I RAGAZZI DI REGGIO CALABRIA
Conformisti nella devianza
a cura di Pino Rotta e Carlo Calabrò - Edizioni Club Ausonia ©
(PARTE PRIMA)
PREMESSA
La ricerca mira ad analizzare il fenomeno della devianza minorile, cioè prende in esame le cause, il contesto di socializzazione primaria e secondaria e le manifestazioni poste in essere in antagonismo a quelle regole o criteri di comportamento definiti dalle aspettative comunemente condivise, ed in relazione alle quali la condotta morale e civile di questi soggetti viene considerata socialmente inaccettabile. Il fenomeno della devianza è stato oggetto di innumerevoli studi e dibattiti soprattutto negli ultimi trent'anni.
Sono diversi gli approcci scientifici che si possono adottare per mettere in luce i vari aspetti attinenti la personalità soggettiva o l'incidenza sociale di questo fenomeno.
Avremo quindi un'analisi del fenomeno della devianza minorile intesa sia come reazione psicodinamica dell'adolescente che all'interno delle strutture socializzanti percorre esperienze che lo portano a sviluppare antagonismo e comportamenti che denotano una certa quota di disadattamento, sia come espressione di rifiuto più o meno cosciente da parte dell'adolescente del sistema normativo sociale e della stereotipizzazione comportamentale. Nell'elaborazione della ricerca verrà trattato, oltre al concetto generale di devianza dal punto di vista psicodinamico e sociologico, l'esame delle strutture di socializzazione quali la famiglia e la scuola, e dei sistemi alternativi alla "normale" struttura sociale, quali la criminalità organizzata.
Ad arricchire l'esame della ricerca, e come supporto di natura statistica ed empirica saranno riportati ed analizzati dati statistici sul fenomeno della criminalità minorile nella provincia di Reggio Calabria relativi agli anni 1990, 1991, 1992 e 1993; verranno inoltre presi in esame dieci casi di minori, nati e residenti nella provincia di Reggio Calabria, e che in tale contesto sociale, particolarmente difficile a causa di una rilevante presenza criminale e di una inadeguata risposta istituzionale di contrasto dello Stato, si sono resi protagonisti di fatti delittuosi.
CAPITOLO I
IL CONCETTO DI DEVIANZA
APPROCCIO PSICODINAMICO E APPROCCIO SOCIOLOGICO
Un particolare interesse, al fine di comprendere le cause della devianza, assumono le teorie che prendono in esame gli aspetti psicologici e psicodinamici dell'individuo e quelli ambientali o sociologici.
Per quanto attiene l'approccio psicodinamico le cause della devianza devono essere ricercate nella personalità dell'individuo. Ponendo come base la concezione freudiana della personalità nelle sue componenti di id, costituito da impulsi aggressivi innati, superego, che costituisce il processo di socializzazione mediante il quale si forma la coscienza morale cioè l'interiorizzazione delle norme con funzione di inibizione degli impulsi dell'id, ed ego, con funzione di filtro e di mediazione tra id e superego mediante l'esame della realtà esterna, la devianza troverebbe le sue cause in una inadeguata socializzazione che determina un imperfetto funzionamento del superego, e quindi un disadattamento. Secondo questa teoria le origini del disadattamento vanno cercate in particolare nel rapporto del soggetto con i genitori nei primi anni di vita, all'interno della famiglia,e nella correlazione del processo di socializzazione, formatosi all'interno della famiglia con gli altri agenti della socializzazione, quali la scuola e le istituzioni.
In sostanza un cattivo rapporto dell'individuo con la famiglia, la scuola e gli altri agenti socializzanti determina quelle carenze a livello di interiorizzazione del sistema normativo che a loro volta producono devianza. Si viene così a creare un inceppamento nei meccanismi sociali che regolano il processo di socializzazione e di integrazione, raffigurabile come una vera e propria patologia individuale, che porta l'adolescente ad estrinsecare comportamenti non conformisti. Quando questo genere di disadattamento rappresenta un fenomeno condiviso da più soggetti che assumono i comportamenti devianti quali valori alternativi al sistema sociale, la devianza può essere interpretata come sintomo e stimolo all'emergere di nuovi valori e nuovi bisogni, ed in tal caso l'analisi del fenomeno me rita di essere affrontata attraverso l'approccio sociologico. Dal punto di vista del sistema sociale, inteso come sistema integrante intorno a valori universalmente condivisi la devianza sarà da considerare quindi come una disfunzione del sistema stesso capace di metterne in pericolo la stabilità.
