio il contrario, cioè: ridurre al minimo la spesa pubblica e lasciare spazio all'iniziativa privata. Ma senza l'intervento dello Stato nell'incremento della produzione le realtà ed i soggetti già strutturati economicamente sono destinati ad aumentare le proprie capacità di crescita, mentre le realtà ed i soggetti più deboli vedono sempre più diminuire le opportunità di riscatto e di benessere sociale ed economico (aggiungendo a questo quella grande parte di economia drogata dalla presenza mafiosa che rafforza questa tendenza).Certo oggi è necessario pensare ad un tipo di investimenti che sia correlato non solo ai bisogni materiali ma anche a quelli psicologici della gente. Quando si parla di occupazione è necessario guardare verso settori economici a forte innovazione tecnologica, capaci di mettere sul mercato un tipo di occupazione "appetibile" soprattutto da giovani che hanno un titolo di studio medio-alto, ai quali non si può offrire un futuro di Lavoratori Socialmente Utili. Servono attività che consentano di "creare" un'offerta di servizi e prodotti idonei alla complessa realtà economica e sociale dei paesi occidentali. Tutto ciò è possibile, esistono settori quali la ricerca, l'ambiente, il cosiddetto terzo settore, i servizi alle imprese che consentono di innescare questo meccanismo di sviluppo. E questo sviluppo non è possibile pensarlo slegato alla modernizzazione della pubblica amministrazione e delle agenzie di formazione quali la scuola e l'università. Naturalmente questo tipo di sviluppo non può non guardare a quei paesi (per noi soprattutto nel Mediterraneo) che, o perchè in via di sviluppo o perchè in condizioni di forte arretratezza industriale e sociale, premono con sempre maggiore forza alle nostre frontiere. Integrare questi bisogni è forse la sola possibilità che abbiamo per dare una spinta forte in avanti e creare nuova occupazione e nuove condizioni di sicurezza e giustizia sociale. Questi obiettivi non sono perseguibili unicamente attraverso una politica di difesa dello stato sociale ed una politica economica capace di rilanciare produzione, consumi ed occupazione, ma è necessario uno sforzo imponente per mettere la gente, i giovani in primo luogo, in condizioni di affrontare la realtà come un elemento di ricerca dei propri limiti da superare, ridando il gusto della scoperta e la curiosità verso le capacità dell'uomo in continua interazione con il mondo, bisogna insomma restituire la voglia di sfidare il presente per costruire il futuro e per fare questo bisogna offrire ai giovani le opportunità di nuove conoscenze e potenzialità. Oggi molto più che nel passato riusciamo a cogliere contemporaneamente informazioni provenienti da ogni parte del mondo con una rapidità che appena cinquanta anni addietro non sarebbe stata possibile, e questo ci porta ad amplificare il contrasto tra la crisi dei valori tradizionali, (che ancora sentiamo troppo vicini nel tempo). La velocità però con cui ci arrivano informazioni da ogni parte del mondo e della società ci sgomenta e ci abitua ad essere spesso solo spettatori della realtà. Erich Fromm, nell'opera "Fuga dalla libertà", mette in relazione la scelta di sottomissione dell'uomo moderno con il senso di solitudine che gli deriva dalla presa di coscienza della sua individualità. Individualità distinta come essere biologico e come individuo sociale. Come essere biologico l'uomo tende ad identificarsi come entità che, pur facendo parte del mondo naturale, ha tuttavia sviluppato una capacità di condizionamento tale della natura stessa da porsi su un piano quasi parallelo rispetto al resto del mondo biologico. Come individuo sociale egli ha sviluppato un sistema economico ed un'organizzazione sociale talmente complessi da divenire sempre più impersonali ed astratti e tali da far apparire l'individuo come un piccolissimo ed insignificante ingranaggio di una macchina gigantesca in grado di funzionare a prescindere dall'esistenza di ciascuno degli individui che la compongono. Questa realtà ha portato l'individuo a rinchiudersi sempre più in un suo