Recensione

"E’ una società complessa: libertà, identità e realtà".

recensione di E' un mondo complesso (di Pino Rotta)

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di Salvatore Romeo (*)


L’analisi affrontata nel libro di Pino Rotta spazia nelle più varie dimensioni della Conoscenza e, sebbene sia essenzialmente un saggio di sociologia, in esso vi ritroviamo ampi richiami alla storia e alla filosofia, alla religione e all’antropologia, alla psicologia e alla neurobiologia, all’urbanistica, alla telematica.

Osservando le dinamiche della società, non soltanto di quella attuale, ma, oserei dire, di tutti i sistemi sociali indipendentemente dal tempo e dai luoghi, questo lavoro è riuscito a farci riflettere, a mio avviso, su tre aspetti fondamentali e solo apparentemente diversi dell’esistenza umana: il senso dell’identità personale, il grado e la qualità del valore della libertà e come la realtà possa venire percepita a seconda dell’esperienza e dei filtri culturali.

Per addentrarci nel tema della serata dobbiamo a mio avviso fare una considerazione preliminare, nel senso di prendere consapevolezza che nulla di quanto diremo ci è estraneo, che tutto ci appartiene e ci tocca, ci influenza, ci condiziona in maniera più o meno evidente, poiché noi siamo nello stesso tempo soggetti e oggetti della società in cui viviamo.

La società è la scena e noi siamo gli attori, in una rappresentazione "a braccio", estemporanea, estremamente plastica perché sempre nuova e diversa.

Ogni giorno, quando ci accingiamo a lavorare, a studiare o semplicemente a programmare uno spazio di libertà distensivo entriamo in questo grande teatro sociale e ci confrontiamo con la sua immediatezza e con la sua imprevedibilità, ma soprattutto con l’aspetto, spesso illusorio, di una realtà fin troppo soggettiva e nella quale rischiamo di non ritrovarci più.

In un’epoca in cui tutti gli schemi spazio-temporali sono saltati, ci ritroviamo, in effetti, collocati in un luogo senza "centri", proiettati in una simultaneità esasperata, nella quale stentiamo a riconoscere quadri di riferimento univoci e stabili e dove ci viene difficoltoso riferirci a regole condivise e uniformi, le uniche che riescono a conferire un senso e un significato alle scelte morali e a dare un ordine equilibrato alla convivenza.

Ognuno di noi sembra chiamato, così, a costruire e ad elaborare soggettivamente i propri cardini di condotta, seguendo solo la propria coscienza e riferendosi a un relativismo morale che comporta una pericolosa evanescenza dell’etica solidale e che rischia di creare una società individualizzata e smarrita.

Se da un lato, infatti, sembra diffondersi sempre più la tensione verso la globalità, dall’altro si amplificano anche la diffidenza e la paura del nuovo e dello sconosciuto.

Ma una società in cui l’agire personale è sostanzialmente sottoposto quasi esclusivamente al giudizio della propria coscienza, è una società libera?

Certo, superficialmente tutto questo può sembrare il massimo livello di libertà raggiungibile (fare ciò che ci pare e si vuole, seguendo solo le nostre disposizioni, sia pure nel rispetto dei confini degli altri).

Invece è solamente una manifestazione aberrante di quello che i sociologi definiscono come società anomica, una società, cioè, senza norme e senza leggi che la organizzino e che facciano da intermediarie tra le esigenze degli uni e degli altri.

E però anche tra la società nel suo insieme e i singoli membri esiste una reciprocità molto stretta e le regole sociali, insieme a un sistema di valori unanimemente condiviso, sono gli elementi essenziali per uno sviluppo armonico sia della società stessa che della personalità individuale.

Se la personalità è una dimensione estremamente soggettiva, non dobbiamo tuttavia dimenticare che attraverso le interazioni quotidiane con l’ambiente ognuno di noi si forma anche una certa identità sociale.

Ora, se questi due aspetti (Io personale ed Io sociale) sono estremamente divergenti, è gioco forza che possano entrare in conflitto, rompendo in tal modo quell’equilibrio necessario che ci consente di coesistere come membri adattati di un determinato contesto storico e sociale.

Al giorno d’oggi siamo giunti ad un livello enorme di indipendenza e diamo sempre minore importanza all’esperienza e alla memoria.

Potremmo dire, in definitiva, che si sta realizzando quella "libertà da" (dai miti, dalle tradizioni, dalla famiglia, dalle norme costituite) teorizzata da Fromm.