In questo caso il problema sarà quello di controllare la devianza per eliminarla utilizzando gli strumenti classici della repressione o della psicoterapia.
Ma la devianza può anche rappresentare, come si é già detto, il sintomo dell'emergere di nuovi valori e di nuovi bisogni a livello sociale, nel qual caso sarà opportuno analizzare le manifestazioni del fenomeno per ridurre le contraddizioni sociali ed indirizzarle affinchè non incidano sui principi organizzativi del sistema sociale, garantendo così la stabilità del sistema stesso gestendone il mutamento.
In questo secondo caso il conflitto sociale, di cui i comportamenti devianti sono manifestazione, svolge una funzione positiva di integrazione e di progresso a condizione che non si ponga fuori della struttura di legittimazione del sistema. L'approccio sociologico all'analisi del fenomeno della devianza ci porta a trarre la conclusione che i soggetti devianti sono da ritenersi tali non tanto per le loro caratteristiche di personalità soggettiva, quanto per l'atteggiamento che la società ha nei loro confronti. Un'azione in sè, infatti, può essere ritenuta deviante in un determinato contesto sociale, e non esserlo in un diverso contesto che non classifica come tale la stessa azione.
In tal senso può essere intesa la teoria secondo cui alcuni sociologi1 ritengono che la società operi una selezione per individuare i soggetti che dovranno assumere un ruolo deviante, tra gli appartenenti alle classi più deboli, economicamente e socialmente, cioè tra quei soggetti privi di potere, adottando dei supporti culturali per legittimare questo tipo di etichettazione. Si avrà ad esempio un contesto culturale in cui l'immagine tipo del soggetto deviante non sarà basata sulla conoscenza diretta del fenomeno, ma su informazioni mediate e stereotipizzate, tali da fare accettare la criminalizzazione dei soggetti devianti che si rivelano anticonformisti rispetto ai valori dominanti nella società.
Secondo questa teoria l'analisi del fenomeno della devianza parte da un'analisi della struttura della società divisa in classi, in cui il comportamento deviante è messo in atto, in forma più o meno cosciente, come segno di rifiuto di tale determinata struttura, mentre la reazione della società, che si estrinseca attraverso la repressione e l'emarginazione dei soggetti portatori di comportamenti devianti, rappresenta la difesa che la classe dominante attua verso coloro che vengono ritenuti pericolosi nei confronti di chi beneficia dei privilegi del ceto dominante.
Pur non sottovalutando l'importanza dei caratteri psicologici quali fattori di incidenza sul comportamento individuale di adattamento o di devianza al'interno di un dato contesto sociale, ri-teniamo di dover privilegiare l'approccio sociologico per spiegare le cau sa della devianza ed in particolare della devianza minorile.
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(1. Dennis Chapman, Lo stereotipo del criminale, Ed. Einaudi Paperback, 1969.)
Infatti pur condividendo le teorie che fanno derivare le azioni individuali da spinte di carattere psicologico che nel loro complesso formano il "carattere sociale" di un uomo,che, citando Erich Fromm (2) "...interiorizza le necessità esterne e così imbriglia l'energia umana a vantaggio delle mete di un determinato sistema economico e sociale.", non si può non tenere in considerazione che i modelli culturali predominanti in un dato contesto sociale hanno una funzione fondamentale nella formazione del carattere sociale.
In tale contesto anche il soggetto deviante assume una sua funzionalità conservativa del sistema sociale dominante.
E' il caso ad esempio dei fenomeni di devianza giovanile tipici delle società occidentali degli anni sessanta/settanta che manifestavano una posizione di contestazione radicale nei confronti del sistema politico e sociale dominante, assumendo quali simboli connotativi modelli e stili di vita completamente anticonformistici (basti ricordare che lo slogan di moda di quei tempi, tra i giovani, era "sesso, droga e rock&roll, dove però per droga era inteso l'uso di droghe leggere quali l'haschish e la marijuana, e solo per alcuni gruppi, l'L.S.D.). Tale fenomeno fu strumentalmente indirizzato, con il favore della crisi occupazionale che toglieva ai giovani l'alternativa tra la devianza e l'integrazione nel sistema sociale "normale", verso una trasgressione strutturata (3) tramite la tolleranza della diffusione delle droghe pesanti ed il progressivo irretimento dei giovani da parte della criminalità organizzata (o comunque negli ambienti della tossicodipendenza), che pur essendo un sistema di devianza sociale non si poneva (e non si pone tuttora) come alternativa al sistema politico dominante, con il quale anzi ha mantenuto un sempre più stretto rapporto di mutuo sostegno.