mondo privato tentando di sfuggire alla sensazione di oppressione, che proprio la coscienza della solitudine gli provoca, vivendo questa solitudine come una forma di difesa "dai nemici esterni" che lo costringono a conformasi ad un modo di vivere che gli crea alienazione impedendogli di esprimere il suo bisogno di individualità. Ma il vizio principale di questo atteggiamento non è quello di sentire il bisogno di esprimere la propria individualità, ma quello di credere che quest'ultima si debba esprimere secondo le tipologie di relazione sociale che sono imposte dall'omologazione culturale. Un individuo infatti che cerca di competere in una società in cui il potere si esercita controllando il sistema di comunicazione globale, utilizzando i parametri imposti dallo stesso sistema, necessariamente si trova a sbattere contro il muro di gomma che questo sistema ha innalzato intorno a lui e che è rappresentato dalla polverizzazione dei centri decisionali, dai vari livelli delle relazioni sociali, nel mondo del lavoro, in quello della produzione artistica, in quello della politica o in quello della morale, per citarne alcuni. Sconfitto dalla incapacità di riappropriarsi della facoltà di autoderminazione usando gli strumenti di competizione del sistema, egli si sente sempre più piccolo, insignificante ed inadeguato dentro questo meccanismo. Egli torna a rinchiudersi in sè stesso maturando un impalpabile odio verso il mondo esterno ed in sostanza verso sè stesso e cadendo lentamente in uno stato di rinuncia alla vita che si esprime a volte con la via della droga o della violenza, ma il più delle volte in un muto ed acritico conformismo al sistema di vita massificato che lo porta a quella morte meno cosciente della morte biologica ma altrettanto reale che è l'annullamento del sè stesso originale. Un complesso di alienazione, di solitudine e di paura che è una cappa pesante a livello inconscio. Questo bisogno di identità che, se frustrato origina alienazione e senso di inutilità, deve trovare la sua maniera di esprimersi e questa può essere realizzata nella capacità di ogni individuo di avere coscienza di sè stesso come parte del tutto in senso sia biologico che culturale, e messa in atto attraverso i sentimenti positivi, primo tra tutti l'amore verso sè stessi e verso tutti gli altri. Non è un'impresa facile da realizzare perchè innanzitutto è necessario conoscere i meccanismi che determinano il nostro comportamento, tanto quelli naturali che quelli culturali, avendo consapevolezza di questi meccanismi, ancorchè sentirci schiacciati da questi "determinismi" potremo tentare di utilizzarli indirizzandoli positivamente per affermare il "nostro modo di essere".
UNA REALTA' A DUE DIMENSIONI

Nella nostra rivista Helios Magazine il prof. Domenico Rodà ha presentato una parte dei suoi studi sulle comunità grecaniche della provincia di Reggio Calabria. Un'affascinante analisi glottologica ed un lavoro di grande interesse antropologico sui discendenti degli antichi coloni greci della costa ionica reggina che in epoca medioevale, minacciati dai saraceni, si ritirarono nelle zone impervie dell'Aspromonte e lì diedero vita a villaggi e piccole comunità rurali organizzate, sia dal punto di vista urbanistico che produttivo, sul modello che ancora oggi è possibile rintracciare in alcune zone della Grecia nord occidentale o della Cappadocia. Queste comunità, a causa di una condizione di isolamento dovuto alla posizione geografica (l'entroterra aspromontano), alla quasi totale assenza di reti stradali, ed al progressivo spostamento delle vie commerciali dall'asse italo-greco alle rotte marittime dell'Atlantico, del Mediterraneo occidentale, e successivamente al Golfo Persico, hanno potuto conservare idiomi e tradizioni risalenti al periodo ellenistico. Isolamento, questa è la parola chiave misteriosa pronunciata, con malcelata nostalgia, da quanti guardano al passato con gli occhi della propria memoria giovanile che poco ha a che fare con la storia vera. La cosa che colpiva maggiormente, nelle ricerche del professore Rodà, era