Ma è una falsa libertà, questa, a mio avviso, in quanto indebolisce il nostro innato bisogno di sicurezza e amplifica i limiti della nostra natura individuale.

Lo smarrimento che deriva dalla disarmonia tra Io personale ed Io sociale può spingere a ricercare spazi di sicurezza nel conformismo, poiché solo la percezione di essere simili agli altri può dare una certa parvenza di appartenenza e, quindi, di sicurezza.

Ma è una strada che a mio parere è solo apparenza, appunto, e che contiene il rischio di avviarci tutti verso una condizione che ci rende paradossalmente schiavi di una cultura omologata e di comportamenti convenzionali.

La vera libertà non si limita alla sola possibilità di agire liberamente, ma è il perseguimento della sovranità su se stessi e sul proprio modo di pensare e di essere: è, in sostanza, la realizzazione compiuta dell’autonomia personale.

Purtroppo, tutto ciò che ci viene comunicato dall’esasperato senso consumistico di oggi non consente di realizzare, invece, la vera libertà, quella "libertà verso" il dominio della natura, della scienza e dei suoi meccanismi, facendoci riappropriare del nostro predominio naturale.

Anzi, attraverso l’uso sconsiderato dei mezzi di comunicazione di massa, che formano e informano nello stesso tempo, questo tipo di Società sottomette ancora di più l’individuo e, con i singoli individui, la coscienza comune, compromettendo il vero senso della libertà.

E’ come se noi fossimo completamente assoggettati alle nostre stesse scoperte e invenzioni, non considerandole dei semplici strumenti, bensì degli oggetti da utilizzare obbligatoriamente, come fanno i bambini con un giocattolo nuovo, rimanendone schiavi, anziché diventare i padroni di queste meravigliose opportunità della scienza e della tecnologia.

Esiste pertanto uno stretto legame tra Cultura, identità personale e Libertà.

Le radicali trasformazioni sociali a cui assistiamo oggigiorno sono figlie legittime, infatti, della convulsa evoluzione culturale determinata dallo sviluppo vertiginoso della scienza e della tecnologia, specialmente negli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato sicuramente una crescita, ma che proprio per questo hanno causato anche una "crisi", una crisi generazionale nella quale la vecchia generazione non riconosce più i suoi consolidati punti di riferimento e la nuova stenta a trovarne altri, stabili e duraturi.

In questo senso possiamo allora tranquillamente dire che la complessità racchiude in sé la possibilità concreta di rideterminare e di ricostruire completamente tutta la condizione umana e, ancora, che il tipo di comunicazione utilizzata, insieme alla velocità degli scambi culturali e alla modificazione dei linguaggi, caratteristica più palese delle società contemporanee, è in grado di produrre un sostanziale e deletereo disorientamento generale, se queste qualità nuove non vengono interpretate e affrontate con equilibrio e lungimiranza.

Ecco, pertanto, che la competenza con cui questo tema viene trattato in questo libro rappresenta senz’altro un’ottima occasione di riflessione e di approfondimento per conoscere non solo le cause, ma soprattutto le dinamiche che stanno alla base della diversità e della complessità che caratterizzano il contesto globale al quale oramai, chi più chi meno, tutti noi partecipiamo.

La complessità della società attuale si struttura, secondo quando asserito nel lavoro che abbiamo avuto il piacere di leggere, partendo da una base comune e prende via via strade diverse in rapporto alla cultura e alla tradizione del luogo in cui attecchisce e si sviluppa successivamente.

Da qui, pertanto, non solo il sempre maggiore livello di complessità, dovuto a un arricchimento fisiologico che, col passare del tempo, somma sapere a sapere, ma anche la diversità a cui accennavo prima, a causa dell’innestarsi di saperi nuovi su una tradizione già consolidata, e forse ancora non preparata, ma forse rassegnata, ad assimilare e ad integrare compiutamente modi di essere e di pensare estranei e spesso assolutamente diversi dai nostri, poiché prodotti in luoghi lontani e importati senza alcun adeguato senso critico.

E qui ritorna il concetto di schiavitù e di libertà a cui facevo riferimento qualche minuto fa, dato che questo assorbimento-non-integrato produce quella sorta di omologazione piatta che annulla o non valorizza a sufficienza le differenze culturali e le tradizioni particolari delle varie regioni del mondo, mortificando in tal modo il patrimonio e l’originalità delle diverse identità.