Questo concetto di trasgressione strutturata ci sembra particolarmente interessante per le sue implicazioni sul livello medio di devianza tollerata dalla società.
Infatti se l'atteggiamento mantenuto dalle istituzioni nei confronti delle azioni trasgressive é quello di considerare funzionale una certa quota di devianza, quale valvola di sfogo delle spinte sovversive del sistema, e se questa quota assume entità rilevanti, come ad esempio é avvenuto in Italia negli ultimi trent'anni, allora le azioni trasgressive dell'ordinamento normativo diventano fenomeno culturale connotativo di un dato sistema sociale (é il caso ad esempio della cultura mafiosa largamente diffusa nel Mezzogiorno d'Italia ).
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(2. Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Ed. Mondadori, 1987.)
(3. R.M. WILLIAMS, Jr., American Society, Knopf, New York, 1951.)
Parlare di comportamento deviante in questo caso crea una problematica che non può essere inquadrata solo in un contesto scientifico di analisi sociologica.
Con questa chiave di lettura circoscriveremo lo svolgimento della nostra ricerca sui fenomeni di devianza minorile con riferimento al sistema sociale dominante nella realtà del Meridione d'Italia ed in particolare della provincia di Reggio Calabria.
In questa realtà sociale assumono peculiarità diverse rispetto al resto del Paese sia il ruolo della famiglia, sia quello delle istituzioni socializzanti, che quello della scuola, assume altre sì un ruolo culturalmente e socialmente rilevante la struttura interna delle organizzazioni criminali; non é a nostro avviso possibile, quindi, trattare del fenomeno della devianza minorile senza avere tracciato preliminarmente i caratteri culturalmente connotativi di questi agenti sociali. Al fine di assicurare un supporto statistico all'esposizione delle teorie di svolgimento della ricerca verranno utilizzati i dati acquisiti presso l'Istituto Centrale di Statistica - Servizio Statistiche Giudiziarie - relativi ai delitti denunciati, nella provincia di Reggio Calabria, all'Autorità Giudiziaria dalla Polizia di Stato, dall'Arma dei Carabinieri e dal Corpo della Guardia di Finanza negli anni 1990, 1991, 1992 e 1993; verranno altresì utilizzati i risultati dell'indagine sulle tendenze giovanili nella provincia di Reggio Calabria realizzata dal Centro Comunitario AGAPE di Reggio Calabria, per conto dell'Amministrazione Provinciale di Reggio Calabria e pubblicati nell'anno 1989.
CAPITOLO II
LA FAMIGLIA
L'adolescenza é il periodo della vita di un individuo in cui si manifestano con più virulenza tutte le crisi legate allo sviluppo ed alla formazione della personalità e quindi una cattiva gestione di questi processi di crescita possono divenire cause primarie di devianza.
Nella fase adolescenziale i ragazzi sviluppano quei sentimenti di ambivalenza verso sé stessi e verso i genitori provocati dall'intrinseco bisogno di indipendenza, da una parte, e dal bisogno di sicurezza e fiducia, dall'altra, propri di uno stato d'animo travagliato dalla tendenza ad affrontare autonomamente esperienze che rappresentano la scoperta del nuovo nella vita di relazione e dall'insicurezza che proprio il vissuto quotidiano di scoperta della novità produce.
In questo processo di crescita l'adolescente pone sé stesso al centro delle proprie aspettative di esperienza relazionale con il desiderio di essere gratificato da un atteggiamento di fiducia da parte degli altri, ed in primo luogo dai genitori. Questa esigenza di fiducia é quasi sempre frustrata dall'atteggiamento acriticamente iperprotettivo dei genitori che in maniera più o meno volontaria sono portati ad mantenere uno stretto controllo sulle azioni dell'adolescente, atteggiamento che viene vissuto da quest'ultimo come segnale di negazione di quella fiducia che invece egli cerca incondizionatamente.