soprattutto il fatto che quelle condizioni di isolamento si siano potute mantenere fino agli inizi degli anni settanta del nostro secolo, proprio 1970 per essere chiari, fino a quando cioè in quei paesi non arrivò l'energia elettrica e le strade percorribili con le automobili. Lasciamo l'Aspromonte e le sue martoriate pendici e facciamo un salto nel tempo e nello spazio. New York anni '50, erano gli anni del rock e di Elvis. Liverpool anni '60, erano gli anni dei Beatles e dei Figli dei Fiori negli U.S.A. e nelle grandi città europee, ed anche gli anni in cui i primi uomini lasciavano la Terra e scendevano sulla Luna. Parigi 1968, scoppiava il Maggio della contestazione giovanile. Aspromonte anni '70, arriva l'energia elettrica, e con questa i primi elettrodomestici, e la televisione. Come avranno visto il mondo che si affacciava dai teleschermi quegli uomini, quelle donne, quei giovani e quelle ragazze che fino ad allora erano stati tagliati fuori dall'occidente reale, pur facendone parte di fatto?Questa risposta necessiterebbe uno spazio ben più consistente di queste poche righe, ma le condizioni di arretratezza economica in cui si trova oggi questa parte del Mezzogiorno, se non esclusivamente, certamente trova le sue cause anche in questo stato di isolamento. In sostanza, in un medesimo tempo, la realtà, a Parigi e ad Africo Vecchio non era percepita allo stesso modo. Il mondo aveva dimensioni, colori, suoni e ritmi assai differenti in queste due realtà occidentali. E la capacità di comprensione e di partecipazione economica e politica evidentemente ha seguito destini diversi. Oggi siamo nella cosiddetta era della multimedialità, le comunicazioni telematiche, la televisione digitale, i progressi della tecnica nel campo dell'ingegneria genetica e molecolare, delle nanotecnologie, ecc. stanno portando (o già dobbiamo dire che hanno già portato) l'uomo ad inventare una nuova specie: l'Homo Nooliticus (Pierre Levy, L'Intelligenza collettiva, Feltrinelli Interzone editore).Che stia comparendo una nuova specie umana sulla terra, può apparire una affermazione paradossale, perchè ancora i nostri riferimenti culturali (soprattutto quando affrontiamo il discorso su noi stessi!) associano la comparsa di specie biologiche nuove a tempi commensurabili nell'ordine di milioni di anni, invece i progressi della scienza e della tecnologia realizzati in questo secolo ci hanno posto davanti ad uno degli eventi più rilevanti della storia dell'umanità: la tendenza a zero del fattore tempo. Nella filosofia contemporanea il tempo viene definito come inesistente, nell'esplorazione spaziale l'abbattimento del tempo come limite della velocità è il vero traguardo a cui si tende, nella comunicazione multimediale il traguardo è la comunicazione globale (audio, video e sensoriale) in tempo reale. Questo contesto può produrre diversi tipi di effetti nell'individuo e nei gruppi sociali tecnologizzati: inconsapevolezza, incredulità, mera constatazione, angoscia, entusiasmo. Siamo in un'epoca di transizione, questo termine spesso abusato, ha però un indubbio valore se collocato in una scansione spazio-temporale che divide non solo i paesi, non solo le ricchezze e le povertà, ma anche le generazioni contemporanee. Ricordo che un'anziana signora, negli anni settanta, dopo aver conversato per telefono con una sua parente ammalata di influenza, finita la conversazione, si rivolse a me chiedendomi seria e preoccupata se per caso non potesse essere stata contagiata per telefono. La mia risata di ragazzo impertinente la mandò su tutte le furie. Ma la sua preoccupazione era sincera. Lei usava il telefono perchè glielo avevano fatto installare i figli, ma di cosa fosse veramente, di come funzionasse, di dove andasse a finire quel filo attaccato alla parete, non aveva la minima idea. Certo, neanche se lo chiedeva, era lì, funzionava in modo abbastanza semplice e questo le bastava senza troppe domande, e se non avesse avuto la mia maleducata risata forse non se le sarebbe mai neanche poste, tanto le risposte non poteva capirle, erano