LIBANO: L’INFERNO DEI SENZATERRA

di Giuseppe Baldessarro (giornalista de Il Quotidiano di Calabria)


Il sole non entra mai tra i vicoli stretti di Shatila. Neppure nelle splendide e afose giornate estive, quando per un pò di fresco Beirut si riversa sulla spiaggia.

A Shatila niente. Ti accorgi che è estate dal fetore che si alza dalla fanghiglia statica che costantemente ti ritrovi sotto i piedi. Per il resto nulla. Tutto è come nel 1948, quando è iniziata la diaspora palestinese. Un’unica differenza. Nei primi anni ‘50 c’erano le tende.

Oggi 15 mila persone vivono in improvvisate case di muratura messe assieme alla meno peggio nel tempo.

I cultori dell’architettura contemporanea li definirebbero insediamenti edilizi spontanei. Più praticamente si tratta di un ammasso di mura irregolari, cui solo la grande dignità di questo popolo riesce a dare una parvenza di casa.

Shatila è così. Fango a terra, fili elettrici e impianti idrici per aria. Intrecciati assieme ai panni stesi che pendono da finestre aperte a 50 centimetri dal muro di fronte.

E quando un filo cade a terra le mura si riempiono delle foto di un altro bambino che giocava in quella via. "I martiri" li chiamano.

Alla pari dei ragazzi che si fanno esplodere nei bar israeliani e di quelli che muoiono per infezioni e malattie. Sono martiri comunque.

Perchè in guerra si muore anche così. Per una mitragliata, un razzo, una bomba. Oppure folgorati da un filo fissato male. Non fa differenza. In entrambi i casi è una morte assurda.

Ma questo non è l’inferno. L’inferno è a Sabra, a poche centinai di metri da qui. L’inferno è un palazzo di un numero indefinito di piani che risponde al nome di Gaza Hospital. Un dedalo di stanze buie e maleodoranti, senz’acqua e con la luce due ore al giorno. Ci vivono 380 famiglie. Dalle 6 alle 10 persone per stanza, dal 1982. Data che da queste parti difficilmente possono scordare.

Prima il Gaza Hospital era uno degli ospedali modello di Beirut. Gestione palestinese, sostenuta dall’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), per l’assistenza ai profughi e anche ai

Libanesi, indistintamente.

A settembre del 1982, durante l’invasione di Beirut est, le truppe israeliane dislocate attorno ai campi di Sabra e Shatila, lasciarono entrare nei campi unità falangiste (milizie libanesi cristiane, filoisraeliane) è fu una carneficina di donne e bambini. A migliaia furono passati per le armi, prima a Shatila poi anche al Gaza Hospital.

Massacrati e sepolti nelle fosse comuni con la complicità acclarata da una commissione d’inchiesta, dell’esercito israeliano. Successivamente, al Gaza si accatastarono tutti quelli che non avevano un posto per vivere, neppure nei campi devastati dalla guerra. Al Gaza non scegli di andarci, sei costretto a farlo. Come d’altra parte sei costretto a vivere nei campi, nella speranza che qualcosa cambi, anche se è difficile immaginarlo dopo cinquant’anni.

Resta la speranza "l’unica cosa che gli israeliani non potranno mai uccidere", la speranza al ritorno e a una vita degna di essere chiamata tale. Gli anziani ormai sanno che in Palestina non ci torneranno più. Ma non mollano, si battono comunque per il diritto al ritorno. Lo devono ai propri figli e ai nipoti. A migliaia di persone che nate nei campi quella terra non l’hanno neppure vista. Poi magari qualcuno deciderà di non tornare. Sono cresciuti in Libano, hanno amici e interessi qui. Forse anche in Palestina sarebbero stranieri, anche se in casa. E però vogliono scegliere, è un diritto cui non rinunciano.

Il Libano li ospita, li "tollera", e però non gli consente di avere proprietà, di svolgere 75 lavori, di crescere come popolo. Sono e restano profughi.

Nel solo Libano i profughi palestinesi sono 391 mila. Se si aggiungono quelli di Giordania, Siria, Transgiordania e Striscia di Gaza, il numero diviene spaventoso.

Quattromilioniottantaduemilatrecento dice l’Unrwa (Agenzia delle nazioni unite che occupa dei profughi in Medio Oriente).

Uomini, donne è bambini con il sogno di una terra, la loro.