Ciò porta all'esasperazione della tendenza di affermazione della propria autonomia ed all'insorgere di comportamenti contrapposti e conflittuali rispetto a quelli posti a modello da parte dei genitori, fino ad arrivare a far nascere uno spirito di sfida nei confronti proprio dei genitori. D'altra parte i genitori, che vivono essi stessi come novità l'esperienza dell'adolescenza dei propri figli, sono spesso portati, soprattutto se non sono dotati di livelli culturali medio-alti, a non cercare un rapporto dialettico con i ragazzi facendo insorgere una vera e propria incomunicabilità che fa sentire esclusi dalla gestione del loro processo di crescita i propri figli. Quest'atteggiamento da parte dei genitori é causato dal "...divario tra l'adolescenza reale del figlio e le rappresentazioni che i primi si sono di essa costruiti sulla base dei ricordi della loro stessa adolescenza o del modello adolescenziale maschile e femminile mutuato nelle proprie famiglie di origine e soprattutto per il genitore dello stesso sesso dell'adolescente, ma in una certa misura anche dell'altro della corrispondenza tra tale modello e la sua stessa adolescenza e cosa ciò ha comportato per lui in termini di immagine di sé, di raggiungimento di una soddisfacente autonomia personale, di competenza nella relazione con gli altri, dentro e fuori della famiglia" (4).
E' dunque partendo con questo atteggiamento di sfida posto in essere dall'adolescente, nei confronti dei genitori "avari di fiducia e di incoraggiamento", che questi cerca situazioni relazionali alternative ai modelli di integrazione offerti dal proprio nu cleo familiare, dove poter trovare sentimenti di condivisione delle proprie aspettative di successo e della voglia di autoaffermazione.
Ma fuori del nucleo familiare che non riesce a soddisfare queste esigenze avvertite dall'adolescente questi cerca anche modelli di identificazione a cui potersi conformare per sentirsi "grande". Questi meccanismi psicologici interni al nucleo familiare, che sono alla base del processo di crescita e di integrazione sociale dei giovani, che fanno parte della sfera emotivoaffettiva, vanno inquadrati in un contesto sociologico che spieghi l'incidenza del ruolo della famiglia sulle cause dei fenomeni di devianza minorile; e questo contesto sociologico assume connotazioni specifiche nella realtà sociale della provincia di Reggio Calabria.
In questa provincia infatti la famiglia vive un processo di transizione, tutt'altro che compiuto, che dalla realtà della famiglia tradizionale di estrazione contadina muove verso una realtà di tipo più moderno ormai affermatasi nelle regioni geografiche a maggiore sviluppo industriale. Mentre nelle realtà sociali a sviluppo industriale affermato e consolidato la famiglia ha ormai assunto una configurazione di tipo nucleare, con una composizione media di tre membri e con un ruolo di socializzazione spesso subalterno rispetto ad altri agenti di socializzazione quali la scuola, le istituzioni o il quartiere urbano in cui si sviluppa un tipo di socializzazione indotta dall'incontro di gruppi eterogenei5, nella famiglia di tipo tradizionale di estrazione contadina, che oltre ad avere una composizione media superiore a tre membri, il nucleo familiare va inteso trascendendo il singolo nucleo di appartenenza e rapportato al complesso di rapporti di parentela che vengono vissuti dal singolo individuo con un forte senso di appartenenza, e nell'ambito del quale si sviluppa quasi per intero il processo di socializzazione dei giovani.
Questo dato di analisi sulla famiglia della provincia di Reggio Calabria é supportato dai risultati dell'analisi condotta, per conto dell'Amministrazione Provinciale, dal Centro Comunitario AGAPE di Reggio Calabria. Nell'indagine dell'AGAPE tutti i risultati d'inchiesta portano ad affermare come per
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(4. Annamaria Dell'Antonio, La famiglia, in Ragazzi di mafia, pag. 240, Ed. F. Angeli, Milano 1993.