fuori dal mondo di cui lei conosceva il funzionamento. Guardo oggi ormai senza stupore ai ragazzini delle scuole medie inferiori che già hanno superato la fase dell'uso del computer per entrare senza difficoltà particolari nella fase della programmazione dei software informatici padroni dello strumento e dei nuovi linguaggi che esso impone. Specularmente però esiste un'altra "realtà" nello stesso luogo e appartenente alla stessa generazione. Ripetendo i metodi di indagine sociologica partecipativa molto in uso negli anni settanta, ogni tanto, entro "in incognito" nei gruppi giovanili di diversi ambienti sociali per osservarne i comportamenti, i linguaggi, la gestualità quale forma non solo complementare ma spesso alternativa di comunicazione intersoggettiva. Così mi capita di osservare i cosiddetti "corner-boys" dei ceti sociali marginali, ma anche della media borghesia dei quartieri periferici, che esprimono con i loro linguaggi e atteggiamenti distanze siderali dai loro coetanei "tecnologizzati", con ricadute sul piano economico, sociale e politico del tutto differenti. E' una nuova forma di sottoproletariato. Un sottoproletariato che anche quando riesce ad inserirsi, in un qualsiasi modo, nel ciclo produttivo e quindi procurarsi un reddito di sussistenza, rimane comunque ai margini estremi della società, una società che già oggi non funziona più secondo i modelli organizzativi che tutti noi abbiamo studiato sui libri di scuola, che loro stessi hanno studiato sui libri di scuola, di una scuola spesso inconsapevole ed impreparata a gestire questo nuovo fenomeno. E qui sta anche la chiave di lettura del nuovo sottoproletariato urbano, che fino ai primi anni sessanta era rappresentato da individui privi di scolarizzazione e di reddito, oggi sono scolarizzati inutilmente e per questo incapaci di inserirsi nel ciclo produttivo, ma anche incapaci di capire perchè la società gli indica modelli di comportamento improntati a dinamismo e (anche se si tende a non usare più una definizione ritenuta politicamente scorretta) a "competizione sociale". Per questo si chiudono in sè stessi, in forme di autodistruttività, di passività, spesso anche di violenza. Questi ragazzi fuggono da un mondo che non conoscono e non riescono a capire, ma non hanno dove andare; senza politiche di nuova solidarietà sociale, messe in atto oggi, questi ragazzi saranno emarginati per tutta la vita e la società si troverà a dover provvedere a loro in termini di assistenza nei prossimi anni. E l'assistenza non è una scelta tra due possibilità, ma una forma obbligata di contenimento dei danni quando si è ormai in ritardo per attuare soluzioni. Da un lato i corner-boys, nuovo proletariato, dall'altro la nuova borghesia, ragazzini giovanissimi che sono perfettamente in grado, spesso in forma autonoma, di appropriarsi delle tecniche di comunicazione multimediale con grande facilità, perchè hanno disponibilità in famiglia o nei gruppi di amici che frequentano di conoscere ed utilizzare la tecnologia avanzata, di imparare l'inglese e di incuriosirsi verso il mondo ed aprirsi ad esso.Questi ragazzi, coetanei, che vestono gli stessi abiti, guidano gli stessi scooters, usano gli stessi telefonini, guardano la stessa televisione, questi ragazzi sono abitanti di pianeti diversi, parlano due lingue diverse, si muovo in dimensioni spazio-temporali differenti, seguono un'evoluzione di specie differenziata. La specie Homo Nooliticus forse ancora non è quella predominante sul pianeta, ma comincia già a dimostrare le sue potenzialità e tutto fa prevedere una sua diffusione sul pianeta in tempi rapidissimi. Intanto i primi segnali ci vengono proprio dai giovani di Reggio Calabria ed a loro dobbiamo indirizzare la nostra attenzione, non per essere maestri "part time" e dir loro cosa fare ma per fare le cose assieme a loro affinchè riescano a partecipare gradualmente al ricambio generazionale e non vederlo come una metà lontana, difficile e spesso irraggiungibile.
LA COMUNICAZIONE VERBALE E NON VERBALE

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