 

A Kfar Kila ci si arriva per una strada aggrappata alla montagna. Un serpentone che attraversa valli dai colori stupendi. La natura è quella di uno dei tanti sud del mondo. Arida in apparenza, ma ricca di mille sfumature. Ai lati corre la linea elettrica. Pali di legno scuro. Aste per le bandiere hezbollah. Ogni palo una bandiera gialla. E più sale la strada e più bandiere hezbollah ci sono. Sono loro i custodi della frontiera tra il Libano e la Palestina. A loro bisogna chiedere il permesso per arrivare a lambire gli insediamenti israeliani. Ed è sempre uno di loro la nostra guida. Altrimenti qui, non ci si arriva.

I miliziani del "Partito di Dio" sciita, ci hanno fatto sapere: "Donne coperte", "Niente foto ai nostri soldati e alle postazioni". Anzi di più:"Quando saremo al confine niente foto verso l’interno, solo verso gli israeliani". A Kfar Kila capiamo il perché. Oltre il filo spinato che segna il confine l’insediamento israeliano è a poche decine di metri.

Da una parte villette tutte uguali, nuove, ordinate a scacchiera, di un ordine innaturale per questa terra. Di qua le case hezbollah, molte delle quali appena ricostruite. Un fazzoletto di terra in mezzo. Ci raccontano che nei momenti di tensione, su questa striscia s’incrociano raffiche di mitra colme d’odio. Nessuno, almeno ufficialmente, attraversa. Nessuno va oltre in un senso o nell’altro. Si cammina parallelamente al confine, non lo si supera. Mai. Una porta esiste ma solo idealmente. Fatta con due colonne di pietra. Su entrambe, a mo’ di target, sono stati appesi i volti di Sharon e del ministro della difesa israeliano, Ben Aliezer. I bambini ci vanno per prenderli a sassate. "Si esercitano". Pochi chilometri ancora per la spiegazione di tanto odio.

Più su, a Khiam, fino a maggio del 2000 c’erano gli israeliani e i loro alleati della Sla (South libanese army). Khiam e una collina tristemente nota per ospitare una prigione nella quale si sono consumate le più atroci nefandezze dell’occupazione israeliana.

Dopo la liberazione gli hezbollah l’hanno trasformata in una sorta di museo della memoria e dell’orrore. Nel quale si raccontano le condizioni in cui erano costretti gli uomini della resistenza e i loro familiari, anch’essi tenuti prigionieri per costringere i partigiani catturati a collaborare. Una fortezza cupa, nella quale solo i bambini arrampicati sui cannoni per gioco riescono a esorcizzare il ricordo della violenza.

Purtroppo anche quando le truppe si ritirano lasciano l’odio sul terreno. A volte come immagine passata, indelebile, altre sotto forma di mine seminate a caso.

Kfar Kila è territorio vietato per i profughi palestinesi che vivono in Libano. Per arrivarci devono ottenere un permesso speciale degli hezbollah. Un’ora o due al massimo. I palestinesi "la loro terra" la posso guardare da più a nord. Dai campi sulle spiagge di Rashedieh, nelle vicinanze di Tiro, la città conosciuta per la porpora estratta dal murice, un mollusco di cui la costa é ricchissima.

I campi di Bourjel Shemali e Rashedieh sono considerati tra i più difficili. Rashedieh è sulla battigia del mare. Per accedervi bisogna passare prima un check-point dell’esercito libanese, poi uno dell’Autorità palestinese. Non è semplice. Dentro, la presenza dell’Olp si percepisce forte. Molti uomini armati davanti alle porte di simil caserme e sedi di partito, molti i simboli dell’intifada. Qui ha sede anche l’unione delle donne palestinesi.

L’Ong "Assomaud" gestisce come in ogni capo un asilo. A ridosso della spiaggia sta costruendo una nuova e bella struttura per accogliere i piccoli. I lavori vanno a rilento, ed ogni aiuto è un contributo prezioso.

Dalle finestre ancora senza infissi, si vede la Palestina. Una lunga lingua di terra che s’immerge nel Mediterraneo. Da qui i profughi guardano i territori. Dalla spiaggia, dalle finestre, dalle terrazze la Palestina ti sembra di toccarla. Per le migliaia di persone che vivono nel campo si tratta di una pena aggiuntiva. Pagano il prezzo dell’assetato che non riesce a bere pur vedendo l’oasi tanto agognata. E non è un miraggio.

(I profughi sono stati fotografati dal Palestinian Return Center (PRC))



HELIOS Magazine

e-mai: heliosmag@virgilio.it