(5. W.F. Whyte, Street Corner Society, Chicago 1943, traduzione italiana Little Italy, Bari, Laterza, 1968.)
i giovani della provincia di Reggio Calabria la famiglia rappresenti un insostituibile punto di riferimento, sia in termini di sicurezza che in termini di appartenenza. All'interno della famiglia il ragazzo cerca nei primi anni dell'adolescenza quel rifugio in cui rientrare man a mano che si affaccia alle nuove esperienze di vita esterna, ma é anche il luogo dove passa la maggior parte del tempo complessivamente il 60,3%) fuori dell'orario scolastico; questi dati fanno da contromisura a quelli relativi al tempo dedicato agli amici ed alle attività di tipo sociale (rispettivamente l'11,2% e lo O,8%); dall'indagine AGAPE si rileva anche, su questo fenomeno, un altro dato interessante e significativo, ed é il dato rispetto al quale si ha che il maggior numero di giovani che passa più tempo libero all'interno della famiglia sono quelli il cui padre ha un livello di scolarità più basso e meno qualificato, mentre al contrario i giovani i cui padri hanno un livello di istruzione più elevato e qualificato rivelano una maggiore tendenza ad intraprendere una vita relazionale anche fuori della famiglia. Quest'ultimo dato é il segnale che indica come i ceti sociali più elevati incoraggino maggiormente l'autonomia dei propri figli. Soprattutto il primo dato richiamato dell'indagine AGAPE, quello cioé relativo al tempo che l'adolescente passa all'interno della famiglia, va messo in relazione anche alla scarsità di occasioni esterne e di spazi di socializzazione che i centri urbani della provincia di Reggio Calabria offrono, che mette in evidenza come la vita di relazione sociale dei ragazzi risente di una notevole limitazione a causa della quale maggiormente risalta il rischio che i giovani, fuori della famiglia, possano cadere vittime di situazioni delinquenziali o dei pericoli connessi alla diffusione del fenomeno criminale che particolarmente afflige il tessuto sociale di questa provincia; vivendo in maniera preponderante all'interno del nucleo familiare si realizzano quelle situazioni di protezione e sicurezza che sono funzionali alle esigenze emotive sia dei ragazzi che dei genitori.
Ma non bisogna pensare che questo fenomeno di coesione familiare sia il risultato dell'avanzato stato di deterioramento della vita civile che la realtà sociale reggina ha cominciato a conoscere a partire dalla fine degli anni sessanta.
Come si é detto precedentemente, infatti, la famiglia nella provincia di Reggio Calabria, attraversa una fase di transizione culturale partendo dalla sua estrazione contadina che, in particolare modo nella zone aspromontane, da cui si sono registrate, sin dall'inizio degli anni sessanta, ondate di emigrazione locale in direzione del capoluogo, già tradizionalmente presentava una tipologia antropologica basata sul clan familiare molto coeso e fortemente legato alla proprietà della terra, che, oltre ad essere spesso l'unica fonte di sostentamento e di reddito, rappresentava anche il veicolo di perpetuazione del legame familiare, fino a configurare una sorta di simbiosi tra la proprietà posseduta ed il clan familiare, dove il concetto di proprietà va analogamente esteso anche a case ed a beni rappresentanti valori/rifugio (nel dialetto reggino questo complesso di beni viene ancora definito, nelle zone di campagna, con il termine di "robba" nel significato di sostanze possedute); non é infrequente, ancora oggi, soprat tutto nei centri rurali, che per l'alienazione di un bene posseduto dal singolo nucleo familiare si svolga preliminarmente una sorta di trattativa interna alla più estesa parentela per cercare di evitare che l'alienazione del bene finisca per impoverire nel complesso il clan familiare e per ridurre così, in ultima analisi, le potenzialità di solidarietà interna alla parentela. Naturalmente, dagli anni sessanta ad oggi, i mutamenti di condi zione economica e l'inurbamento hanno fortemente ridimensionato questo che era un aspetto peculiare della famiglia reggina fino agli anni sessanta, ma ancora questa trasformazione non risulta del tutto compiuta, soprattutto nei suoi effetti di condizionamento culturale sia positivi, quando si manifesta in termini di legame affettivo interno alla famiglia, sia negativi quando diventa elemento di coesione per i clan mafiosi a struttura fami liare, che sono, nel contesto generale della criminalità mafiosa, tipici della provincia di Reggio Calabria.
CAPITOLO III
CONFORMISTI NELLA DEVIANZA
Proprio questa forte coesione familiare fa sviluppare quel senso di appartenenza emotiva nell'adolescente della famiglia reggina che é messo in luce anche nei dati della sopracitata indagine condotta dal Centro AGAPE, tra i quali risalta in particolare quanto viene affermato da circa il 84% dei ragazzi facenti parte del campione che é stato intervistato, relativamente alla loro disponibilità a far uso della violenza per proteggere la propria famiglia da un danno o da un offesa.