Ancora non siamo riusciti a padroneggiare in modo maturo i mezzi telematici e non ci siamo abituati a sfruttare da adulti le opportunità offerte dalla globalizzazione.

Eppure la globalizzazione non è un fenomeno così nuovo come comunemente siamo portati a considerarlo.

E’ un processo avviato già da tempo.

E’ negli anni Ottanta del secolo scorso che cominciano a sorgere i concetti di società complessa, e poi di globalizzazione e di cosmopolitismo.

Queste nuove realtà investono tutti gli ambiti del nostro vivere quotidiano e in questo villaggio metaforico omogeneizzato, oramai quasi tutte le comunità del mondo sono unite in una specie di immensa comunità virtuale che trascende i luoghi e che non riconosce più confini limitanti a nessuna cosa, a nessuna opportunità o aspettativa.

Non si tratta di cambiamenti solo quantitativi, ma di una trasformazione che coinvolge la qualità dell’esistenza.

Dopo le prime rivoluzioni industriali abbiamo assistito ad un fenomeno inaspettato, poiché all’aumento delle possibilità di una vita migliore consentita da una maggiore disponibilità di beni e di ricchezza, è corrisposta parallelamente una sempre più profonda alienazione umana.

La concentrazione di immensi numeri di persone in agglomerati urbani inadeguati e disorganizzati ha deprivato gli uomini di identificazioni, di radici e di tradizioni comuni, creando a volte solo dei nostalgici dell’identità perduta, poiché lasciata nei luoghi di provenienza, persone disorientate in questi nuovi ambienti nei quali lottare per ricominciare a ricostruirsi, correndo dietro a catene di montaggio sempre più ripetitive, veloci e disumanizzanti.

Al giorno d’oggi questo stesso rischio potrebbe invece derivare da un processo opposto, cioè dall’allargamento dello spazio in cui ognuno di noi si ritrova ad esistere, vivendo una realtà virtuale dilatata.

E’ anche sul concetto di realtà che il saggio di Rotta ci invita a riflettere, considerando che essa è variabile, o meglio, soggettiva, nella misura in cui viene interpretata, elaborata e vissuta dai diversi punti di osservazione.

Prospettive diverse possono dare immagini differenti delle cose, e nel nostro caso un cambiamento di prospettiva può non necessariamente coincidere con un concetto spaziale, ma derivare, invece, da una disposizione diversa dei nostri sensi, come ci viene suggerito dai ricchi richiami presenti nel libro stesso, e forse ancor più dalla disponibilità dei nuovi mezzi informatici.

Il modo in cui percepiamo l’ambiente dipende dalle capacità che i nostri sensi hanno di cogliere il contesto e dal substrato neurologico e psicologico su cui questi stimoli esterni poi agiscono, arricchendo la realtà percepita di qualità affettive e ideali, e i nostri sensi sono oggi enormemente condizionati dall’uso delle nuove tecnologie.

L’assetto cognitivo percepisce, confronta, riconosce, valuta e poi fornisce le disposizioni per compiere le operazioni di risposta, in un dinamismo reciproco che plasma, nello stesso tempo, il soggetto e l’ambiente, l’attore e la scena, come dicevo prima.

Si realizza così un mutamento continuo della realtà, che dipende non tanto da quanto essa effettivamente conti, quanto soprattutto da come ognuno di noi la percepisce.

Questo non vale solamente per le esperienze individuali, ma se facciamo lo sforzo di ampliare un po’ il nostro orizzonte razionale possiamo renderci conto che le stesse regole agiscono anche a livelli diversi, su scala diversa, in dimensioni diverse, comprendendo anche la concezione della realtà propria di una determinata società in un determinato periodo storico.

Estremizzando un po’, possiamo affermare che l’assetto cognitivo globale di una società ne condiziona la visione collettiva.

Ad una riflessione superficiale si potrebbe correre il rischio di pensare, dunque, che non esista una vera e propria realtà, una verità immutabile e indipendente dal nostro soggettivismo, dando così credito a ciò che asserivano i sofisti, oppure alla tendenza sciagurata attuale di pensare che la felicità consista unicamente nel bene personale e privato.

Ma la dialettica esasperata, secondo la quale è possibile dimostrare tutto e il contrario di tutto, non descrive e non esprime in pieno, però, quello che sta alla base del nostro essere.