L'uso della violenza, in questo caso, non può essere considerato trasgressivo né sul piano etico, poiché largamente approvato dal comune senso morale, né sul piano sociale, poiché l'adolescente vive in un contesto sociale che offre continui esempi di violenza esercitata nel nome del diritto ad una giustizia privata.
E' questo un caso in cui la devianza, intesa quale rifiuto delle normali regole di civile convivenza, viene invece vissuta dall'adolescente, in questo contesto, quale atto di conformismo ai valori culturali dominanti e rispetto ai quali verrebbe considerato un diverso qualora li rifiutasse, quanto meno se ne desse palesemente segnali di rifiuto.
Viene così dimostrata la teoria illustrata in premessa secondo la quale la devianza non può essere considerata tale per l'azione in sé attraverso cui si appalesa, ma bensì in base alla reazione con cui la società si pone nei confronti del soggetto che attua l'azione, o, per meglio dire, in base alla considerazione che la società esprime in merito all'azione stessa, che in un dato conte sto sociale può essere considerata manifestazione di devianza, mentre in un constesto sociale diverso, viene recepita quale atto di rispetto di norme sociali condivise.
E' ovvio che tale affermazione non vuole affatto legittimare atteggiamenti ed azioni trasgressive delle norme penali o civili, ma soltanto spostare dal piano soggettivo a quello sociale l'angolo di lettura dei fenomeni di devianza.
In tale contesto anche il ruolo che la famiglia assume nella prevenzione dei fenomeni di devianza diventa un problema di natura culturale e quindi sociale, non permettendo di decontestualizzare dall'ambito più propriamente sociale nemmeno i rapporti di natura pedagogica ed affettiva che si sviluppano all'interno della famiglia tra genitori e figli.
E' noto infatti che la funzione pedagogica della famiglia, che é imperneata sul rapporto di dipendenza affettiva e sulla tendenza imitativa e di identificazione che i bambini hanno nei confronti dei genitori, mira a raggiungere lo scopo di rendere i bambini idonei ad un equilibrato processo di socializzazione.
Questa considerazione introduce il discorso sul ruolo delle altre agenzie di socializzazione, quali la scuola ed altri servizi sociali, in relazione alle cause che possono favorire o inibire i fenomeni di devianza minorile; ma introduce anche l'analisi della criminalità organizzata, quale ambito di sviluppo naturale per l'affermazione delle tendenze devianti dei giovani che, in un contesto sociale particolarmente carente di valori culturali moderni e antagonisti ai valori di vita delinquenziali, rischiano quotidianamente di venire assorbiti e "normalizzati" in quello che possiamo definire "conformismo nella devianza".
CAPITOLO IV
LA SCUOLA
L'intervento della scuola nelle devianze adolescenziali può dimostrarsi risolutivo poiché questa istituzione é in continuo contatto con il minore e con la sua famiglia. Nell'ambito scolastico si sviluppano rapporti tra alunni e docenti che non dovrebbero essere solo professionali, ma soprattutto umani e consentono all'istituzione di mediare nelle difficoltà relazionali dei minori con la famiglia o con i gruppi extrafamiliari.
La scuola é il mezzo preponderante attraverso cui le ideologie vengono imposte alla società: anche nelle società democratiche la scuola, pur ponendosi come mezzo di trasmissione del sapere, educa mancando in neutralità. Per mezzo di questa struttura di massa le giovani generazioni vengono educate da docenti più o meno naturalmente votati al gravoso compito di aiutare il minore a sviluppare il proprio potenziale umano in modo da potersene servire nei propri rapporti di convivenza. Alcuni di questi soggetti non raggiungeranno tale obiettivo, ed a causa di una preponderanza egoistica diverranno criminali, faranno del male agli altri, tenteranno di disporre degli altri come fossero oggetti. Ogni istituzione può reprimere gli effetti esterni del comportamento deviante, ma non certamente risanare il soggetto: occorre mirare all'educazione, attivare una terapia che valorizzi le potenzialità positive dei soggetti, far comprendere ai ragazzi che stanno formando la personalità la forza interiore che é insita nei rapporti umani.
Dopo i genitori, educatori primari, questo ruolo viene svolto dai docenti, che non hanno solo l'incarico di impartire istruzione, ma anche quello, tra l'altro previsto dalla costituzione, di infondere valori, di educare.
Purtroppo si fa ben poco per approfondire quest'aspetto dell'istruzione, curandone maggiormente la prospettiva tecnica. E' possibile divulgare per tutti i cittadini una istruzione di massa, ma non si può dare a soggetti differenti analoga educazione; essa deve essere individuata caso per caso impiegando le positività possedute da ciascun soggetto, affinché questi possa appropriarsi di mezzi culturali in grado di stimolarlo ed indirizzarlo verso un processo di socializzazione positiva ed al tempo stesso di formare compiutamente i caratteri della sua identità culturale. Nella realtà reggina la scuola rappresenta, soprattutto nelle zone urbane marginali, un'entità avulsa sia dal contesto sociale che dal contesto economico.
Fortemente carente é il rapporto tra scuola e ambiente esterno, quale il quartiere urbano ed i nuclei familiari. In particolare non esistono attività extrascolastiche che, coinvolgendo contemporaneamente adulti e ragazzi, potrebbero far sviluppare un interscambio culturale favorendo la crescita di una coscienza civile e sociale ed innescare quei meccanismi di integrazione di gruppo che sono base principale per una vera prevenzione dei fenomeni di devianza minorile ed in special modo di devianza criminale.
Questa separatezza tra scuola e società civile viene chiaramente recepita dai giovani reggini, come é possibile rilevare in un altro dato di indagine del Centro AGAPE; alla domanda "in che misura, secondo te, la scuola affronta oggi i problemi dei giovani e della società?" la somma tra le risposte "poco" (60,7%) e "per niente" (18,2%) rappresenta una percentuale che copre quasi com pletamente il campione intervistato (78,9%).
Questo divario tra l'istituzione scolastica e la realtà sociale provoca nei giovani una notevolissima difficoltà nell'affrontare il proprio futuro in maniera progettuale, alimentando la crisi di identità e di autostima che sono fonte prioritaria di anomia e, per conseguenza, di devianza. Fornendo solo un bagaglio di dati tecnici, spesso privilegiando la quantità alla qualità anche nel nozionismo, la scuola, del tutto scollegato al contesto economico della provincia reggina, viene vissuta dai giovani, anche sotto l'aspetto della preparazione all'inserimento nel mondo del lavoro, con un senso di inutilità che fa perdere loro interesse e spesso conducono all'abbandono scolastico, lasciando campo libero a quelle strutture dell'antistato, quali la 'ndragheta o gli ambienti della tossicodipendenza, che, essendo in grado di offrire un alternativa di guadagno immediato ed "emotivamente più avvincente", finiscono spesso con l'irretire i giovani culturalmente e socialmente più emaginati.
CAPITOLO V
'NDRANGHETA E DEVIANZA MINORILE
La 'ndrangheta reggina è caratterizzata da un'organizzazione basata sui clan familiari.
Il controllo del territorio, che esercita soprattutto per imporre la sua influenza attraverso il taglieggiamento degli operatori economici, l'infiltrazione negli apparati pubblici che distribuiscono e gestiscono la spesa destinata alle opere pubbliche, il sequestro di persona a scopo di estorsione ed il traffico nazionale ed internazionale di sostanze stupefacenti, viene messo in atto proprio utilizzando questo tipo di organizzazione, che vede l'egemonia di una o più famiglie mafiose per ognuno dei comuni, escluso il capoluogo, della provincia. Ma anche nel capoluogo e nei maggiori centri urbani della provincia la struttura familistica della 'ndrangheta viene confermata con la spartizione del territorio dei centri urbani tra le famiglie più influenti del luogo. Questo tipo di organizzazione della 'ndrangheta affonda le sue radici in una tradizione tipicamente reggina che vedeva, soprattutto nei centri rurali, un collegamento funzionale tra la proprietà terriera e le originarie 'ndrine che garantivano l'organizzazione ed il controllo del caporalato agricolo. Il rapporto che si è originariamente instaurato tra le 'ndrine ed i ceti popolari, prevalentemente contadini presentava delle caratteristiche sovrastrutturali prevalentemente alternative alla funzione esercitata dalle istituzioni pubbliche. Basandosi su un rigido codice d'onore, rafforzato da un altissimo senso campanilistico di appartenenza alla famiglia ed al territorio, la 'ndrangheta amministrava una sorta di giustizia rozza ed immediata, alla quale neppure gli appartenenti alla stessa 'ndrangheta potevano sfuggire. Tra