L’altra sera, in occasione della conversazione che verteva sui filosofi presocratici, era stata posta la domanda se e come potesse configurarsi una filosofia delle scimmie.

Ebbene, sta proprio qui il nucleo della questione: noi non siamo delle scimmie e nemmeno dei robot.

Noi siamo Uomini e perdersi in questi sofismi, in questi linguaggi relativi, non aiuta certo a focalizzare, e a realizzare, l’essenza dell’essere umano, quell’essenza che ci ha resi uomini pensosi e pensanti, possessori sì di un corpo, a cui cercare di fornire la soddisfazione maggiore possibile, ma anche di una mente, di un’anima e di uno spirito, persone ricche di valori e di ideali e provviste di una identità originale, storicizzata e radicata.

Se è vero, come è vero, l’antico adagio secondo cui l’uomo non si nutre di solo pane, allora dobbiamo porci con forza la domanda circa lo spirito che sta animando questa nuova società: il progresso deve per forza di cose rivolgersi esclusivamente al benessere materiale dell’individuo?

Deve per forza di cose gratificare "qui ed ora" qualsiasi fantasia o desiderio?

Necessariamente, per essere al passo coi tempi, dobbiamo trasformare la società secondo i principi prevalenti del mercato e della competizione?

In una siffatta società, volatile e frenetica, instabile e illusoria, non vi sarà più spazio, quindi, per la sana "lentezza" che aiuta la meditazione e la maturazione?

Dinanzi al fenomeno della complessità c’è quindi un interrogativo di fondo, che forse racchiude tutti quelli enunciati fin qui, e che riguarda la possibilità e il limite se il tipo dei rapporti sociali e interpersonali che avvengono oggi dietro schermi di computer o su fili telematici oppure attraverso onde elettromagnetiche, l’espansione del mondo occidentale, il risveglio dell’Oriente e l’incremento delle relazioni tra i popoli, possano o meno promuovere e incrementare il processo di crescita umanitaria dei singoli uomini e, di conseguenza, delle loro comunità.

Questa domanda deve comportare una riflessione doverosa, però, circa il significato profondo del termine "crescita", il cui senso pervade tutto il libro come un filo invisibile che attraversa la trama di un tessuto delicato e complesso.

La crescita dell’Uomo deve essere innanzitutto crescita interiore, consapevolezza del proprio significato all’interno di un disegno molto più ampio della semplice esistenza particolare, la qualcosa racchiude a sua volta concetti che si riferiscono a valori e ideali che uniscono la comunità umana e ai quali occorre ispirare non solo il proprio pensiero, ma anche, se non soprattutto, il proprio agire, se è vero come è vero che l’azione nasce sempre da un pensiero.

Fin quando ci si sofferma ai margini della via o affacciati alla finestra, il senso della libertà viene frustrato e mortificato e si lascia un luogo vuoto che solo i più intraprendenti, e quindi i più spregiudicati, riescono a colmare.

In questo quadro allora forse può divenire più chiaro il significato dell’interrogativo precedente, nel senso che il perseguimento di ideali positivi e unificatori comporta a sua volta la produzione di una società ispirata agli stessi valori.

Vorrei fare a questo punto, però, un’ultima considerazione, probabilmente molto personale, sul termine "valori", laddove, a mio modesto parere, rischieremmo di cadere in una sorta di trappola linguistica se per "valori" intendessimo una serie di enumerazioni etiche a cui conformare la nostra esistenza.

Un paradigma di questo genere non può che derivare da un imperativo morale, imperativo che discende da un concetto psicologico: il Super-Io, personale o sociale che sia, e in quest’ottica, quindi, un "valore" assume la connotazione di un dovere a cui sottomettersi per sentirsi in pace con se stessi o per adeguarsi e conformarsi alle regole e alle leggi della Società in cui si vive.

Invece, il senso universale dell’esistenza dovrebbe fare riferimento a qualità intrinseche all’Uomo, a "beni", cioè, che sono strutturati nella nostra essenza naturale, a beni che fanno parte integrante dell’Essere, che non ci vengono dati da sovrastrutture culturali, ma che ci vengono suggeriti dal nostro mondo interiore, dalla nostra coscienza, o dal nostro puro e semplice essere uomini.

Questo "bene" è pertanto connaturato, è una qualità già presente in noi e che appartiene alla nostra dimensione: dobbiamo solo ricercarlo, riconoscerlo e riscoprirlo.

(*) psichiatra

 

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