le regole non scritte di questo "codice" della 'ndrangheta esisteva un rispetto quasi sacrale nei confronti delle donne e dei bambini. La trasformazione della società reggina registrata soprattutto negli ultimi trent'anni, che ha visto realizzarsi un salto qualitativo e quantitativo dell'organizzazione criminale della 'ndrangheta, che oggi presenta una struttura, seppur ancora basata sui clan familiari, di tipo simile alla mafia siciliana, ha del tutto dissolto gli originari codici di comportamento antropologicamente peculiari. La gestione di enormi affari e l'acquisito controllo di una grossa parte del mercato degli stupefacenti, a livello nazionale ed internazionale, ha posto nella disponibilità delle famiglie criminali reggine quantità di denaro che hanno scardinato tutto l'egoismo e la ferocia che erano insiti in una cultura povera di valori positivi, quali il rispetto della vita e della dignità dell'uomo. Tuttavia i dati statistici di rilevamento sulla percentuale di minori protagonisti o vittime di fatti delittuosi, relativi al quadriennio 1990 - '93 sembrano confermare la scarsa presenza attiva di giovani in età minorile nelle strutture e nelle attività della 'ndrangheta (vedi schede allegate). Questo dato non è però sintomatico di una estraneità dei minori rispetto al fenomeno di devianza criminale, infatti, basta leggere le statistiche relative ai giovani in età compresa tra i 18 ed i 30 anni uccisi in provincia di Reggio Calabria nei quattro anni che vanno dal 1990 al 1993, per vedere come l'influenza culturale delle famiglie mafiose prepara i giovani ad un inserimento dram maticamente "serio" nell'attività criminale; nel quadriennio sopracitato mentre i morti in età minorile sono stati 6 per motivi di mafia, 3 per faida e 2 per violenza volontaria, quelli in età compresa tra i 18 e i 30 anni sono stati 49 per motivi di mafia, 17 per faida e 12 per violenza volontaria. Ma anche i dati relativi alla commissione di reati da parte di soggetti minori è indicativa di una non immediata corrispondenza tra criminalità comune e criminalità organizzata; continuando a fare riferimento al quadriennio 1990 - 1993, si riscontra come circa l'80% dei reati commessi da soggetti in età minorile rientra nella tipologia dei cosiddetti "reati minori" (furti, scippi e più raramente rapine). L'analisi del rapporto tra criminalità organizzata ed adolescenti, con riferimento alla provincia di Reggio Calabria, presenta tuttavia una problematicità difficilmente semplificabile; negli ultimi due anni, infatti, si sono registrate sia nel capoluogo che negli altri centri della provincia, significative manifesta zioni di rifiuto da parte dei giovani del fenomeno criminale, e questo è un dato che va in controtendenza rispetto alla realtà messa in luce dai risultati dell'indagine del Centro Comunitario AGAPE, che fu realizzata nel 1987, e dai quali risultava un sostanziale atteggiamento di assuefazione e di rassegnazione ri spetto al fenomeno della criminalità mafiosa, sia da parte dei giovani che da parte delle loro famiglie. Nella stessa indagine risultava che i giovani ritenessero difficile o impossibile (68,8% del campione intervistato) che il fenomeno mafioso potesse essere eliminato dalla società reggina, il 24,6% dimostrava un moderato ottimismo nei confronti di quest'ipotesi ma riteneva necessari tempi molto lunghi e soltanto il 5,8% confidava in una rapida soluzione del problema. Un altro dato importante circa l'atteggiamento dei giovani, che oggi sembra notevolmente cambiato, è quello relativo all'individuazione dei soggetti chiamati a contrastare il fenomeno mafioso. Nel 1987, infatti, dall'indagine AGAPE (6) risultava che i giovani avessero maturato la convinzione che il problema della lotta al fenomeno criminale dovesse essere delegato in larghissima parte agli organi istituzionali quali Polizia, Magistratura ed Enti Locali (58,6% del campione intervistato), questo dato, seppur non sorretto da strumenti statistici, sembra oggi completamente ribaltato nella società reggina che sembra vedere un diffuso coin volgimento e presa di coscienza da parte dei giovani della necessità di un impegno in prima persona per contrastare sia il fenomeno criminale che la cultura mafiosa.
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(6) Centro Agape di Reggio Calabria, Indagine: I giovani e la Mafia, 1987.
continua nella SECONDA PARTE
